Non esistono bugie a fin di bene

Chiarezza senza fittizi allarmismi: unica via per spiegarsi correttamente

Sul riscaldamento globale vi sono diverse certezze: la prima è che esiste, la seconda è che l’uomo ne è responsabile per la gran parte, la terza è che la comunicazione mediatica e politica è stata disastrosa

Che l’anidride carbonica sia una forzante climatica lo si sa da oltre un secolo, ovvero dai tempi di Arrhenius. Che il picco attuale superiore alle 400 ppm (parti per milione) sia il più alto dell’ultimo milione di anni è pure questo un fatto: senza alcuna perturbazione aggiuntiva, nell’attuale fase interglaciale dovremmo stare al massimo intorno alle 300 ppm, fossimo in linea con i precedenti picchi che si sono susseguiti con cadenza di 80-90mila anni. Ergo, quelle 100 e passa parti per milione in più ce le abbiamo messe noi, molte delle quali nel volgere di pochi decenni per giunta. Del resto, se carbone, gas e petrolio ci hanno messo milioni di anni per formarsi nel sottosuolo e noi li estraiamo e li bruciamo a rotta di collo per un paio di secoli, il pulse di CO2 in atmosfera non poteva certo essere diverso da quello osservato.

La persistenza pluridecennale dell’anidride carbonica in atmosfera fa poi sì che sulle nostre teste ci sia ancora della CO2 emessa dai nostri nonni e bisnonni quando ancora di Global Warming non se ne parlava affatto. Il problema è che quella che emettiamo noi resterà altrettanto sulle teste dei nostri nipoti e bisnipoti, con l’aggravante che ne abbiamo prodotta molta ma molta di più.

Chiarito quindi che questo post non intende discutere dei cambiamenti climatici, innegabili, e delle sue origini prettamente antropiche, altrettanto innegabili, vediamo cosa non ha funzionato nella comunicazione del problema, come pure negli orientamenti da seguire per trovare soluzioni anziché spingere solo inconcludenti piagnistei pseudo-ecologisti.

Per esempio, nei propri report periodici l’Ipcc (intergovernamental panel for climate changes) indica sì le cause e le entità delle emissioni, ma parimenti ricorda come il nucleare sia un rimedio di altissima importanza per mitigare il fenomeno. Peccato gli ambientalisti puntino sempre e solo il dito sui problemi elencati, spesso deformandone persino l’entità, salvo poi sostenere che l’Ipcc vada preso con le pinze quando si parli di centrali atomiche. Il trionfo del cherry picking.

Ma veniamo appunto alla comunicazione, a partire dall’ormai frusto tormentone che alla Terra mancherebbero solo dieci anni prima della catastrofe climatica irreversibile. Classico caso di come urlando “Al lupo! al lupo!” alla fine la gente non ci crede più e magari non vede più il lupo quando arriva davvero. Per esempio, risale al 1989 il primo articolo di cui sono venuto a conoscenza che stabiliva in dieci anni la scadenza per la salvezza. Era un pezzo comparso l’11 febbraio 1989 su La Repubblica dal titolo “Dieci anni per salvare la Terra”, a firma Arnaldo D’Amico. In quel frangente era il World Watch Institute a lanciare l’allarme, definito all’epoca “senza dubbio il più drammatico” dei sei pubblicati fino a quel momento. Contrariamente a quanto ormai accertato oggi, si affermava anche che l’energia nucleare non fosse una valida alternativa poiché troppo costosa (Cvd).

Sempre su La Repubblica, nel settembre 2013, quindi quasi 25 anni dopo, altro articolo pressoché fotocopia dal titolo “Dieci anni per salvare il Pianeta”, a firma Antonio Cianciullo. Cambiava in tal caso l’istituto di riferimento: al rapporto del World Watch Institute si era infatti sostituito quello del citato Ipcc.

Si spera quindi che altri redattori di La Repubblica non titolino “Dieci anni per salvare il Mondo” nel 2038 e “Dieci anni per salvare il Globo” nel 2063. (Prego i lettori di incaricare i propri figli e nipoti di verificare, perché io per l’epoca non ci sarò di certo più). Perfino i film di fantascienza hanno spostato la collocazione temporale delle loro trame molti secoli in là nel futuro, poiché hanno capito che pochi decenni servivano solo a farsi prendere in giro quando fosse divenuto possibile verificare l’inesistenza dei fatti ipotizzati. Esempio classico “1999 Odissea nello spazio”. Meglio sarebbe stato collocare la serie tv nel 2999, a scanso di equivoci.

Proseguendo sul tema “decennio e poi Armageddon”, nel 2019 Greta Thumberg citava le posizioni di alcuni climatologi, suoi rifermenti scientifici, secondo i quali si doveva invertire la tendenza entro il 2030 o i cambiamenti climatici sarebbero stati drammatici e irreversibili. Altri dieci anni, quindi.

Nel 2021 è stato poi il turno di Luca Mercalli, il noto climatologo in farfallino spesso presente in televisione e sui media in genere. Secondo Mercalli al Pianeta mancherebbero solo, indovinate, dieci anni per salvarsi.

Insomma, è per lo meno da 32 anni (probabilmente di più, ma non ne ho memoria) che si afferma che alla Terra ne restino solo dieci. E i negazionisti dei cambiamenti climatici ringraziano, trovando ogni volta un rafforzamento in più delle proprie tesi. Del resto, i profeti di sventura hanno da sempre terrorizzato la popolazione con Armageddon che mai sono arrivati. Quindi, perché mai dare credito a quelli di oggi? Del resto, sono rappresentanti dei medesimi orientamenti ideologici che vaticinavano l’imminente fine del petrolio già nei lontani anni ’60. E lo scetticismo ingrassa.

Che credito dare poi ad Al Gore, ex vicepresidente americano, quando sostenne nel 2007 che le calotte polari si sarebbero sciolte entro il 2013? Un’affermazione tratta, secondo i media, dagli scienziati. Sì, ma ni. Lo scenario di Gore per il 2013 era solo uno dei tanti fra quelli tratteggiati da un gruppo di ricercatori che avevano sviluppato diverse simulazioni giocando con molteplici variabili che potevano influire sul clima. Quella presa da Al Gore era il worst case, il caso peggiore, con un incremento di 4°C della temperatura media globale in soli sei anni.

Un’eventualità che non era di per sé impossibile, ma che aveva una probabilità di verificarsi ampiamente sotto lo zero virgola per mille. Infatti non si è verificata. A nulla valsero le puntualizzazioni di uno degli scienziati chiamati in causa, un climatologo dal cognome polacco immemorizzabile (infatti me lo sono scordato). E così, mentre la voce della scienza venne fatta passare in secondo piano, prendendone solo la parte che più interessava, la profezia di Al Gore andò ad aggiungersi alle molte altre svanite nel nulla negli anni precedenti. E vai col negazionismo a tutta birra, sempre più ricco di argomenti in tasca.

Non possono nemmeno mancare critiche circa i testimonial scelti per la campagna di sensibilizzazione sul tema, come per esempio Leonardo di Caprio. La star americana intervenne alle Nazioni Unite con un discorso toccante, pieno di espressioni facciali e mimica coerenti con le parole (è un attore, del resto), sollecitando un profondo cambiamento negli stili di vita delle persone o per il Pianeta sarebbero stati disastri tanto gravi quanto imminenti. Peccato Di Caprio ami passare le proprie vacanze su yatch giganteschi che in un solo giorno di navigazione brucino tanto combustibile quanto io ne potrò consumare in tutta la vita con la mia utilitaria 1.6 diesel Euro 6. Far quindi sentire la gente comune presa per i fondelli da ricchi e viziati testimonial non è che sia il viatico migliore per trasferire il messaggio desiderato. Anzi, la reazione rischia di essere quella opposta per pura ribellione da classe sociale.

Non parliamo poi della traversata atlantica fatta da Greta Thunberg quando doveva andare a New York per parlare anch’ella alle Nazioni Unite. Non volendo usare l’aereo, perché inquina, e non trovando sufficiente un collegamento via Zoom o Skype, ci andò con un’imbarcazione milionaria messa a disposizione e gestita da Pierre Casiraghi, figlio di Stefano Casiraghi e Carolina di Monaco. Ovvero il rampollo di una delle famiglie regnanti europee, quella di Montecarlo, che è nota per lo più per il lusso, lo sfarzo e i miliardi accumulati grazie alle tasse agevolate a favore dei ricconi di mezzo mondo che abbiano spostato lì la propria residenza. In pratica, il simbolo di quel mondo capitalistico e sprecone che la giovane svedesina afferma di contrastare. Chi non ha percepito la stortura comunicativa dell’evento, sostenendo che l’importante è il messaggio (!), è quindi parte del problema, a partire da giornali e tv.

Per giorni i media si focalizzarono infatti sul vasino in cui Greta avrebbe fatto la pipì in mare, con una morbosità imbarazzante. Nessuno si premurò invece di specificare che Casiraghi sarebbe tornato indietro mica sulla barca, bensì in aereo. A recuperare l’imbarcazione e a riportarla nel Principato ci avrebbe pensato un equipaggio privato appositamente volato a New York. Più i voli aerei di chi Greta segua passo passo, essendo ormai un fenomeno mediatico che si muove con diverse persone perennemente al seguito. Ovviamente anche loro in aereo. In pratica, per non prendere l’aereo lei ha fatto volare una mezza dozzina di persone al posto suo. E questo la gente comune la fa incazzare, piantatevelo nella testa, soprattutto dopo il discorso a vene gonfie che la ragazza fece all’Onu intimando agli adulti di vergognarsi.

Certi messaggi, condivisibili per lo meno negli intenti, si avvantaggiano infatti della simpatia, della coerenza e quindi della credibilità che i testimonial sono in grado di offrire al pubblico. Ergo, non ci siamo affatto se si ottiene il risultato opposto a causa proprio della mancanza di simpatia, coerenza e credibilità.

A soffiare ulteriormente nelle vele al negazionismo climatico sono state poi altre campagne stampa abbastanza deformanti, come quelle che seguono sistematicamente ogni evento catastrofico, dall’alluvione agli incendi. Che i cambiamenti climatici abbiano un peso sui trend di questi fenomeni è palese. Magari meglio sarebbe però evitare di presentarli tutti come fatti inauditi, mai accaduti prima: tutta colpa dei cambiamenti climatici. Accadde per esempio dopo che Zermatt venne invasa da un’alluvione nel 2019. Mai accaduto prima? Mica tanto: secondo uno studio sviluppato sulla Val D’Aosta dal citato Luca Mercalli eventi similari si sarebbero abbattuti sulla valle sin dalla fine dell’ottavo secolo, cioè circa 1.200 anni fa. Più volte Aosta venne alluvionata nei secoli passati, come pure diversi eventi simili a quello di Zermatt hanno provocato morte e distruzione in epoche in cui eravamo meno di un miliardo sul Pianeta e andavamo al massimo a cavallo. Quindi anche no: serietà impone di cambiare toni e parole dando ad esse il giusto peso e significato.

Gli incendi in Canada del 2020? Mai visti prima? No: secondo il National Forest Database canadese il picco per l’area boschiva andata distrutta fu nel 1988 e il numero massimo di incendi spettò al 1989 (oggi purtroppo fuori scala temporale che attualmente parte dal 1990). Quindi il clamore mediatico improntato al “mai visto prima” si trasformò anche in quel caso in una meravigliosa leva nelle mani dei negazionisti. Su Siberia e Australia non so, non ho serie temporali a portata di mano, quindi non mi esprimo. Cosa che se i giornalisti facessero di sistema sarebbe meglio per tutti.

E poi, dai, mostrare foto di ghiacciai scattate nel 2017, comparandole con quelle dei primi anni 50’, ha senso? Sì, lì per lì, ma poi il ghiacciaio durante l’estate arretra ancora un po’ e scopre un rifugio costruito dagli Alpini nel 1917 in piena Prima Guerra mondiale. Questo perché gli ultimi anni ’40 sono stati fra i più freddi del secolo scorso, mentre quelli a cavallo del Primo Conflitto furono decisamente più temperati. Significa quindi che il cambiamento climatico non esiste? Niente affatto, ma in tal guisa può essere spacciato da chi si sia legata al dito la precedente comparazione fotografica, gongolando di gusto.

Il global warming non va infatti sostenuto o negato in base a eventi puntuali e locali, poiché l’analisi del clima va sviluppata in chiave temporale di medio e lungo periodo e, appunto, su scala globale. La nevicata a marzo sui monti abruzzesi con temperature sotto zero non può essere usata di per sé come prova che il riscaldamento globale non esiste, perché siamo in Abruzzo a marzo. Punto. Analogamente, le alluvioni in Germania dell’estate 2021 hanno numerosi precedenti nei secoli passati, debitamente documentati dai livelli idrometrici segnati sugli angoli delle case che erano già presenti per lo meno dal XVII secolo. Stupisce quindi che addirittura dei ricercatori di istituti pubblici affermino che tali fenomeni non avrebbero mai potuto verificarsi prima dell’era industriale. Ma tant’è…

Anche affermare che oggi gli eventi disastrosi siano addirittura raddoppiati è un “filino” forzata come informazione. Se si prendono infatti la popolazione e il Pil medio del ventennio 1980-1999 e li si compara con le medesime medie del ventennio 2000-2019, si evince come entrambi siano raddoppiati numericamente. Ergo, se un tornado abbattutosi nell’area “X” faceva un milione di dollari di danni e 10 morti nel 1990, non è che è raddoppiato di intensità perché nel 2010 distrugge beni per due milioni di dollari e uccide 20 persone. Perché nel frattempo in quell’area si sono moltiplicate le cose da distruggere e le persone da uccidere. Anche in questo caso il global warming non esiste? No, esiste, poiché le rilevazioni annue stanno aumentando, anche grazie all’intensificazione delle reti di rilevamento e dell’attenzione ai fenomeni. Ma parlare di raddoppio in base ai danni economici e ai morti, magari anche no: approccio interessante, ma fuorviante.

Ecco, il senso di questo approfondimento non è perciò quello di verificare o negare il global warming. Solo un cieco potrebbe negarlo. Semmai è quello di ricordare che non esistono bugie a fin di bene. La verità fattuale va trasmessa infatti così com’è, senza scandalismi giornalistici, senza cavalcate ideologiche di qualche politico o di qualche associazione in cerca di visibilità (e quattrini). Soprattutto, bisognerebbe comunicare senza fare alcunché che poi possa essere strumentalizzato dai negazionisti per portare acqua al proprio mulino. Perché in tal caso meglio sarebbe stato tacere, anziché porgere i sassi a chi vorrebbe usare la fionda.

Molto più utile sarebbe invece spiegare alla popolazione perché le risposte al problema non sono la dieta vegana, né i pannelli solari oggi adorati come divinità. Né sarà il biologico a salvare la Terra, né tantomeno l’avversione a diesel, nucleare, ogm, concimi e “pesticidi”. Le tecnologie per produrre più energia a basso impatto ci sono, basterebbe usarle invece di cavalcare e sobillare paure. Idem per le tecnologie da impiegare nei processi industriali e agricoli, atti a massimizzare le rese minimizzando le emissioni per unità di cibo prodotta.

Poi, va da sé, se ognuno sprecasse meno risorse, andrebbe meglio per tutti. Ma si teme che nessuno gradisca spegnere il riscaldamento in inverno o andare al lavoro in bicicletta in primavera, magari accontentandosi di una settimana di ferie in Romagna anziché volare per 12 ore verso paradisi tropicali lontani. Perché sempre tardi sarà quando le emissioni verranno soppesate anche in base alla loro priorità e indispensabilità, anziché solo per settore produttivo: un chilo di CO2 emesso per produrre cibo non può essere infatti equiparato a un chilo di CO2 emesso per farsi un giro domenicale al lago solo perché a casa ci si annoia, oppure per illuminare a giorno un casinò di Las Vegas consumando una quantità di energia pari a quella utilizzata da certi Paesi africani. Una maggiore equità di valutazione, questa, che servirebbe magari anche per intaccare quella rugginosità comportamentale e sociale che è forse la più subdola complice del cambiamento climatico stesso.

Perché parlare e denunciare è sempre facile, modificare le macrodinamiche globali un po’ meno. Prova ne è lo scellerato Green Deal europeo, quello che con il suo Farm2Fork aumenterà al 25% la superficie continentale a biologico (triplicandola) e si propone di convertire il 10% delle attuali superfici agricole dando loro più finalità ambientali e paesaggistiche che produttive.

Ergo, compreremo più cibo da quei Paesi che hanno emissioni più alte per unità prodotta, aggiungendo a queste anche quelle necessarie per il trasporto intercontinentale delle merci. Quando nel vostro piatto ci sarà pasta fatta con grano uzbeko anziché italiano, sappiatelo: state inquinando più di prima, non meno. Anche e soprattutto se quel grano è dato per biologico o “antico”. Se infatti devo coltivare il doppio o il triplo della terra per produrre la stessa quantità di cibo, le emissioni salgono, mica scendono. Un conto semplice e immediato che però non compare praticamente mai sui media italiani ed europei, da tempo proni ai proclami pseudo-ecologisti dell’ineffabile Ursula Von Der Leyen. Il tutto, ignorando bellamente le posizioni di scienziati ai cui occhi i nuovi orientamenti appariamo giustamente ipocriti se non addirittura folli.

Noi Europei potremo quindi vantarci col mondo di essere divenuti più Green, salvo aver causato un innalzamento globale delle emissioni solo per soddisfare quello spocchioso atteggiamento pseudo ecologista che anziché aiutare a risolvere i problemi li sta aggravando sempre più, raccontando favole, vendendo illusioni e moltiplicando bugie, supposte a fin di bene quando invece sono tutt’altro.

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Un’insalata salverà il Mondo? Spiacente: no

Anatemi contro la carne? Anche basta ora...

Da sempre più parti giungono attacchi alla zootecnia, accusata fra le tante cose di essere fra le primarie cause dell’effetto serra. Le spinte a una conversione della popolazione mondiale al veganesimo si sono quindi moltiplicate, adducendo motivazioni non solo etiche, bensì anche ambientali ed ecologiche. Ma le cose sono davvero così agghiaccianti come vengono presentante? Niente affatto…

L’ultimo della serie è l’Onorevole Alessandro Di Battista. O forse, come preferiscono essere chiamati i Parlamentari del M5S di Beppe Grillo, il “Cittadino” Di Battista. In una sua intervista al Corriere della Sera ha duramente stigmatizzato gli allevamenti di animali, additandoli quale causa primaria di quell’effetto serra che aggraverebbe i livelli di miseria dei Paesi poveri, incrementando di conseguenza anche le relative migrazioni di massa. Di Battista cita ovviamente numeri triti e ritriti sui vegetali necessari alla produzione di un chilo di proteine animali, vedendo cioè nella zootecnia uno dei più disastrosi mali del Mondo.

Solo di pochi giorni fa, peraltro, è un altro mio articolo, incentrato sulle bugie che una parte dei Vegan pubblicano su web per indurre altre persone a seguirli. I commenti sotto l’articolo sono stati di ogni tipo, ma uno soprattutto ha ricalcato le posizioni di Di Battista, possibilmente aggravandole pure. Uno dei commentatori ha infatti bellamente parlato di galera per chi mangia carne, vagheggiando perfino alla sedia elettrica. Rosicava amaro, il poveretto, ammettendo di appartenere a una minoranza per ora. Ma poi, in futuro, quando sarebbero stati la maggioranza e fossero stati rappresentati in Parlamento, allora per noi “mangiacadaveri” sarebbe stata la fine. In maggioranza non lo sono ancora, ma qualcuno in Parlamento che soddisfi i desideri di tali soggetti pare in effetti esserci già nel presente.

Sulle dinamiche tecnico-agronomiche per le quali la zootecnia non è il male che si dipinge verrà pubblicato appositamente un altro articolo. Per ora mi limiterò a fare qualche considerazione numerica solo sull’effetto serra e le sue cause, inclusa la zootecnia. Perché le parole sono e restano parole. I numeri no.

 

Milioni di anni in fumo

Erano organismi viventi, vegetali o animali. Poi, dopo la morte, si sono sedimentati negli strati profondi del sottosuolo divenendo carbone, petrolio e, indirettamente, metano. Ci hanno messo centinaia di milioni di anni a fare ciò. Poi arrivò l’Uomo, inventò le caldaie e i motori a combustione interna e nel giro di un amen molto di quel carbonio conservato nel sottosuolo venne estratto per produrre energia. Molta di quella CO2, estratta dall’atmosfera e sequestrata in forma organica nel corso di ere geologiche, venne così reimmessa in atmosfera dalle industrie, dai veicoli a motore e dalle necessità degli insediamenti urbani di scaldarsi d’inverno e raffreddarsi d’estate.

La Rivoluzione industriale, del resto, iniziò verso la metà del 700, quando di zootecnia intensiva non si sapeva ancora nulla. Da lì iniziò la crescita delle concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera e con essa l’effetto serra da questa causato.

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Grafico 1: Relazione fra consumi di combustibili fossili e gas serra (Fonte: Oism.org)

Come si può vedere dalla figura riportata nella fonte bibliografica, ove sono citate a loro volta le fonti dalle quali è stato ricavato il grafico, fino agli inizi del 900 fu il carbone l’unico combustibile fossile ad essere in pratica utilizzato. Da lì in poi non solo crebbero velocemente i suoi consumi, ma questi vennero affiancati da quelli del petrolio. Il gas metano giunse invece in modo significativo solo negli Anni 50. In aggiunta a ciò, il grafico 1 rammenta anche che fra i livelli di CO2 presenti in atmosfera nella seconda metà dell’800 e quelli attuali vi sia stato un incremento pari a circa il 30%, di cui il 22% si sarebbe verificato dagli Anni 50 in poi. Del resto, dalla Seconda Guerra mondiale a oggi è anche praticamente più che raddoppiata la popolazione mondiale.

Sarà però bene osservare anche il grafico 2 (Fonte: Skepticalscience.com), ovvero quello che descrive gli andamenti delle concentrazioni di CO2 in atmosfera nell’arco di molte centinaia di migliaia di anni. Come si vede, a concentrazioni intorno ai 300 ppm si è già giunti più volte in passato, con oscillazioni che sembrano avere una certa ritmicità verificandosi ogni 90 mila anni circa. Oggi siamo al vertice di tale ascesa “naturale” e si spera che ad essa segua anche la tradizionale discesa. Di sicuro, almeno 100 di quei 400 ppm attuali sono dovuti alle attività dell’Uomo, mostrando infatti la curva di crescita dei combustibili fossili un andamento analogo a quello della CO2 nell’aria.

 

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Grafico 2: oscillazioni nel tempo della CO2 in atmosfera. Fonte: skepticalscience.com

Quindi due fatti sono certi: 1) una parte significativa dei gas serra è dovuta alle attività antropiche; 2) i combustibili fossili sono la parte preponderante di questa crescita aggiuntiva.

 

Uno sguardo al Mondo Auto

 

Carbone, petrolio e gas metano generano energia e l’agricoltura, come ogni altra attività dell’Uomo, assorbe energia. Ma di quante emissioni va caricata la componente agricolo-zootecnica?

Il carbone ben poco centra con l’agricoltura, visto che è impiegato soprattutto per usi industriali. Il metano ha scopi più che altro industriali e civili. E il petrolio? Se per esempio si osserva il trend in crescita delle automobili a livello statunitense (gli USA sono il Paese con le emissioni pro-capite più alte al Mondo), si potrà vedere che le automobili sono passate da “soli” 26 milioni nel 1945 a 130 milioni del 1975. Nel 1990 erano già arrivate a 193 milioni per poi toccare i 253 milioni nel 2012.

Quanto alle produzioni annue globali di veicoli, siamo passati dai 40 milioni scarsi prodotti nel 1999 ai 60 milioni del 2011, con un tondo 24% della Cina, primo produttore al Mondo con una quantità di macchine per superare la quale si devono sommare tutte le automobili prodotte da Giappone, Germania e Stati Uniti. Nel 2010 si stimava che vi fosse un miliardo di automobili circolanti al Mondo.

Messa in questo modo, parrebbe che gli USA siano il Paese che possiede un quarto delle auto circolanti, mentre la Cina quello che un quarto lo produce. Presto, vi è da pensare, la Cina supererà gli USA anche quanto a possesso interno di autoveicoli. Sarà forse per questo che (Grafico 3: vedi direttamente fonte) la Cina appare già oggi il primo Paese al Mondo per emissioni di anidride carbonica?

 

E la zootecnia?

 

Per meglio comprendere i pesi relativi delle singole variabili è bene innanzitutto provvedersi di numeri che si riferiscano sia alle emissioni, sia agli allevamenti. Il tutto, ovviamente pro-capite, altrimenti i pesi e le misure differenti di ogni Paese possono alterare e fuorviare l’analisi.

Utilizzeremo quindi come standard di riferimento proprio la Cina, la quale emetterebbe 7,2 tons di CO2 pro-capite. Tanto per iniziare le comparazioni si partirà con gli allevamenti suini. La Danimarca, per esempio, mostra più emissioni pro-capite di CO2 della Cina, ovvero 8,4 tons. In Cina vi sono però solo 0,35 maiali a persona, mentre la Danimarca ne ha 2,24. Ovvero, a fronte di una zootecnia suinicola pro-capite pari al 640% di quella cinese, i Danesi producono solo il 17% in più di anidride carbonica a testa. Se vi fosse davvero una relazione diretta fra allevamenti suini ed emissioni, tale discrepanza difficilmente sarebbe stata così vistosa. Ergo, a quanto pare i maiali c’entrano ben poco con le emissioni dei Danesi e dei Cinesi, visto che profonde differenze nel numero di capi di bestiame pro-capite producono differenze minime quanto a emissioni di gas serra.

Diamo ora uno sguardo agli allevamenti ovini. In Nuova Zelanda vi sono 7,45 pecore a testa, contro le 3,33 dell’Australia. In Cina ve n’è solo 0,1, cioè vi è una pecora ogni 10 Cinesi. Ancora, la Nuova Zelanda produce 7,8 tonnellate di CO2 a testa, mentre l’Australia 18,3 (rivaleggia in tal senso con gli USA). Quindi, i due Paesi australi ospitano rispettivamente 74,5 e 33,3 volte tante pecore pro-capite rispetto ai Cinesi, ma producono CO2 in ragione di 2,5 volte, l’Australia, mentre la Nuova Zelanda è sostanzialmente uguale. Di certo, pare alquanto difficile attribuire a delle pecore che pascolano libere per le vaste pianure australiane le notevoli emissioni pro-capite dei cittadini di Sidney o Canberra. Anche in questo caso, la tradizione di allevare diffusamente pecore non pare appesantire se non in minima parte le emissioni dei due Paesi anglofoni. Al contrario, le elevate emissioni cinesi devono avere ben altre motivazioni rispetto agli allevamenti ovini.

Allevamenti avicoli. Proseguendo con la comparazione “animali pro-capite / emissioni pro-capite”, si incontra ora il pollame. Vi sono alcuni Paesi che si contendono il podio quanto a polli allevati a testa, ovvero la Malaysia (7,35), il Vietnam (6,96) l’Iran (6,91), gli Usa (6,84) e il Brasile (6,45). E la Cina? Ne ha “solo” 3,6. I confronti fra Paesi sono riportati nella tabella che segue:

 

Paese CO2/pro capite (Tons) Polli Pro capite Confronto con Cina (CO2) Confronto con Cina (Polli) %
Malaysia 7,7 7,35 106,9% 204,2%
Vietnam 1,3 6,96 18,1% 193,3%
Iran 7,3 6,91 101,4% 191,9%
Usa 17,2 6,84 238,9% 190,0%
Brasile 1,9 6,45 26,4% 179,2%
Cina 7,2 3,6 100,0% 100,0%

 

Tab.1: comparazione fra popolazione avicola ed emissioni di CO2. Confronto dei due parametri fra i diversi Paesi e la Cina

 

Come si vede, in tal caso solo gli USA hanno un profilo peggiore (sempre pro-capite) rispetto alla Cina. A fronte di emissioni pro-capite di gas serra più che doppie di quelle cinesi, ha infatti una popolazione di polli men che doppia. Tutti gli altri Paesi producono CO2 pro-capite uguale o inferiore ai Cinesi a fronte di un numero molto più elevato di polli a testa. Ancora una volta, pare che il patrimonio zootecnico dei Paesi presi in considerazione non sia fra i responsabili principali delle emissioni complessive che tali Paesi producono. Il Brasile, per esempio, produce l’80% di polli in più della Cina, ma mostra emissioni di tre quarti inferiori al Colosso asiatico.

 

Ultimi ma non ultimi, i bovini. A quanto pare anche in questo ultimo caso i numeri testimoniano a favore della zootecnia.

 

Paese CO2/pro capite (Tons) Bovini Pro capite Confronto con Cina (CO2) Confronto con Cina (Bovini) %
Australia 18,3 1,28 254,2% 2133,3%
Argentina 4,8 1,26 66,7% 2100,0%
Brasile 1,9 1,07 26,4% 1783,3%
Usa 17,2 0,31 238,9% 516,7%
Francia 6,1 0,31 84,7% 516,7%
Cina 7,2 0,06 100,0% 100,0%

 

Tab.2: comparazione fra popolazione bovina ed emissioni di CO2. Confronto dei due parametri fra i diversi Paesi e la Cina

 

Come già visto in tabella 1 per i polli, le emissioni pro-capite sembrano davvero ben poco legate alla presenza di animali, sempre pro-capite. Se è vero che Australia e USA producono circa due volte e mezza la CO2 pro-capite della Cina, dal punto di vista dei bovini allevati ne mostrano 21 e 5 volte tanto rispettivamente. Ancor più smaccate le differenze con gli altri Paesi. Per esempio, l’Argentina emette pro-capite i due terzi di CO2 rispetto ai Cinesi, ma produce bovini 21 volte tanto a confronto col Celeste Impero. Infine, il Brasile emette solo un quarto circa della CO2 pro-capite dei Cinesi pur a fronte di una produzione di bovini di quasi 18 volte tanto.

 

Conclusioni

Dai dati sopra riportati si evince che le emissioni di gas serra dovute alle attività zootecniche sono decisamente sovrastimate rispetto al totale. Forse perché molti si dimenticano che tutto ciò che diviene carne, latte e uova, prima era foraggio cresciuto nei campi. Per crescere e divenire cibo per gli animali ha dovuto quindi assorbire CO2 dall’atmosfera. Mentre un pieno di gasolio di un’automobile è una botta secca di CO2 in aria, perché deriva dal petrolio del sottosuolo, un litro di latte o una bistecca contengono invece quel medesimo carbonio che è stato estratto dall’aria dalle piante foraggere. Una sorta di “effetto serra a ciclo chiuso” che attenua di molto l’incremento assoluto di CO2 in aria. Con buona pace di Alessandro Di Battista e di tutti coloro i quali che, Fao inclusa, continuano a tuonare contro gli allevamenti zootecnici. Questi sono infatti una follia in ambienti siccitosi, ma possono avere tutta le loro ragioni d’essere nei Paesi sviluppati dell’emisfero boreale, come si evince anche dalla “favola” scherzosa che si ritiene essere la chiusura ideale per il presente articolo.

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