I molti perché di un partner

Consulenti, counselor, coach. In oltre vent’anni di vita professionale ne ho incontrati diversi. I più sono ingaggiati per tenere corsi di vario genere: aggiornamenti tecnici, comunicazione, marketing, vendite. Ad altri, i famosi counselor e coach, ci si rivolge per tentare di dipanare attriti interni all’organizzazione o alla famiglia. Altri ancora, infine, lavorano al fianco del cliente in modo fattivo e pragmatico. In sintesi, lo aiutano risolvendo problemi concreti, svolgendo al posto suo parte di quelle attività che l’azienda non ha le risorse umane o le competenze esperienziali per coprire adeguatamente. Logico quindi farsi aiutare da forze qualificate esterne.

Indipendentemente dalla tipologia di consulente, si spera che ognuno di essi abbia seguito un iter professionale adeguato, visto che affidiamo loro una parte importante della nostra vita aziendale.

Per mia abitudine, prima ancora di dare valutazioni sui singoli, differenzio innanzitutto i consulenti operativi da quelli didattici. Io, per scelta convinta, appartengo alla prima categoria, ma sono un sostenitore anche della seconda. A patto ovviamente che la docenza serva davvero, che il docente sia qualificato e che abbia maturato un solido bagaglio di esperienze nel settore in cui si propone. In entrambi i casi, operativo o didattico, il consulente sarà infatti tanto più efficace quanto più conoscerà il settore specifico del proprio cliente. Le vendite di Rolex non seguono gli schemi delle vendite degli aspirapolvere, né le tecniche di comunicazione che si sono rivelate efficaci per dei beni di largo consumo si adattano ai beni di lusso. In altre parole, quanto più ci si allontana dal settore specifico del cliente, tanto più i propri insegnamenti o aiuti pratici saranno teorici e stereotipati. Fino ad arrivare al punto da essere talmente validi per tutti, da non essere davvero utili ad alcuno. Ho conosciuti perfino consulenti che, proprio come veri attori, avevano imparato a memoria qualche lezioncina tratta da libri scritti da manager veri. Poi li ripropinavano alla platea, impastando frasi copiate “nero-su-bianco” in estenuanti presentazioni di Power Point che collidevano con le più basilari regole della comunicazione efficace. Per fare un esempio di tipo sanitario, basti pensare alla serie televisiva “Dr. House”: Hugh Laurie, il protagonista, interpreta alla perfezione la parte di un genio della medicina e della diagnostica medica. Ma non è un luminare della scienza: è solo un attore che recita un copione. E credo che tutti si concordi sul fatto che sarebbe da folli farsi mettere le mani addosso da un attore invece che da un dottore.

Il settore dell’agricoltura è conosciuto dai più come un settore “unico” e “inimitabile”. Vive secondo regole tutte sue, come pure i differenti giocatori della partita sono quanto di più differenziato esista al mondo. Senza scomodare le differenze che sussistono tra agricoltori e rivenditori, tra tecnici e commerciali, tra associazioni provinciali e manager di marketing, fermiamoci a valutare le differenze tra aziende che si rivolgono al medesimo mercato. Tutti usano i trattori, come pure hanno bisogno di fertilizzanti e di agrofarmaci. Seminano, irrigano, potano, raccolgono, essiccano, noleggiano. Pagano. Il meno possibile e il più tardi possibile, ovviamente. Solo un folle non si pone la questione di quali siano le differenze operative che intercorrono tra un’azienda che vende mietitrebbie e una che vende fertilizzanti. Ancora, chi commercializza agrofarmaci avrà poco a che spartire come profilo con i vivaisti. Chi vende trattori opera in modo differente da chi vende sementi. A sua volta, chi vende mais differisce in parte da chi vende sementi elette di cereali a paglia. Target differenti (agricoltori? Terzisti?), areali differenti (nord? Sud?), reti commerciali diverse (rivenditori? Concessionari? Consorzi?), approccio industriale diverso (metalmeccanico? Chimico? Biologico?). Infine, siamo tutti esseri umani: donne e uomini. Vecchi e giovani. Esperti ma privi di istruzione universitaria, o laureati imberbi e impreparati. Simpatici e antipatici. Corretti e disonesti. Ma su questi ultimi quattro punti bisogna rifarsi più alla propria sensibilità umana che al curriculum vitae.

Lavorare in partnership con le aziende del settore è pertanto un impegno che non richiede solo un excursus di studi adeguato, ma necessita di esperienze specifiche, pluriennali e sfaccettate. Esattamente come è necessario sapere un minimo di castigliano se si vuole andare in vacanza in Messico senza dover prendere un interprete anche per ordinare una tortilla. Il consulente deve conoscere il mercato dei propri clienti, deve analizzare le dinamiche comunicative sia del segmento specifico che di altri segmenti limitrofi, per individuare soluzioni idonee alla valorizzazione degli investimenti dei propri partner. Deve in altre parole essere una banca dati ambulante di conoscenze, contatti, esperienze, case-history, da mettere a disposizione di chi ne può trarre beneficio.

E al primo bel tomo che non sa distinguere una zappa da un badile, ma vi racconta che il successo di un messaggio su di un trattore o un insetticida dipende al 93% dalle tecniche del manuale di comunicazione e solo il 7% dalla sostanza oggettiva dei fatti, mandatelo a stendere: nel settore dell’agricoltura il ferro si tocca, il fertilizzante si odora, l’erbicida si soppesa a vista, la semente pure. Il nostro è un settore che opera all’aria aperta, dove il “fumo” si disperde in fretta, mentre la sostanza è per sempre.

No perditempo please