Pane e supermercati: la vergogna è servita

gdo-vergogna-paneMigliaia di tonnellate di pane e altri prodotti da formo finiscono in discarica ogni anno. Contratti capestro ne inducono la sovrapproduzione e leggi inflessibili ne impediscono l’utilizzo, anche se benefico

 

 

Quasi 290 mila tonnellate di pane nella spazzatura. In Italia, ogni anno.
Già nel 2010 il “Corriere della Sera” denunciava quello che agli occhi di ogni persona sensibile ai temi della fame e della povertà appare sicuramente un crimine che urla vendetta al cospetto del Cielo.
Secondo l’articolo del quotidiano di via Solferino, la sola città di Milano ne sprecherebbe 18 tonnellate al giorno. Circa 6 mila e 500 tonnellate all’anno.
«Bando ai falsi moralismi – avrebbe tuonato in quel articolo Sandro Castaldo, ordinario di Marketing all’università Bocconi di Milano – Il nostro sistema di produzione, distribuzione e consumo rende inevitabili gli sprechi di molti altri prodotti deperibili. Pensiamo alle enormi quantità di pomodori o arance che vengono distrutte“.
Della serie: non è immorale che si sprechi pane perché, in fondo, già si sprecano pomodori e arance. Una logica invero schiacciante, a patto di aver buttato nella spazzatura, oltre che pane, pomodori e arance, anche il più banale senso di attenzione sociale e di sensibilità umana.
Questo è solo uno degli infiniti casi in cui si cerca di sdoganare un fenomeno scandaloso semplicemente ricordando che di fenomeni scandalosi ce ne sono altri. Seguendo questa (il)logica diventa tutto lecito, tutto normale. Perfino tutto “morale”.
Chi si scandalizza per questi sprechi di cibo, quindi, cosa dovrebbe fare? Vergognarsi perché ipocrita? Oppure, sicuramente più sensato sarebbe il vergognarsi perché complici di questo sfacelo morale prima ancora che economico.
Il problema, infatti e sempre secondo l’articolo del “Corriere della Sera”, risederebbe nel fatto che i consumatori sono sempre più esigenti e vogliono prodotti sempre più differenziati. Ciò creerebbe delle diseconomie produttive con grande aggravio degli scarti finali complessivi.
Grazie a una domanda crescente da parte di consumatori un po’ viziati e capricciosi, da forni e supermercati continuerebbero quindi a fuoriuscire tonnellate di pane ancora buono, ma che per le logiche del mercato è ormai solo spazzatura.
Se però i singoli piccoli fornai di paese sono sicuramente interessati a ridurre gli sprechi, perché alla fin fine ogni panino rimasto invenduto lo pagano loro, la Gdo pare aver creato un sistema molto scaltro per non doversi preoccupare di fare stime accorte dei volumi di pane da ordinare ai forni industriali. Questo almeno secondo quanto emerge da un altro servizio, questa volta televisivo.

Capestri e sudditanze

Nella puntata del 5 gennaio di “E se domani“, programma Rai3 condotto da Massimiliano Ossini, si parla ancora di pane. Soprattutto, e con somma vergogna, degli sprechi di pane.
Nel servizio di Teresa Paoli viene infatti ricordato uno dei circoli perversi grazie ai quali le produzioni agricole vedono la propria fine non negli apparati digerenti di persone o animali, bensì in qualche discarica.
Com’è possibile che un cibo nobile e simbolicamente popolare come il pane subisca un tramonto così svilente e scandaloso? Si chiama business, cari lettori.
Dal servizio di “E se domani” lo spaccato commerciale che emerge è il seguente: diversi forni industriali forniscono pane, focacce e pizzette ai molti punti vendita della grande distribuzione organizzata, ovvero la nota Gdo. Le quantità fornite sono sempre superiori a quelle realmente vendute perché, secondo quanto lasciano ad intendere gli stessi fornitori intervistati, nessuna Gdo vuole rischiare di perdere vendite in caso finisca il prodotto quando ancora ve ne è richiesta. Ciò fa si che alla fine della giornata avanzino sempre svariati chili di prodotti da forno nei banconi dei supermercati.
C’è una cosa però che i consumatori non sanno, o fanno finta di non sapere: quel pane, quelle pizzette, quelle focacce, finiranno allo smaltimento senza nemmeno provarci a utilizzare tutto quel ben di Dio con finalità più nobili di quelle di nutrire aspergilli e penicilli dentro una discarica.
Il meccanismo economico e logistico che porta a questo scempio ha del paradossale: al forno industriale viene ordinato dalla Gdo più prodotto del necessario, ma viene pagato solo in base al venduto e non al fornito. Quindi il fornitore ci rimette pure dei soldi in termini di costi di produzione, avendo sfornato beni che già in principio si sa che faranno una brutta fine.
Inoltre, è per giunta tenuto per contratto a ritirare l’eventuale eccedenza e ad accollarsi lo smaltimento di cibi che per sommo scandalo sarebbero ancora perfettamente edibili.
Dato infatti che la legge prevede che la vendita di quei prodotti duri sono l’arco delle 24 ore, alla mezzanotte quel pane diventa rifiuto e quindi non si può più tentare di rivenderlo il giorno dopo. Né del resto, e per le stesse ragioni normative, può essere donato alle mense dei poveri o regalato alle persone più indigenti.
La risultante dell’interazione fra questi contratti capestro e una legge inflessibile è che migliaia di tonnellate di pane e prodotti similari finisce smaltito annualmente nelle discariche. E questo quando va bene, perché dalla trasmissione televisiva non emerge in modo chiaro un particolare approfondimento delle modalità di smaltimento stesse.
Venendo a mancare di fatto il rischio d’impresa, scaricato completamente sui fornitori, la Gdo non ha alcun interesse a limare gli ordinativi. E quindi trova molto facile ordinare dei surplus.
Una logica simile alla distribuzione dei giornali nelle edicole: le eccedenze le ritira la società distributrice.
Peccato che per questo settore sia inevitabile generare un certo numero di copie invendute: se per ogni tipologia di giornale le piccole edicole dovessero accollarsi il rischio d’impresa, fallirebbero tutte nel giro di un mese. E poi la carta almeno si ricicla.
Diverso il discorso per il cibo, il quale in effetti dovrebbe seguire logiche più raffinate di calcolo, atte a limitare al minimo gli sprechi.

Non pare mai abbastanza

Che fra agricoltura e Gdo vi sia da sempre un continuo braccio di ferro si sa. Nonostante molti continuino a decantare anche nel settore primario la grande importanza delle filiere, alla fine la forza contrattuale è sempre sbilanciata a favore della Gdo, mai dell’agricoltura. E chi è più forte detta le regole.
Talvolta però, almeno un limite all’ingordigia lo dovrebbe mettere se non il mercato almeno il pudore. Invece niente: Ballarò, sempre su Rai3. Puntata del 18 dicembre 2012. Francesco Pugliese, direttore generale di Conad, ironizza con il ministro all’Agricoltura Catania per l’articolo 62 della legge sulle liberalizzazioni. In sostanza, questo articolo stabilisce l’obbligo di tempi certi per i pagamenti dei fornitori: 30 giorni per i prodotti deperibili e 60 giorni per le altre categorie merceologiche, come pure prevede sanzioni atte a scoraggiare pratiche commerciali sleali.
Contrariamente a quanto avvenuto fino a oggi, cioè, i fornitori di frutta e verdura dovranno essere pagati in tempi civili. Tempi che sono già la norma in tutto il resto d’Europa.
Del resto, la Gdo incassa subito. Al limite, qualche settimana dopo in caso di pagamento con carta di credito. I tempi di pagamento degli agricoltori, invece, sono sempre stati “Abm”: a babbo morto.
Con l’articolo 62 si cerca di porre quindi fine a una stortura che ha da sempre messo in difficoltà il comparto agricolo, perennemente in lotta con il mondo del credito per riuscire a produrre nell’anno in corso utilizzando i soldi ottenuti per le forniture consegnate l’anno precedente. In altre parole, gli agricoltori spesso si devono indebitare perché non possono contare in tempi civili sul denaro che spetterebbe loro in un mondo normale.
Pugliese però non ci sta. La Gdo ha secondo lui già abbastanza problemi con i ticket-restaurant. Per chi non lo sapesse infatti, un cliente di supermercato può anche utilizzare questa forma di pagamento.
Ovviamente, accettando i ticket, la Gdo incassa il denaro liquido solo dopo tempi che sono variabili fra le settimane e i mesi.
Povera Gdo: costretta ad anticipare l’ortofrutta alla propria clientela per poi essere pagata in differita. Se non ci fosse da piangere vi sarebbe da ridere.
Personalmente, in decine di anni di spese nei supermercati non ho mai, e ripeto mai, visto qualcuno vicino a me pagare con i ticket-restaurant. Abitudine consolidata invece quella della Gdo di pagare a 120 o 180 (o più) giorni i prodotti alimentari acquistati dal comparto agricolo.
Cercare quindi di far passare come una giusta legge del contrappasso quella dei tempi dilazionati di pagamento agli agricoltori per compensare i ticket-restaurant appare idea alquanto fantasiosa e bizzarra. Magari anche un po’ immorale.
L’accenno ai ticket mi ha ricordato un po’ la battuta del tassista che trasporta Roberto Benigni in “Johnny Stecchino“, tassista che sostiene come il vero problema di Palermo, ciò che rappresenta una vera vergogna agli occhi del mondo, “... è il traffico!“. Solo che le affermazioni di Pugliese non mi hanno per nulla fatto ridere.

Fare passi avanti

In economia si parla di “posizione dominante” quando un’impresa detenga quote di mercato sproporzionate rispetto alla concorrenza. Ciò permette a questa azienda di operare in condizione di forte superiorità contrattuale, annullando di fatto la libertà di concorrenza stessa.
Il più forte, cioè, detta lui stesso le regole, imponendo al mercato condizioni e prezzi svantaggiosi per tutti gli altri.
Quando si parla dei rapporti fra Gdo e agricoltura, o comunque fra Gdo e ogni interlocutore che non sia un colosso tipo Barilla o Nestlé, non si può configurare il rapporto di “posizione dominante” solo perché i contratti fra le parti non sono fra concorrenti, bensì fra clienti e fornitori.
Quindi le parti firmano un contratto e accettano le condizioni in esso contenute secondo logiche di “piena libertà di scelta“.
Visto però che nella trasmissione di “E se domani”, i rappresentanti dei forni industriali intervistati hanno perfino richiesto di parlare in forma anonima, per paura di ritorsioni, vi è da dubitare che quei contratti siano firmati in un reale stato di libera contrattazione.
I forni, detta in altre parole, firmano perché hanno una pistola commerciale puntata alla tempia: se non firmi tu, come te ne trovo almeno dieci disposti a subire ogni vessazione pur di lavorare al posto tuo. E così crolla il castello della libera contrattazione.
Sarebbe quindi auspicabile che il prossimo Ministro dell’agricoltura, o qualunque altro ministro con qualche competenza in materia, proseguisse nel cammino intrapreso da Catania, fissando delle norme ispirate al principio di lotta a ogni “posizione dominante”.
Perché quando una trattativa non è alla pari, la legge deve intervenire. Esattamente come un arbitro di pugilato interviene per fermare un match quando uno dei due pugili stia infierendo oltre misura sull’avversario, mettendone a rischio l’incolumità o addirittura la vita.
E solo il Cielo sa quante botte feroci e spietate ha subito un’impreparata agricoltura, ogni volta sia salita sul ring per cercare di ottenere qualcosa dalla Gdo.

No perditempo please