La dura vita dei club privati

In un club londinese per soli uomini una donna è riuscita a farsi assumere comunque (Fonte foto: Intelligenza Artificiale)

Discriminazione sessuale: come una donna è riuscita a farsi assumere da un club londinese per soli uomini (abbastanza ingenui) in base a leggi ottuse e fintamente progressiste

Dopo aver scritto l’articolo di ieri sulla querelle australiana fra un transgender e una imprenditrice, mi è tornato alla memoria un episodio avvenuto oltre vent’anni fa, a Londra. Purtroppo, data la distanza temporale non mi è stato possibile ritrovare la notizia originale (allora la lessi su un cartaceo), ma in sostanza il caso è abbastanza semplice. Cito a memoria.

Il barman di un club per soli uomini, a Londra, se ne andò. I membri del club misero un’inserzione per cercare un nuovo barman, specificando ingenuamente che la selezione era riservata ai soli uomini. Di per sé una persona di buon senso lo può ben capire: siamo un club privato riservato a noi uomini, ce ne vogliamo stare in pace a parlare fra soli uomini, quindi donne: non rompeteci le scatole. E lo stesso dovrebbe valere ovviamente anche per un club privato di sole donne.

Una donna in evidente vena di rompere gli zebedei presentò comunque la propria candidatura, la quale venne ovviamente respinta. Non aspettava altro: andò da un giudice e portò in tribunale il club, accusandolo di discriminazione sessuale. Alla fine, grazie alle leggi vigenti, il giudice le dovette dare ragione e il club fu costretto ad assumerla.

Fossero stati meno ingenui – sapendo quanti provocatori scassamaroni esistono al mondo – non avrebbero dovuto specificare il sesso del candidato. Avrebbero dovuto fare la loro bella e attenta selezione, scegliendo poi un uomo dopo essersi magari sperticati di complimenti per la professionalità della candidata donna (ammettiamolo: si prova un certo gusto a prendere per i fondelli i rompicoglioni dopo averli fregati). A quel punto, non avendo alcun appiglio “sessuale”, non le sarebbe stato più possibile portarli in tribunale e imporre la propria sgradita presenza in un club ove una donna non doveva proprio entrarci, né come socia, né come bar-woman.

Il caso londinese di tanti anni fa ricorda per molti versi quello australiano del precedente articolo: una persona prepotente, in vena di rompere gli zebedei agli altri, si intrufola in un’area privata e riservata che di fatto non la vuole. Un po’ come se qualcuno mi facesse causa se non lo invito a casa mia dopo aver invitato gli altri ex-compagni di classe: a casa mia invito chi mi pare e faccio entrare chi mi pare. E se non ti va, impiccati (e forse si capisce anche perché non ti invito, se ragioni in quel modo).

A certi soggetti, invece, pare proprio che manchi il concetto per il quale anche la libertà individuale deve trovare limiti nelle libertà individuali altrui. Quando ciò accade, cioè si varca ogni limite logico, si diventa carnefici, non vittime. E se le leggi lo consentono, è forse l’ora di cambiare le leggi.

Aggiunta post-pubblicazione: inserzione per ricerca di personale, ma per sole donne. Trovata su web. Della serie, il sessismo è sessismo a volte sì, a volte no. La discriminazione è a volte sì, a volte no. Dipende.

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