A scuola di catastrofismo

Alterare i fatti per ottenere ciò che si vuole non è degno né di chi produce conoscenza, come gli scienziati, né dei giornalisti che ne divulgano le esternazioni

Un’esperienza universitaria del passato insegna come difendersi dal catastrofismo allarmista odierno, piaga che ormai ha invaso anche ambienti accademici e mediatici

Mettere paura o far piangere è molto più facile che rassicurare o far ridere. Lo sa anche l’ultimo brocco di aspirante attore iscritto a una scuola di recitazione di quart’ordine. E qualcuno di tali personaggi l’ho pure conosciuto in vita mia.

Mai come oggi si è però assistito a un furioso martellamento allarmista su molteplici fronti. Un giorno sono i pesticidi nelle acque, un altro nei cibi. E poi gli Ogm distruttori del Mondo, l’olio di palma manco fosse Polonio radioattivo, idem per il glutine del grano e i vari cibi spacciati come “velenosi” come il latte, la farina o lo zucchero. Spesso, per somma incoerenza, tali persone sono poi le stesse che reputano il Covid-19 una bufala inventata dai “poteri forti” per togliere loro la libertà. A dimostrazione che se uno si dimostra essere un pazzo per una cosa, difficilmente si dimostrerà savio per un’altra.

Come non bastasse, pure il 5G viene presentato come arma di distruzione di massa, al pari delle medicine e dei vaccini della famigerata “BigPharma”, più ogni possibile altra innovazione o infrastruttura che si affacci sul Pianeta. In tal senso fa scuola il recente completamento della Tap, il metanodotto che porta gas in Italia approdando sulle coste pugliesi, portato a termine senza che si verificasse alcuno dei “disastri ambientali” paventati dai soliti comitati del No e dai molteplici ciarlatani che in siffatto torbido ci hanno sguazzato a piene mani. Il tutto, causando ritardi e danni economici tutt’altro che indifferenti. Danni non solo a carico dell’azienda costruttrice, bensì anche della collettività nel suo insieme. Danni causati da minoranze di facinorosi o di disonesti che per le proprie azioni scellerate e spesso illegali mai pagheranno.

Lezioni dal passato

La summenzionata regola dello spavento strumentale, però, può essere applicata con successo anche quando sul palcoscenico non vi sia un attore, bensì un professore universitario un po’ fanfarone e in cerca di proseliti.

Sono trascorsi ormai 31 anni da quando assistetti a uno “stage” universitario di un certo professor Phobos, americano, in visita al Dipartimento di meccanica e meccanizzazione della Facoltà di agraria di Milano. Ero studente ormai in tesi, impegnato in una ricerca sull’eutrofizzazione delle acque, ovvero quel fenomeno di proliferazione abnorme delle alghe causato dall’eccesso di sostanze nutritive come fosforo e azoto.

La mia sensibilità ambientalista era molto spiccata a quel tempo. O meglio, non avevo ancora capito quale differenza vi fosse tra un ecologo, cioè uno scienziato impegnato concretamente nella difesa dell’ambiente, e un ambientalista, ovvero un idealista spesso impegnato a dare la caccia alle streghe convinto ancora che esistano.

Votavo per i Verdi, ero iscritto al Wwf ed ero in procinto di espletare il servizio sostitutivo di Leva presso l’associazione ambientalista Amici della Terra. Insomma, ci credevo. E tanto pure.

Il professor Phobos, omonimo di un personaggio della Marvel comics apparso in una puntata dell’incredibile Hulk, era un uomo sopra la sessantina, ornato da una capigliatura candida. Si presentò vestito in modo semplice, con un marsupio da turista in bella vista, ma si rivelò presto un istrione esuberante, a tratti molto simpatico.

Sapeva bene come stabilire con la platea un’empatia profonda, specialmente contando sulla nostra giovane età e quindi inesperienza. Oggi, che qualcosa di comunicazione ho pur imparato, so che era solo molto abile nel sapersi presentare e nel far abbassare le difese agli interlocutori, ricorrendo con malizia a una serie di facezie e comportamenti divertenti, i quali in un uomo di scienza come lui non potevano che suscitare apertura mentale e voglia di ascoltarlo.

Nella sua ora di lezione ci trasmise così quelli che erano i suoi consigli di navigato ambientalista. Ci insegnò in special modo come ci saremmo dovuti comportare nel caso fossimo stati coinvolti in futuro in una valutazione di impatto ambientale, cioè quel processo d’indagine atto a misurare i rischi e i possibili danni di una qualsiasi opera dell’Uomo. Noi eravamo infatti dei potenziali futuri ecologi, quindi quella buona lana di Phobos sperava di contribuire a trasformarci anche in futuri ecologisti.

Il suo approccio con le autorità pubbliche coinvolte nei processi di valutazione era molto semplice: catastrofismo a iosa. Ci spiegò infatti che non dovevamo relazionare alle autorità snocciolando in modo asettico i risultati scientifici delle nostre ricerche. Dovevamo al contrario puntare sull’emotività, mettendo la razionalità delle evidenze scientifiche in secondo piano. “You must say that everything will be completely destroyed!“, cioè, “Dovete dire che tutto andrà completamente distrutto!“. Solo così, secondo lui, si poteva sperare di essere ascoltati dai decisori pubblici che ci avevano consultato in qualità di esperti.

In altre parole, a Phobos interessava poco valutare il reale impatto ambientale di un progetto. A lui interessava invece spaventare gli ascoltatori affinché non se ne facesse nulla. Lavoro tutto sommato facile, dal momento che la maggior parte dei politici, se qualcuno paventa loro un rischio elevato, mai si prenderebbe il rischio di passare un guaio con gli elettori in caso quell’esperto avesse avuto malauguratamente ragione.

Questo in Usa, ovviamente, perché in Italia abbiamo politici che collezionano da decenni figure a cavallo tra codice civile e penale, ma continuano imperterriti a prendere voti e spolpare i bilanci di Stato e Regioni come se fossero a un banchetto medievale di cacciagione mista.

Finito di dispensare a noi giovani le sue “pillole di saggezza” (!), Phobos se ne tornò poi negli Stati Uniti e io portai con me la traccia di quella lezione demenziale per alcuni anni. Poi, per fortuna, imparai nel tempo quanto le persone come Phobos fossero tanto seducenti quanto pericolose. Dal momento in cui realizzai tale evidenza, diedi importanza solo ai fatti, ai dati, alle prove, cercando di essere il più possibile preciso, in modo che le mie conclusioni fossero il più possibile attendibili.

Forse è per questo che oggi rimango costernato di fronte all’evidenza di come sul Mondo abbia avuto un peso preminente chi la pensa come il Prof. Phobos, anziché quelli come me e come molti altri colleghi i quali, come tanti Don Chisciotte, continuano a spiegare coi dati e con le prove che no, il progresso ha fatto molto più bene che male. E che non moriremo tutti entro venerdì, oggi per questo, domani per quello.

Ricordatevi quindi che dietro a ogni proclama allarmista che sentite può nascondersi un adepto della “Phobos school”. Un nome, un programma, visto che Phobos deriva dal greco Φόβος, ovvero la divinizzazione della paura. E da tali divinità è meglio stare alla larga.

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Svezia: dai Vikinghi a Greta Thunberg

Conoscere la propria storia aiuta a comprendere il presente e a pianificare il futuro

Lezione da imparare: come il progresso tecnologico e scientifico ha prodotto ricchezza economica e benessere sociale, realizzando in Svezia condizioni invidiabili dal punto di vista del tenore di vita, dei servizi ai cittadini e dei diritti civili

C’era una volta una landa sepolta da uno spesso strato di ghiaccio, oltre 100mila anni or sono, quando più a Sud l’Homo sapiens insidiava un pur sempre esistente Neanderthal. Nessuno sapeva allora che di lì a molto tempo quella landa si sarebbe chiamata Svezia e sarebbe divenuta una delle nazioni più all’avanguardia al Mondo sotto molteplici punti di vista.

Poi, vinta ormai da millenni la guerra evolutiva con i Neanderthal, fra il 12mila e il 1700 aC iniziò la cosiddetta Età della pietra e pure quella landa inospitale poté divenire meta di migrazioni umane grazie al ritiro dei ghiacciai. Un ritiro indotto da incrementi delle temperature che nell’età del Bronzo (1700-500 aC) segnarono in Svezia valori perfin più alti degli odierni.

Nel millennio successivo le popolazioni locali subirono influssi da parte di Greci e Romani, adattando il loro alfabeto fino a plasmare il cosiddetto “runico“. A farsi poi conoscere nel mondo antico, fra il 700 e il 1050 dC, ci pensarono i Vikinghi, navigatori e guerrieri che aprirono la futura Svezia ai contatti con altri Paesi. Non sempre pacificamente.

Epidemie: quelle cattive

Alla fine del XIV secolo la popolazione di Svezia e Finlandia, all’epoca unite, ammontava a soli 650mila abitanti, un po’ meno dell’attuale popolazione della città di Palermo. Ciò a causa anche della “Morte nera” (la peste), la quale a metà del 1300 aveva ridotto di circa un terzo la popolazione svedese ed europea. Si stima che siano stati almeno venti i milioni di morti causati dall’epidemia in tutto il Vecchio Continente, sebbene non si potesse certo parlare ancora né di globalizzazione, né di agricoltura e zootecnia intensiva, né di polveri sottili nell’aria. Semplicemente, non esistevano cure mediche moderne, respiratori, antibiotici, antivirali o vaccini: si moriva in massa, fra atroci dolori e spesso il fuoco era l’unico mezzo per disinfettare le case e gli oggetti dei periti.

La ripresa economica dei due Paesi fece poi sì che la popolazione salisse a un milione e 300mila abitanti verso la metà del XVI secolo. Forti erano già allora i commerci dei metalli come ferro e rame, di cui quelle terre erano e sono molto ricche.

A metà del 1600 la Svezia raggiunse anche la massima espansione territoriale sul Baltico, toccando i tre milioni di abitanti, falcidiati poi in parte da una seconda pestilenza fra il 1710 e il 1713, quando perì circa un terzo degli abitanti delle grandi città come Stockholm, Gothenburg e Malmö. Altro che Covid-19. Un’altra dura lezione di come la natura, quando vuole, può prendere a sberle l’umanità senza bisogno di particolari aiuti da parte sua.

Si campava poco e male

Ripresasi anche da questa epidemia, verso la metà del 1700 la Svezia rivide un secondo boom economico sempre basato sul commercio, soprattutto dei metalli, inducendo forti migrazioni di manodopera straniera dai Paesi limitrofi. Un processo che in parte potrebbe spiegare ancora oggi l’apertura mentale e sociale svedese verso gli stranieri, inclusi quelli extraeuropei.

Un secolo dopo, nonostante la Svezia fosse ormai da considerare una delle nazioni più benestanti d’Europa, le aspettative di vita erano però di soli 41 anni per gli uomini e di 44 per le donne. L’altezza media della popolazione era di soli 1,65 metri, contro il metro e 83 di oggi. Un incremento quindi di 18 centimetri in 170 anni. Un centimetro ogni dieci anni circa: indice che all’epoca la sotto nutrizione e le dure condizioni di vita non permettevano al corpo di esprimere al meglio tutto il proprio potenziale genetico. Cosa che invece oggi è in Svezia ormai la regola, come nel resto del Mondo civilizzato. Quello ove tre pasti generosi al giorno li hanno praticamente quasi tutti.

A inizio del secolo scorso, purtroppo, la situazione demografica non era particolarmente migliorata, con un’aspettativa di vita di 39 anni per gli uomini e di 47 per le donne, dati che salivano rispettivamente a 53 e 54 in campagna, forse grazie a stili di vita più sani, sia dal punto di vista alimentare, sia da un punto di vista lavorativo. Per quanto fosse duro lavorare manualmente la terra, infatti, queste attività non comportavano continue esposizioni a patogeni e inquinanti di varia natura come avveniva nelle industrie siderurgiche e nelle città malservite (e spesso malsane) di allora. Nonostante ciò, la popolazione svedese di un secolo fa era cresciuta a cinque milioni circa di abitanti, nonostante tre milioni di cittadini avessero lasciato il proprio Paese a partire da metà ‘800 per cercare fortuna altrove, soprattutto in America. Altro segno che le condizioni di vita in Svezia erano all’epoca ben lungi dall’essere soddisfacenti, seppur ampiamente migliorate rispetto a solo un paio di secoli prima.

Al contrario, dopo secoli di alterne fortune un miglioramento sensibile per gli Svedesi si evince dalle aspettative di vita nel 1950, subito dopo la Seconda guerra mondiale. La media era infatti salita a 71 anni, con gli uomini poco sotto e le donne poco sopra.

Nel 2019 tale valore era ulteriormente salito a 82,7 anni, con un incremento del 16,5% in soli 70 anni. Rispetto al minimo storico del 1775, con 31,96 anni, è un incremento del 159%: impressionante. Le donne svedesi, oggi, hanno un’aspettativa di vita di 84,4 anni, circa il doppio di allora. Sono soprattutto i maschi ad aver incrementato di molto le proprie aspettative, forse passando a lavori meno usuranti e limitando vizi come fumo e alcol, sebbene in Svezia non è che con le bevande alcoliche ci vadano particolarmente piano nemmeno oggi. Anche l’assenza di guerre degli ultimi decenni, in fondo, ne ha salvati tanti di maschi.

Tali migliori condizioni di vita, dovute essenzialmente al progresso economico e al lungo periodo di pace, diedero un forte impulso anche alla demografia, portando la popolazione svedese a superare nel 2019 i 10 milioni di abitanti. Un raddoppio in poco più di un secolo, quindi, concentratosi soprattutto dalla Seconda guerra mondiale a oggi. Epoca Rivoluzione Verde di Norman Borlaug, tanto per dire: quella che in pochi decenni riuscì a triplicare le produzioni di cibo senza aumentare la superficie coltivata.

Dall’essere una nazione di agricoltori arretrati, di operai malmessi e di navigatori non sempre fortunati, oggi la Svezia può contare invece su un livello di benessere fra i migliori d’Europa, con una fitta rete di servizi ai cittadini e di diritti civili, coltivabili soprattutto grazie proprio alla ricchezza economica raggiunta dal Paese. Alcuni indicatori sociali esprimono bene l’evoluzione degli Svedesi: se nel 2009 l’89% della popolazione fra 16 e 74 anni aveva accesso a internet, oggi il 98-100% dei cittadini fra i 12 e i 65 è attrezzato per navigare nel web. La banda di 100 MB/sec ha aiutato molto in tal senso, derivando da precise politiche governative in tema di banda utilizzabile nelle comunicazioni. Meditino su questo i complottisti “no-tutto” che oggi osteggiano pure le tecnologie 5G, dando magari fuoco ai ripetitori come avvenuto per esempio in Inghilterra.

Vivi e vegeti

Gli attuali Svedesi possono ritenersi quindi molto fortunati per come si è evoluta la storia del loro Paese, martoriata in passato da guerre ed epidemie, foriere a loro volta di povertà e sotto nutrizione. Flagelli da loro mai sperimentati che se da un lato accorciavano sensibilmente le aspettative di vita, rovinando sogni e rubando infanzie per davvero, dall’altro limitavano persino il pieno sviluppo fisico. Quei 18 centimetri di altezza in più rispetto a metà ‘800 che oggi mostrano gli Svedesi non derivano infatti dal caso, bensì dal progresso tecnologico ed economico che ha portato significativi miglioramenti nella vita della popolazione, soprattutto nell’ultimo secolo.

Se i giovani di oggi, a partire dagli svedesi, conoscessero meglio la propria stessa storia, sarebbero forse più consapevoli di quanti grazie dovrebbero dire alle generazioni precedenti, cioè quelle che hanno reso possibili le loro attuali, agiate, condizioni di vita. Loro infatti mica ci pensano, presi come sono dalle tradizionali contestazioni inter generazionali, ma molti degli attuali under 30 non sarebbero nemmeno riusciti a nascere e quindi a esistere se le condizioni di vita fossero rimaste quelle del 1700. Cioè quando i loro avi facevano la fame nonostante affondassero le zappe nei campi congelati, o si struggessero nelle colate delle industrie siderurgiche, oppure ancora marcissero su rudimentali pescherecci e navi da trasporto. Condizioni miserabili e mortifere per sfuggire alle quali ogni generazione si è impegnata a fondo per ciò che il proprio orizzonte temporale permetteva di fare.

Non solo in Svezia, bensì anche in Italia e in molti dei Paesi occidentali, ovvero quelli più benestanti. Perché da sempre ogni generazione ha dovuto fare i conti con i lasciti, positivi e negativi, delle generazioni passate. E se perseverare negli errori precedenti è in effetti cosa alquanto stolta, nemmeno sputare sui propri predecessori appare cosa nobile e intelligente, perché senza di loro, nel bene o ne male, neppure esisteremmo noi.

Fu infatti proprio grazie ai sacrifici e agli sforzi delle generazioni passate e di quelle presenti, ormai mature o anziane, che qualche sonoro risultato è stato pur ottenuto, come per esempio ridurre la mortalità infantile in Svezia dal 16×1.000 del 1960 a solo il 2×1.000 del 2015. Otto volte meno. Giusto per fare un paragone, in Italia nel 1872 moriva circa il 40% dei bambini da zero a cinque anni. Ovvero, di 100 bambini che nascevano solo 60 potevano sperare di andare oltre i cinque anni. Inoltre, viste le aspettative di vita più brevi in generale, anche molto di quel 60% sopravvissuto al quinto compleanno difficilmente superava poi il cinquantesimo, a causa di vaiolo, tubercolosi, spagnola o poliomielite. Per non parlare della fame e dei giovani spediti in qualche guerra e mai tornati.

Una serie di tragedie che avvenivano in un passato neanche troppo lontano, quindi. Un passato in cui il progresso economico, scientifico e sociale non aveva ancora dato la possibilità a gran parte di quei bimbi innanzitutto di nascere, fatto che troppo spesso viene dato per scontato, divenendo poi adulti con speranze di vita ottuagenarie, lontani ormai da quell’arretratezza che seminava lutti a grappoli soprattutto nelle fasce più povere della popolazione.

Ulteriore lezione da imparare e ricordare, se si vuole onorare la tradizione di impegnarsi sempre al massimo per migliorare rispetto a chi ci ha preceduto. Cioè la sana tradizione del far tacendo, la quale sarebbe bene continuasse ad essere mantenuta viva tramite azioni dai risultati misurabili, anziché venire pedissequamente incompresa e contestata. Per lo più a parole.

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de “Le trasformazioni e l’intuizione”

Su ogni macchina sono montate le ruote. Come pure su ogni treno, su ogni bicicletta e su ogni moto. Chi nei millenni abbia per primo scoperto che l’attrito volvente è più “amichevole” dell’attrito radente, però, non lo sa nessuno. Ciò accade spesso, a tutti i livelli. Tutti tocchiamo ogni giorno con mano i risultati dell’ingegno altrui, ma non gli sappiamo dare né un nome né tanto meno una faccia. Le buone idee, per esempio, trovano immediatamente padri molteplici, nelle aziende come in politica. La loro paternità primigenia si viene così a diluire, fino al punto che spesso è impossibile risalire alla vera fonte intellettuale. Le idee che invece si rivelano poi sbagliate vengono abbandonate in fretta da tutti e muoiono neglette sul gobbo dell’ultimo malcapitato a cui non sia riuscito il gioco dello scaricabarile.

Hendrik Antoon Lorentz (1853-1928) passò gli ultimi anni della sua vita ad arrovellarsi del fatto che lui, e non Einstein, era arrivato al concetto di relatività. Peccato lo fece senza cogliere l’essenza del proprio stesso concetto: con le sue note “trasformazioni” stava parlando di relatività, ma non lo capì finché non arrivò un buffo ometto coi baffetti e la pettinatura scarmigliata il quale disse “.. ma allora… tutto è relativo!”. Quell’omino passò alla storia col nome di Albert Einstein, geniale al pari di Lorentz, ma più bravo nell’intuizione e nella sintesi comunicativa.

Per inciso, le “trasformazioni di Lorentz” furono elaborate per rimuovere le contraddizioni esistenti tra elettromagnetismo e meccanica classica, come pure per spiegare i risultati nulli dell’esperimento di Michelson-Morley tramite l’introduzione del fenomeno della contrazione delle lunghezze. Le trasformazioni di Lorentz sono cioè alla base della formulazione matematica della teoria della relatività ristretta di Einstein.

Per chi non fosse appassionato di fisica però, il nome di Lorentz è del tutto sconosciuto. Peccato, direi: senza di lui non esisterebbero oggi la maggior parte delle teorie su cui si basa l’astrofisica.

Subrahmanyan Chandrasekhar Vs. Marylin Monroe

Subrahmanyan Chandrasekhar: chi era costui?

Per chi pensasse che le formule di astrofisica debbano appartenere in esclusiva a vecchi professori barbogi, consiglio di leggere la storia di Chandra. Al secolo, Subrahmanyan Chandrasekhar. Prima di divenire uno dei fisici più dotati del secolo scorso, il giovane Chandra si accontentava di buttar giù dove gli capitava le proprie intuizioni geniali. Si narra che avesse solo diciannove anni quando, viaggiando in treno attraverso l’India, venne fulminato dall’idea che il limite di Plank sulla repulsione delle nuvole elettroniche degli atomi potesse essere superato. Per Plank, cioè, esisteva una distanza minima che gli atomi potevano raggiungere tra di loro. Andare al di sotto di essa era ritenuto impossibile per via della forza di repulsione reciproca esercitata dalle nuvole di elettroni che circondano i nuclei atomici. Chandra intuì che c’era una forza che poteva vincere quella di repulsione elettronica ed era quella gravitazionale. Ciò non avviene sulla Terra, bensì nel cielo, sulle stelle. O almeno, su alcune di esse. Quando una stella di sufficiente massa finisce il proprio combustibile nucleare, gli strati esterni collassano verso il centro della stella stessa, attratti sempre più dalla sua forza di gravità. Se la stella ha una massa minore del “limite di Chandrasekhar”, il processo si blocca per via della repulsione elettronica, divenendo così il corpo celeste una “nana bianca stabile”. Se una stella ha invece una massa maggiore, la pressione degli elettroni non è sufficiente a contrastare la gravità: la massa continuerà a comprimersi verso il proprio centro finché i protoni non si fonderanno con gli elettroni, trasformando così la stella in una “stella di neutroni”. Se il processo di collasso continua (caso di stelle che all’origine avevano una massa di molte volte superiore a quella del nostro sole) la stella di neutroni evolverà infine in un “buco nero“. La natura del buco nero si presume possa quindi essere un unico, gigantesco neutrone…

Chandra vergò le basi della propria teoria in treno, su di un foglio di carta da pacchi e solo dopo molti anni quegli scarabocchi divennero la chiave di volta per l’interpretazione di uno dei fenomeni cosmici più affascinanti ad oggi conosciuti. E ora la domanda:

Quanti di voi sapevano dell’esistenza di Subrahmanyan Chandrasekhar? Forse una percentuale inferiore all’1%. Anzi, tolgo il forse. Ignoranza? No. Lo scibile umano è così ampio che ognuno di noi può essere colto o ignorante a seconda dell’argomento trattato. Solo pochi però conoscono Chandra, mentre tutti conoscono Albert Einstein. Questo perché sul secondo sono stati scritti libri, girati film, diffuse fotografie (chi non conosce la foto di Einstein che fa la linguaccia?). Di Chandra poco si sa perché poco si è detto. O lo si è detto male. Ma il confronto con Einstein è ambizioso. Proviamo allora a fare il paragone con Marilyn Monroe: una bionda procace e spregiudicata ha impresso la memoria del 99% degli abitanti del Mondo Occidentale. Un genio come Chandra no.

Potere del sesso, forse. Sicuramente, potere della comunicazione… E un neo vicino al labbro vale nel mondo moderno di più di un foglio di carta da pacchi con su scritti incomprensibili scarabocchi…

Rasputin e la Zarina

Grigorij Efimovič Rasputin, nacque in Siberia fra il 1860 e il 1870. Dopo anni di vita “normale” tra i contadini siberiani, e dopo essersi sposato mettendo al mondo tre figli, nel 1905 s’imbucò nella corte dello zar Nicola II.  Nel suo curriculum vi era l’adesione alla setta orgiastica dei Khlysti, come pure al movimento nazionalista dei Veri Russi. Privo d’istruzione, ma scaltro e carismatico, riuscì a intessere una rete di relazioni altolocate che poco dopo lo introdussero a corte. Forte era intanto divenuta la sua fama di potente sciamano. Proprio la sua reputazione di guaritore lo fece chiamare in aiuto di Alessio, figlio degli zar, affetto da emofilia. Grazie all’ipnosi e alla sospensione dell’acido acetil salicilico (l’odierna aspirina) con cui veniva curato il bambino, Alessio mostrò qualche miglioramento. L’aspirina infatti rende fluido il sangue e quindi aumentava l’emofilia. Ma questo Rasputin non lo sapeva. Sia come sia, il merito del miglioramento del piccino venne attribuito a lui.

Il suo carisma e le sue capacità persuasive rovinarono quindi sulla famiglia Romanov, soprattutto sulla zarina Alessandra, donna debole di psiche e d’intelletto, la quale ne divenne presto succube. A Rasputin tutto era concesso, come i frequenti libertinaggi con svariate nobildonne di corte. Chi si provasse a ostacolare Rasputin, o a segnalare ai regnanti le sue malefatte, veniva punito e cadeva in disgrazia. Così, anno dopo anno, Rasputin, eliminò molti dei consiglieri e delle persone vicine agli Zar, creando loro terra bruciata intorno. Più li isolava, infatti, più li governava a proprio piacimento. Si accrebbero per giunta le dicerie su di una presunta relazione con la sovrana, sotto il complice silenzio dello Zar. Relazione o meno, Rasputin andò sempre più oltre nella manipolazione della zarina, inculcandole pure precetti di carattere morale, religioso e politico tutti suoi. Quindi decisamente bizzarri e privi del supporto culturale su cui essi dovrebbero invece basarsi.

Lasciata sola col mistico plagiatore nel 1915, data la partenza dello zar per il fronte, la Zarina effettuò su persuasione di Rasputin continui, disastrosi e schizofrenici cambi al vertice dei membri di governo. E lo fece proprio mentre la situazione di crisi avrebbe dovuto suggerire il mantenimento di un potere stabile e forte. Ma alla fine, la farina del diavolo va tutta in crusca, come ripete un vecchio detto: nel 1916, nel bel mezzo della crisi di governo che Rasputin stesso aveva contribuito a creare, venne decisa una congiura da parte di alcuni nobili e notabili russi. Prima lo avvelenarono, ma data l’assuefazione che Rasputin si era procurata al veleno, alla fine dovettero sparargli, bastonarlo e infine buttarlo nel fiume. Il reperimento all’autopsia di acqua nei polmoni lascia quindi sbalorditi: nel fiume Rasputin ci era finito ancora vivo. L’erba grama non muore mai…

I congiurati però non se la videro bene. Molti di loro finirono tra le grinfie della Zarina e tra loro solo Dmitrij Pavlovič se la cavò: inviato per ritorsione a combattere in Persia, ribaltò a proprio favore l’attacco personale della capricciosa Alessandra. Dopo la rivoluzione del 1917, questa “punizione” fece infatti sì che il granduca Dmitrij fosse uno dei pochi Romanov a trovarsi già all’estero e a salvarsi così dal crollo della dinastia russa.

Rasputin contribuì a cambiare il corso della storia mondiale: forse la rivoluzione russa sarebbe avvenuta lo stesso, chissà. Però, è innegabile il fatto di come il Guru siberiano abbia creato tutte le condizioni perché avvenisse in quel preciso momento, in quelle precise condizioni socio-politiche e con quei risultati che oggi tutti noi conosciamo. Mandare allo sbando il governo russo in un periodo così delicato, gravido di tensioni sociali e di bisogno di riforme, ha forse generato il terreno fertile per il successivo comunismo stalinista. Un fenomeno geopolitico che ha impattato pesantemente le sorti dell’intero pianeta. Senza Rasputin a tirare i fili dei fantocci Romanov, forse il cambiamento sarebbe avvenuto in modo meno traumatico, più diluito nel tempo e senza molte delle conseguenze che invece ha avuto. In altre parole, un mugiko siberiano pressoché analfabeta ha fatto più danni di Gengis Kahn.

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Mussolini e le reni della Grecia

Non molti Italiani sanno che il Duce ordinò l’attacco alla Grecia più che altro per rispondere a uno sgarbo fattogli da Hitler poco prima: aveva invaso la Romania e non si era degnato neanche di avvertirlo. Con il suo usuale cipiglio da oste romagnolo, che pensa che dando del legno si mette a posto ogni cosa, Mussolini ordinò in fretta e furia l’invasione della Grecia. Senza avvertire Hitler ovviamente. Così, parole sue, “Anche Hitler avrebbe saputo della cosa solo dai giornali”, com’era successo a lui per la Romania. Di fronte ai richiami di Badoglio e di Ciano sullo scarso livello di preparazione dell’esercito italiano, Mussolini rispose: “Quando un popolo deve andare in guerra ce lo si manda anche a calci nel culo!”. Nella mente sempliciotta del maestro predappiano, la missione doveva essere un blitz. Pochi mesi dopo doveva invece fronteggiare le conseguenze interne di quella che si rivelò una vera catastrofe. Oltre al danno, anche le meritate beffe: Winston Churchill sfotté l’Italia dicendo “L’ultimo esercito del mondo ha sconfitto il penultimo esercito del mondo“.

Era la fine d’ottobre 1940 quando scattò l’operazione militare. Nella mente di Mussolini, probabilmente, vi era l’icona della Grecia in cui fa sempre caldo. Così, l’esercito venne mandato con le tenute leggere. Presto, le temperature scesero di molto, specialmente in montagna, causando gravi disagi alle truppe. Mancava una sufficiente copertura dell’aviazione, come pure l’artiglieria non era proporzionata al fronte aggredito. Nel giro di poco, la resistenza dei greci mise sotto la spedizione italiana. L’8 novembre venne ordinata così la ritirata. Ma nemmeno le comunicazioni  funzionavano, e così la divisione Julia fu massacrata da tre divisioni greche. Una disfatta. Solo l’intervento dei Tedeschi rovesciò le sorti della campagna militare. Una delle peggiori figuracce della storia militare italiana.

Pensate forse che la pagò Mussolini? Niente affatto. Appena vista la malaparata, il Duce rovesciò tutte le responsabilità su Pietro Badoglio, comandante in capo della spedizione. Per quanto fosse persona dai numerosi coni d’ombra, Badoglio era stato mandato al macello proprio da Mussolini, nonostante non fosse affatto convinto delle chànches italiane in quell’avventura. Però era ufficialmente il comandante, e come tale era il candidato migliore per essere dato in pasto al popolino, lo stesso popolino che aveva urlato di gioia alla notizia della dichiarazione di guerra.

Come andò poi il resto della guerra ben lo sappiamo: eravamo partiti col Dux che diceva “Vincere! E vinceremo!” e abbiamo finito con il Paese devastato nell’onore non meno che nelle macerie. Galeazzo Ciano provò ad esautorare Mussolini nel ’43, ma gli andò male: ritornò presto nelle mani del Duce, ormai riparato a Verona, e finì fucilato dai moschetti della neonata “Repubblica di Salò”. Solo i mitra partigiani misero fine alla vita del Duce. Tutta la sua sicumera e la sua boria sanguigna finirono appese con lui in piazzale Loreto. Dalle sue “tasche” scivolarono fuori i fantasmi di Matteotti e di tutti gli antifascisti fatti sparire durante il ventennio; come pure le anime dei 250.000 caduti italiani, 125 volte di più di quegli ipotetici 2.000 morti che a Mussolini “servivano per sedersi da vincitore al tavolo della pace”. Alle morti va anche aggiunta la sofferenza dei 320.000 mutilati e dei 620.000 uomini fatti prigionieri dalle forze alleate.

Seguire il Duce, quel tipo di Duce, rovinò l’Italia. Esattamente come seguire i folli piani di certi manager porta alla rovina di intere aziende.

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Il Bunker del Führer

Sul finire dell’aprile 1945 Hitler era ormai asserragliato nel proprio bunker berlinese. Da Est le armate sovietiche occhieggiavano a pochi chilometri dal Reichstag e quelle americane, da ovest, non erano molto più lontane. L’avventura nazista era finita con la disfatta di Stalingrado, la Ratkrieg (guerra dei ratti) come la definirono gli uomini del 6° corpo d’armata tedesco. Al suo comando il generale Friederich Paulus, impegnato nel piano d’invasione denominato “Barbarossa”. Ci erano andati vicini i nazisti: erano arrivati a 20 km da Mosca. Poi la disfatta. Lo Stato Maggiore tedesco aveva ben avvertito Hitler dei rischi che l’invasione della Russia comportava. Ma il Führer, ubriaco di potere e in preda a delirio di onnipotenza, aveva sovrastimato le forze dell’esercito tedesco. Così, non seguì il consiglio dei suoi generali e mandò 3,5 milioni di uomini sul confine sovietico. Ma nulla può il numero dei soldati, se il ghiaccio blocca carrarmati e cannoni a -30°C. Nel febbraio 1943 la Sesta armata tedesca era in ginocchio e dovette ripiegare verso casa, nonostante lo zio Adolph continuasse a sbraitare che dovevano resistere.

Grazie poi alla brillante idea giapponese di bombardare Pearl Harbour, gli Americani erano entrati in guerra pure loro e nel 1944 avevano messo piede in Europa, sbarcando ad Anzio e in Normandia. Insomma, nella primavera 1945 la Germania era presa su tre fronti: quello francese e quello italiano (dagli Americani) e quello orientale (dai Sovietici). Hitler da tempo si era chiuso in se stesso. Incapace di accettare i fatti, continuava a impartire ordini con l’impeto che teneva nei suoi comizi dell’Olympia Stadion. I generali lo guardavano attoniti, mentre lui, privo ormai d’ogni controllo – sempre che mai ne avesse avuto uno – martoriava una carta militare appesa al muro. Una carta sulla quale spostava divisioni corazzate, fanteria, artiglieria e flotte aeree che esistevano ormai solo nella sua fantasia. Ordinava manovre a tenaglia, controffensive di “inaudita potenza”. E i generali tacevano. Sapevano bene infatti che era inutile contraddirlo. Chi ci si fosse provato a dirgli che era un folle e che  doveva decretare la resa, avrebbe fatto una pessima fine. Ma erano anche tra incudine e martello: non osavano contrastarlo, ma nemmeno avevano più i mezzi militari per obbedire ai suoi folli ordini e soddisfare le sue farneticanti aspettative di successo. Venivano così trattati da vigliacchi, traditori, incapaci e insubordinati. Perché di tutto quel disastro che gli stava intorno, Hitler sapeva solo vedere nei suoi generali quella che ai suoi occhi era bieca disobbedienza. Dopo qualche giorno, finalmente, si decise a liberare il mondo dalla sua improvvida presenza e si avvelenò col cianuro. Era il 30 aprile 1945. Morì portando con sé la certezza che la Germania aveva perso perché non gli aveva obbedito. Morì con l’idea di essere circondato da incapaci e vigliacchi, da traditori. Incapace di capire che al disastro la Germania ce l’aveva portata proprio lui, coi suoi febbricitanti sogni di gloria, si rifiutò fino all’ultimo istante di vedere la realtà per quello che era. Decine di milioni di esseri umani perirono così per i suoi piani paranoici. D’altronde, che fosse un pazzo lo si poteva capire anche soltanto dalla morbosa attenzione per l’esoterismo e le forze soprannaturali. Forze grazie alla padronanza delle quali il III Reich avrebbe dovuto dominare il mondo. Almeno, questo secondo lui e chi gli dava retta. Ma più che il soprannaturale poterono i cannoni, russi e americani. Come volevasi dimostrare.

Tacere di fronte alla follia, illude solo di vivere tranquilli. Ma non evita la disfatta.

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L’ictus di Stalin

Non sono molti quelli che sanno il vero nome di Stalin: Iosif Vissarionovič Džugašvili. Era un Georgiano d’acciaio (da qui il soprannome “Stalin”), privo di scrupoli e molto violento. Assetato di potere e di comando, sgominò la concorrenza alla guida del partito comunista sovietico e successe a Lenin, colpito da un ictus nel marzo 1923. Lenin ci provò a fermarlo, con le ultime forze. Ma fallì. Per l’Unione Sovietica iniziò quindi un periodo di terrore: le famose “purghe staliniane” non risparmiavano nessuno. Chi non era perfettamente allineato col diktat di Iosif il Georgiano veniva fatto sparire. Spesso ucciso, in altri casi deportato. Perché il dissenso era vietato. Se dissentivi, non facevi a tempo a dire il perché che ti trovavi in qualche gulag siberiano. Lì, dovevi essere avviato al processo di “rieducazione”. In altre parole, ti piegavano e ti umiliavano finché non chiedevi pietà a quel farabutto coi baffoni, pur di poter tornare libero. Libero di che, però, non si è mai capito. La libertà in URSS era di fatto inesistente. Soprattutto quella di pensiero. Ma gli anni passarono anche per Stalin: l’1 marzo 1953, trent’anni giusti dopo Lenin, anche a Iosif venne un ictus. Il malore lo colse nel suo studio, dove venne trovato privo di conoscenza da una cameriera. Ella non fece nulla: sapeva bene che se avesse agito, e avesse sbagliato, Stalin gliela avrebbe fatta pagare cara. Così chiamò il capo della sicurezza. Ma anche lui si fermò davanti al corpo ferito del Baffone e restò senza prendere una decisione. Si rivolse quindi a Berija, braccio destro di Stalin. Berija però conosceva il buon Iosif meglio di tutti. Sapeva quindi che la sua era una situazione molto rischiosa. Il sistema di sicurezza, creato proprio da Stalin, non permetteva di fatto di decidere che fare. Tutto ciò perché solo Stalin stesso aveva il diritto di richiedere l’intervento dei medici. Stalin aveva però trascurato il fatto che poteva anche verificarsi la situazione per cui proprio lui non fosse in grado di agire. Berija non fece quindi nulla, cercando di trovare una scappatoia che salvasse il Leader Sovietico, ma anche le natiche dei soccorritori. Convocò quindi il Soviet Supremo, in modo da condividere con tutte le massime cariche dello Stato la responsabilità della decisione. Decisione che venne presa solo il 2 marzo, quando decretarono di chiamare alcuni medici, i quali peraltro non avevano mai visto prima il paziente. I precedenti medici di Iosif erano stati infatti tutti arrestati poco tempo addietro. Ogni minuto è prezioso in caso di ictus. La vita del paziente spesso dipende dalla tempestività d’intervento. Stalin rimase invece senza aiuti per quasi un giorno intero. Forse non sarebbe sopravvissuto lo stesso. O forse si. Di certo, se anche avesse avuto qualche speranza, gli ingranaggi bloccati della sua stessa amministrazione gliela hanno tolta. L’URSS seppe di Stalin solo la mattina del 4 marzo, mentre la sera del 5 marzo Iosif Vissarionovič Džugašvili, detto Stalin, moriva senza aver mai ripreso conoscenza.

Difficile stabilire quanto la paralisi dell’apparato sia stata sincera, oppure quanto ci abbiano marciato i successori di Stalin, a partire da quel Nikita Chruščëv che avrebbe pilotato l’URSS negli anni della guerra fredda. Di certo, Stalin, prima che dall’ictus, è stato ucciso proprio da quel clima di terrore che aveva seminato a badilate nel corso di quei trent’anni. E’ stato ucciso dalla propria stupidità e dalla propria sospettosità. Non mancherà a nessuno e la sua fine, forse, potrà essere di monito a tutti coloro i quali sedessero anche temporaneamente sulla poltrona più alta del potere.

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Gemelli diversi

Girolamo Savonarola e Giordano Bruno. Ciò che li accomuna è il dettaglio più noto in assoluto della loro vita: sono finiti entrambi sul rogo come eretici. Pochi però conoscono le differenze tra i due personaggi.

Girolamo Savonarola nasce il 21 settembre 1452, da una famiglia di mercanti. A diciotto anni iniziò a dedicarsi allo studio della teologia e alla scrittura di componimenti poetici come il “De ruina Ecclesiae”, nella quale paragona la Roma papale alla corrotta Babilonia. Un inizio di tutto rispetto per chi ambisca a bruciare vivo sulla pira dell’inquisizione. Nel 1475 lascia la famiglia ed  entra nel convento bolognese di San Domenico. Nel maggio del 1482 si trasferisce quindi nella Firenze di Lorenzo de’ Medici, all’epoca capitale culturale d’Italia. Una capitale culturale di grande modernità, vi è da aggiungere. Il Rinascimento fiorentino dava rigogliose prove d’innovazione e di libertà intellettuali, artistiche e morali che al predicatore ferrarese andavano spesso per traverso.

Le sue prediche crebbero costantemente per acidità ed in esse se la prendeva un po’ con tutto e con tutti. Grande flagellatore di costumi non ortodossi (la sua di ortodossia, ovviamente) crebbe di potere e arrivò ad influire perfino sulla rimozione o distruzione di opere d’arte ritenute sacrileghe o troppo libertine. La fine del Rinascimento fiorentino, in parte, è responsabilità sua. Poi commise l’errore madornale che spesso commettono i fustigatori di costumi altrui: predicò che la Chiesa “aveva a esser flagellata, rinnovata e presto“. Ancora, l’anno successivo tuonò che tutti “aspettiamo presto un flagello, o Anticristo o peste o fame. Se tu mi domandi, con Amos, se io sono profeta, con lui ti rispondo Non sum propheta“. Nel 1492 Lorenzo de’ Medici morì, seguito subito dopo anche da papa Innocenzo VIII, il quale venne sostituito da da Alessandro VI, al secolo cardinale Rodrigo Borgia . Un nome, una condanna. Il Savonarola però s’illuse per un tratto che ciò fosse pure un bene. Il suo progetto era quello di rendere indipendenti quanti più conventi possibili, per poterli poi meglio controllare. La caduta di Piero de’ Medici nel 1494 e l’instaurazione della repubblica non giovò affatto a Savonarola, così come non gli giovò l’anno successivo l’alleanza stipulata contro la Francia di Carlo VIII da parte di Spagna, Stato Pontificio, Repubblica di Venezia e gli Sforza di Ludovico il Moro. Firenze e il Savonarola, purtroppo per loro, erano filofrancesi. Savonarola incontrò quindi Carlo VIII per avere assicurazioni che Firenze non avrebbe subito danni e che i Medici non sarebbero stati restaurati. Rassicurazioni mendaci che Carlo VIII gli fornì frettolosamente e senza battere ciglio. Savonarola era sempre più solo.

Dopo un rifiuto del Savonarola a incontrare il Papa i suoi rapporti con Roma precipitarono. Fra’ Girolamo venne accusato di eresia e di false profezie, venne sospeso da ogni incarico. Nel 1496 Alessandro VI gli offrì una nomina a cardinale a condizione che ritratti le critiche alla Chiesa, ma Savonarola rispose «Non voglio cappelli, non voglio mitre grandi o piccole, voglio quello che hai dato ai tuoi santi: la morte. Un cappello rosso, ma di sangue, voglio!». E morte ottenne: scomunicato da Papa Alessandro VI nel 1497, Savonarola continuò la sua campagna contro i vizi della Chiesa, finché il risorto partito dei Medici nel 1498 lo fece arrestare. Finì al rogo quindi, ma da cadavere, essendo stato pugnalato ancor prima del processo.

Nel 1600, poco più di un secolo dopo Savonarola quindi, Giordano Bruno finirà anch’egli sulla pira. Ma da vivo però. Per quasi trent’anni era rimbalzato tra Roma, Francia, Inghilterra, Svizzera e Repubblica di Venezia, al fine di schivare gli anatemi che di volta in volta gli venivano lanciati dalla Chiesa Romana che lo teneva sempre sul filo del rasoio inquisitorio. Il frate domenicano, nel frattempo, aveva affinato sempre più le conoscenze delle teorie di Copernico. Sposò quindi la sua teoria eliocentrica e andò anche oltre, confutando l’origine degli uomini dal solo Adamo, mettendo in dubbio la natura divina di Cristo e ponendo lingua perfino sul dogma della Trinità. Venne quindi arrestato e avviato a processo, il quale durò per ben otto anni. Alla fine, a causa della sua ostinazione a difendere le proprie idee e teorie scientifiche, venne condannato a morte a mezzo rogo. Si narra che alla lettura della condanna egli avrebbe sentenziato quieto: “Tremate più voi a pronunciare questa sentenza di me ad ascoltarla”.

Cosa accomuna e cosa divide i due frati accusati di eresia? Li accomuna poco, li divide molto. Savonarola era un castigatore di costumi in senso lato. In sostanza, non differiva di molto dai profeti del deserto che minacciavano piogge di fuoco o punizioni eterne per chi avesse ceduto a pulsioni banalmente edonistiche. Il suo fanatismo integralista e la sua ambizione politica lo portarono oltre il limite del conflitto con Roma. E lo perse. Su Giordano Bruno ancora oggi si disserta invece se fosse un vero credente, oppure avesse scelto la strada ecclesiastica per avere più tempo per studiare e imparare. Era in estrema sintesi un filosofo che cercava la verità, invece di tentare di imporne una preconfezionata come provò a fare Savonarola. Questi la verità se la sentiva in tasca, Bruno la cercò invece per tutta la vita. Entrambi perirono comunque per la stessa mano. Una mano che uccise Savonarola per difendere i propri privilegi e interessi politici, mentre arse Bruno per difendere le proprie stesse fondamenta teologiche e impedire alla verità di diffondere tra il popolo e tra i fedeli. A entrambi sono stati comunque eretti monumenti: Savonarola a Firenze e Bruno a Roma. Chi passa oggi loro davanti, purtroppo, li accomuna come martiri dell’Inquisizione, ignorando le profonde differenze all’origine del loro martirio.

Spesso accade che l’epilogo di una storia la faccia catalogare in categorie molto differenti rispetto a quelle meritate. Spesso, cioè, la narrazione a posteriori distorce o appiattisce i dettagli, fino a farli scomparire. Fino a creare cioè una falsa verità. E una falsa storia. Solo lo studio attento dei fatti e la loro comparazione permette di capire dove stia il vero e dove il falso.