Principi di precauzione e memoria corta

Granella del mais: è solo il 25% in peso di ciò che si raccoglie da un campoEssere prudenti è cosa saggia. Essere paranoici è invece una patologia. Se poi non si ricorda nemmeno il passato recente, allora la paralisi diventa irrimediabile

Contro gli ogm si sventola spesso il principio di precauzione, sul quale si è già scritto. Ma siamo sicuri che questo principio sia applicato oggi in modo ragionevole? Provate a immaginare: un bel giorno vi trovate nei banconi dei supermercati un cibo che non avevate mai mangiato prima. Una novità, assoluta. Incuriosisce, attrae. Stimola la voglia di provare. Il fatto che sia lì, esposto nelle cassette dell’ortofrutta, in fondo ci rassicura. Diamo per scontato che qualcuno si sia preso la briga di valutarne la pericolosità, i potenziali effetti collaterali. Se son lì, che diamine, saranno sicuri, no? Invece, quel tipo di cibo non c’è nessuno che lo abbia valutato, né dal punto di vista tossicologico, né ambientale. Eppure, è lì, in mezzo a tanti altri cibi cui siamo invece abituati. E ciò ci porta a comprarne un po’ e assaggiarne. Solo dopo qualche tempo, allargandosene i consumi, si scoprirà che mica tutti possono mangiarlo, quel cibo, perché qualcuno ha avuto delle reazioni allergiche e ha scoperto, provandolo su se stesso, che non lo può mangiare più.

Class action contro i supermercati e gli importatori? Macché, si smette di mangiarli se ci hanno fatto stare male e bòn. Nessuno protesta. E tutti stanno zitti pure quando, misurati i volumi commerciali generati da quel cibo, si capisce che quelle piante aliene per i nostri areali sono coltivabili benissimo anche in Italia. Quindi, alcune aziende nostrane entrano in contatto con i coltivatori esteri e comprano i materiali di propagazione per prodursi quel cibo in piena autonomia. Qui, in Italia. Basta togliere qualche vigneto, qualche pescheto, qualche prato e la nuova coltura trova spazio. Non c’entra nulla con i nostri paesaggi. Non c’entra nulla con la nostra tradizione agricola. Eppure, ancora, nessuno protesta. Quella coltura prende migliaia di ettari nel silenzio generale. Questo perché nessuno si chiede se quelle piante aliene possano veicolare in Italia parassiti, batteri e funghi patogeni, altrettanto alieni. Tutto sommato, il recente caso Xylella degli ulivi del Salento è nato così: piante importate dal Centro America hanno portato in Italia un batterio che ora sta mettendo a rischio l’intera olivicoltura pugliese. Del resto, nessuno si è preoccupato nemmeno se il polline di quelle piante possa contaminare e ibridare specie locali, generando “mostri” genetici assolutamente inediti per l’ambiente italiano.

Quindi, nessuno pare proprio essersi posto particolari problemi nel dare l’ok alle importazioni prima e alla moltiplicazioni poi di quelle piante “innovative” e dei suoi relativi frutti. Insomma, un cibo che nessuno ha testato prima, e infatti dopo son saltate fuori anche allergie inaspettate, non solo è stato messo in commercio, ma anche le piante che lo producono hanno ricevuto l’ok per la coltivazione qui, in Italia, in barba alla nostra tanto sbandierata tipicità, al nostro paesaggio, alla nostra biodiversità. Una genetica mai vista prima nello Stivale adesso è lì, nei campi. E i suoi frutti sono lì, nei nostri frigoriferi. Credete si stia parlando del Ttip, cioè il trattato di libero commercio in via di definizione fra Usa ed Europa?

Pensate forse che si stia alludendo agli ogm e ai cibi Frankenstein? Cioè quelli che, sebbene siano stati testati all’inverosimile per quasi vent’anni, continuano a provocare becere levate di scudi, brandendo come una clava proprio il fatidico “principio di precauzione”?

No, si sta parlando dell’actinidia, la pianta che produce i kiwi.

Chi è nato negli Anni 90 è cresciuto con le piantagioni di actinidia sparse qua e là in molte regioni d’Italia. Chi invece come me è nato negli Anni 60, ha visto arrivare questi frutti negli Anni 80 e ha visto piantare “kiweti” ovunque, alterando profondamente i paesaggi e le pratiche agricole. Quindi io ne conosco bene l'”alienicità”, mentre i giovani no. Per loro l’actinidia fa parte del paesaggio e della dieta cui sono abituati. Per loro, quell’alieno è “normale”. Buffo no? Una cosa provoca reazioni avverse solo se si sa da dove viene e che cos’è. Se non lo si sa, tutti zitti.

E meno male, perché il kiwi in Italia non ha fatto alcun danno particolare, mentre ha diversificato le attività agricole e ha permesso di mangiarne i frutti senza doverli importare dalla Nuova Zelanda, con un’impronta carbonica spaziale. Quindi va visto come un’esperienza alimentare e agricola estremamente positiva.

Ma… e se qualche Pierino, causa paranoie personali o interessi associativi e politici, si fosse messo in testa di allarmare la gente sul kiwi e sulle sue piante? E se i dubbi sopra esposti li avesse piantati nelle teste dei consumatori, sfruttandone la diffidenza e l’ignoranza, come sarebbe andata a finire? Sarebbe finita che se qualche arruffapopolo di professione avesse invocato lo stramaledetto principio di precauzione, oggi non mangeremmo kiwi. Ovviamente, senza che ciò portasse alcun vantaggio all’Italia o ai consumatori. Anzi.

Quando perciò sentirete ancora sventolare in modo gaglioffo il tanto stuprato principio di precauzione, magari contro il mais gm resistente agli insetti, ricordatevi che il suo inserimento negli areali maidicoli nostrani sarebbe di gran lunga meno avventato di quanto fu quello che permise all’actinidia di insediarsi nel Bel Paese. Per lo meno: sarebbe molto più supportato da dossier e dati scientifici di quanto fosse il simpatico frutto neozelandese.

E senza che alcuno abbia fatto “Pè” per questo.

Ah, giusto per chiarire un altro punto: l’utilità o l’inutilità degli ogm, altro cavallo di battaglia degli ostruzionisti in malafede delle biotecnologie. Nella foto sotto ci sono gli esiti di un attacco di piralide su mais in un campo del lodigiano. Il campo intero era pesantemente infestato da questo parassita, il quale non solo distrugge foglie e pannocchie, ma apre anche la via alle micotossine, altamente cancerogene, obbligando all’uso di centinaia di tonnellate di insetticidi all’anno per contrastarlo come si può. Spesso con esiti insoddisfacenti. Non a caso talvolta alcune partite di mais risultano non-commercializzabili proprio a causa delle micotossine presenti. Quindi i mais Bt, resistenti alla piralide, servirebbero eccome. E porterebbero vantaggi enormi alla filiera zootecnica italiana di pregio, quella cioè alla base dei salumi e dei formaggi tipici, tanto per intenderci. Proprio quelli che si strilla (mentendo) verrebbero distrutti dall’avvento delle biotecnologie, facendo finta di non sapere che già oggi quegli animali sono nutriti anche con ogm, ma d’importazione. E meno male, perché se così non fosse molte filiere di assoluto valore s’ingripperebbero, data l’atavica dipendenza dai mangimi esteri di cui patisce l’Italia.

Giusto per capire di quale doppiogiochismo stiamo parlando, avete presente Coldiretti quando tuona contro gli ogm? Benissimo: mentre il portavoce di turno si straccia le vesti in tv contro le biotecnologie, qualche operaio dei consorzi agrari, feudi commerciali proprio di Coldiretti, carica col muletto quintali di mangimi contenenti ogm sui furgoni degli allevatori locali.

Della serie, sugli ogm sputo sopra la mattina, ma ci faccio affari d’oro nel pomeriggio. Tanto che vuoi che ne sappiano i consumatori italiani, quelli rimbecilliti dalle trasmissioni televisive farlocche e dai siti internet demenziali?

Al contrario, gente, le biotecnolgie agricole contengono potenziali benefici per tutti, non solo per i maiscoltori. Alla faccia dei furfanti i quali, per difendere i propri orticelli economici, ideologici, politici e associativi, continuano a definire “inutili” per l’Italia questi ibridi geneticamente modificati…

Furfanti che stanno quindi danneggiando tutti voi, in modo diretto o indiretto. Sapevatelo!

Attacco di piralide su mais

Attacco di piralide su mais

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