Erbicidi, agricoltura e irriconoscenti a pancia piena

Insultare gli agricoltori e opporsi a ciò che serve per produrre cibo: una pericolosa follia collettiva (foto di autore sconosciuto)

Mangiare e prosperare senza sapere da dove vengono cibo e prosperità. Succede per molteplici frutti del progresso, agrofarmaci inclusi. Le crociate contro “pesticidi” e, soprattutto, diserbanti, sono prova di ignoranza storica e di incapacità di analizzare il mondo

Non ho idea di chi abbia scattato la foto. Lo citerei volentieri per lo scatto meraviglioso. Non ho idea nemmeno di chi siano gli autori di quello striscione abolizionista e al contempo offensivo. So per certo, comunque, che indipendentemente da nomi e cognomi dietro quella scritta si celi un oceano di ignoranza e stupidità. Un oceano non dissimile da chi accusa i sanitari di somministrare veleni ai propri pazienti, a partire dai vaccini. Diverse similitudini vi sono anche contro i detrattori del 5G, i quali per insultare e allarmare usano la tecnologia 4G e poi useranno la 5G per confermare la propria idiozia quando useremo il 6G. E così via, in un loop di follia anti-tecnologica la quale, appunto, usa la tecnologia per manifestare contro di essa.

In tal frangente, la crociata contro gli erbicidi è caso emblematico. Ben si comprende come ciò sia potuto succedere, con le associazioni ambientaliste e altre ad esse assimilabili che da decenni sobillano le menti più semplici paventando catastrofi ambientali e sanitarie. Del resto, se non terrorizzi la gente contro qualcosa, poi come si fa a chiedere soldi per finanziare le crociate stesse? Un trucchetto che infatti viene oggi usato anche dai molteplici ciarlatani che rovistano nelle pance dei novax per farsi mandare bonifici a sostegno della “coraggiosa battaglia per la verità” che stanno conducendo, dicono, a loro tutela. Di fatto spennano solo dei poveri grulli, cosa che non li rende molto diversi da quei colossi delle lobby ambientaliste che operano grazie ai medesimi schemi propagandistici.

Quello che non sapete e che forse manco volete sapere

Cari i miei imbrattatori di lenzuoli, in primis gli agricoltori sono sì sporchi, ma solo perché lavorare la terra, riparare attrezzature e a pulire stalle non è mestiere pulito come stare comodamente sul divano con uno smartphone in mano, a pancia piena, scrivendo contumelie sui social o, come in questo caso, insulti agli agricoltori con un po’ di vernice stesa a pennello.

Se sono sporchi, quindi, è perché fanno il lavoro più basilare di tutti, ovvero produrre cibo. Anche per voi, maledetti babbei. Per giunta, sono rimasti in quattro gatti a farlo, quel lavoro. Un solo agricoltore è chiamato a dare cibo a più di 100 cittadini. Per farlo, necessita di grandi macchine per tirare le attrezzature atte a lavorare, seminare e curare le colture stesse. Come pure utilizza grandi macchine semoventi da raccolta per mietere e trebbiare o trinciare con un solo passaggio centinaia di ettari. Cosa per fare la quale servivano una volta decine di persone che tiravano di falce sotto il Sole per giornate intere. Erano i vostri nonni e bisnonni, sapete? Persone che se oggi leggessero quanto avete scritto tornerebbero su questo mondo e vi darebbero tanti di quegli schiaffi da arrossarvi il viso più di quanto voi abbiate arrossato quel cencio.

Circa poi lo specifico uso degli erbicidi, non risulta agli atti una vostra intenzione di diventare mondine, andando a lavorare chini nei campi a strappare le malerbe a mano. E no, le macchine per il diserbo meccanico hanno i propri limiti e difetti. Utilissime, soprattutto in alternanza ai diserbi chimici, ma se qualcuno vi ha illuso che grazie a essi potremmo abolire gli erbicidi quel qualcuno vi ha preso per i fondelli. Un po’ come quelli che vi assicurano che si può fare a meno dei medicinali prendendo qualche integratore naturale e diventando vegani. Ottime le intenzioni, sovradimensionate le aspettative.

Per vostra informazione, solo negli ultimi vent’anni le sostanze attive rimaste a disposizione per proteggere i raccolti, inclusi quelli che diverranno il vostro cibo, sono la metà di prima: solo gli erbicidi sono scesi a 88 dai precedenti 177. Del resto, gli usi degli agrofarmaci in genere è più che dimezzato dal 1990 a oggi. Quindi, state combattendo una battaglia feroce contro uno dei comparti produttivi che più ha diminuito il proprio impatto sull’ambiente. Ovviamente, ciò non vi viene detto dai ciarlatani “green” di cui sopra, i quali si taglierebbero le palle da soli se ammettessero tali numeri.

Ergo, cari abolizionisti del piffero, cercate qualche occupazione migliore per il vostro tempo. Perché insultare gli agricoltori, ai quali dovreste dire solo grazie, e chiedere proibizioni prive di senso è atto insulso e deleterio. A meno ovviamente di essere così coerenti da saltare due pasti su tre. Perché questo è il calo medio che si avrebbe nelle produzioni di cibo se rinunciassimo agli agrofarmaci.

Qualcuno si offre? No eh? E allora ricordatevi che “un bel tacer non fu mai scritto“. Men che meno su di un lenzuolo.

Leggi l’approfondimento:

Più bocche, meno terre, meno “pesticidi”: la tempesta perfetta

Disclaimer 1: nessun commento è ammesso. La spiegazione qui

Disclaimer 2: i bannerini pubblicitari che possono apparire nel blog sono di wordpress. Dato che adopero una versione gratuita, loro sperano che io gliela paghi mettendomi pubblicità. Ignorate ogni suggerimento a diete, prodotti o cure miracolose: sono contrarie ai contenuti del mio blog e pertanto me ne dissocio apertamente.

Glifosate: bovini avvelenati? L’informazione di più

Un’ipotesi è un’ipotesi e tale deve restare. Poi ci vogliono infatti le prove, oggettive e inconfutabili

Il noto erbicida viene accusato di aver avvelenato quattro vacche e sette vitelli a Bene Vagienna, in provincia di Cuneo. La notizia rimbalza per ogni dove, ma l’analisi dei dati tossicologici direbbe altro

La gatta frettolosa fece i gattini ciechi. Noto adagio che ci ricorda come la fretta sia sempre cattiva consigliera. Un esempio di quanto ciò sia vero proviene da Bene Vagienna, piccola località del Cuneese ove 11 bovini, quattro vacche e sette vitelli, sono morti dopo alcuni giorni di agonia.

Diversi organi di stampa e associazioni di vario genere riportano quanto comunicato dai locali Carabinieri Forestali, con sede a Mondovì, cioè che l’indiziato della strage sarebbe l’erbicida glifosate, giunto forse per deriva da un pioppeto limitrofo al campo in cui sarebbe stata falciata l’erba somministrata alle povere bestie. Un’azienda agricola sarebbe finita quindi sotto indagine per i fatti occorsi.

Un nome, una garanzia, glifosate. Nel senso, una garanzia di ottenere molti click a favore di chiunque pubblichi una notizia che riporti quel nome ormai famigerato. Inutilmente, famigerato, ovviamente. Poi la rettifica, nel volgere di pochi giorni, con un secondo comunicato stampa: forse è stato mancozeb, un fungicida, sempre per deriva a seguito di un trattamento nei campi adiacenti.

Facendo però quattro conti, le cose non sembrano plausibili. Un lavoro non da poco, quello del “eco-coroner abusivo”, dovendosi calcolare:

  • Il peso vivo dei bovini (quasi tre tonnellate messi tutti insieme);
  • il volume teorico di erba consumata giornalmente, anche nell’ipotesi siano stati nutriti solo con erba;
  • La dose di glifosate e/o di mancozeb necessaria a uccidere tutti gli 11 animali, comparando i dati tossicologici disponibili delle due sostanze attive.

Alla fine di tale stima è emerso che ci sarebbero volute decine di chili di glifosate e di mancozeb per uccidere quelle povere bestie. Quindi, impossibile sia stata una semplice deriva a contaminare quell’erba a sufficienza per provocare l’intossicazione mortale. Si sta infatti parlando di quantitativi sufficienti a trattare ettari ed ettari di campi coltivati. Che siano finiti tutti su pochi quintali di fieno appare quindi oltremodo improbabile.

Una sproporzione stellare, quindi, fra quanto serviva per uccidere vacche e vitelli ed eventuali tracce sull’erba ingerita. Detta in termini più comprensibili, non si muore per coma etilico per un sorsetto di birra scroccato all’amico in pizzeria. Ecco, le proporzioni sono più o meno queste.  

Per approfondimenti in chiave tossicologica (c’è anche un breve riassunto per chi avesse fretta):

Avvelenamento bovini: glifosate. No, mancozeb. O forse nessuno dei due

Quello che preme invece ricordare in questa sede è il famoso detto sulla gatta frettolosa e i danni che la fretta può generare. Infatti, l’ondata di sdegno contro le supposte “fake news” pubblicate su glifosate e sui bovini può in tal caso considerarsi parzialmente fuori bersaglio. In fondo, organi di stampa e associazioni hanno pubblicato solo ciò che è stato detto loro tramite comunicati ufficiali dei Carabinieri Forestali. Quindi non dalla siòra Clotilde di Mondovì, né da qualche associazione locale di pseudo-ecologisti chemofobici in perenne ricerca di visibilità.

Tradotto: è davvero un caso di fake news? Ni. Nel senso che è corretto dire che sfiora l’impossibile che una semplice deriva di glifosate e/o di mancozeb possa aver ucciso i poveri bovini. Ma basta questo a bollare la notizia come fake, vista l’origine, cioè l’autorevole fonte? Direi di no.

Spesso ho dato dei cialtroni a coloro che cavalcano periodicamente notizie chemofobiche, al 99% inventate. Ma in questo caso, non me la sento di scaricare sugli organi di stampa la responsabilità dell’odio alimentato nei confronti della chimica agraria. Semmai due parole le avrei da dire ai Carabinieri Forestali di Mondovì, focalizzando su due loro affermazioni, contenute in entrambi i comunicati.

La prima:

In relazione al presente procedimento penale (nei confronti dell’azienda agricola supposta fonte delle derive, nda), si tiene a precisare che le indagini sono in corso di sviluppo, potendo emergere in futuro elementi di segno contrario rispetto a quelli sino ad ora raccolti, a favore quindi dell’indagato, da presumersi innocente sino a quando non sia pronunciata sentenza di condanna definitiva”.

La seconda:

Tanto si comunica per sensibilizzazione della cittadinanza in relazione alle gravi e pericolose conseguenze che possono derivare dall’utilizzo improprio dei prodotti fitosanitari, invitando chiunque a segnalare eventuali situazioni ed episodi che potrebbero creare un danno alla salute pubblica”.

Io invece ne ho una sola: se le indagini non sono ancora concluse, mi chiedo per quale ragione vengano mandati comunicati stampa contenenti ipotesi colpevoliste su due specifiche sostanze attive impiegate in agricoltura, scatenando le prevedibili ridondanze allarmiste di carattere chemofobico di cui l’agricoltura già patisce da tempo.

E con questa, di affermazione, intendo sensibilizzare le Autorità di ogni ordine e grado sulle gravi e pericolose conseguenze derivanti da comunicazioni troppo frettolose, mancanti cioè di un quadro probatorio sufficiente a corroborare le ipotesi formulate in precedenza. Ipotesi le quali, per loro stessa natura, sarebbe meglio restassero nel cassetto fino alla loro dimostrazione fattuale.

La gatta frettolosa fece i gattini ciechi, come si diceva. I comunicati stampa…

Disclaimer 1: nessun commento è ammesso. La spiegazione qui

Disclaimer 2: i bannerini pubblicitari che possono apparire nel blog sono di wordpress. Dato che adopero una versione gratuita, loro sperano che io gliela paghi mettendomi pubblicità. Ignorate ogni suggerimento a diete, prodotti o cure miracolose: sono contrarie ai contenuti del mio blog e pertanto me ne dissocio apertamente.

Agricoltura biologica, disastri annunciati e utili idioti

Come la stampa generalista tende a glissare sugli aspetti negativi del Bio

Scoppiano rivolte in Sri Lanka e la tensione sociale è alle stelle. Fallite le recenti politiche economiche e agricole del Paese, i nodi vengono al pettine anche sul tema Bio, ma la stampa pare non voler toccare l’argomento

Un articolo sul Corriere della Sera tocca il tema Sri Lanka, viste le recenti turbolenze anti governative dovute alla profonda crisi economica e alimentare del Paese. Nel pezzo si toccano molti punti salienti alla base di tale crisi, tutti corretti, ma c’è una parola che proprio non pare debba comparire nella pur ampia disamina, ovvero “biologico“.

Va infatti da sé che buona parte della rabbia popolare derivi soprattutto dalla penuria di risorse alimentari e dei prezzi che queste hanno toccato negli ultimi mesi. Di certo, il tentativo di convertire a bio tutta l’agricoltura dell’isola non è stata una genialata, come già dimostrato nel seguente approfondimento:

La dura legge della fame

Quindi, pur considerando le macro dinamiche socio-economiche e politiche dello Sri Lanka, non pare corretto omettere che gran parte della presente crisi, e della conseguente rivolta, dipende dalle scelte ottuse e anti scientifiche del Presidente e del suo governo.

Il tutto, dovrebbe insegnare che a dare retta a guru come Vandana Shiva si rischia molto. Perché alla base di certe derive politiche e agricole c’è spesso lei, la pseudo-ambientalista indiana. Non paga di quanto causato nel Sikkhim, cioè in patria, Vandana Shiva ha infatti convinto anche la politica cingalese a sposare l’agricoltura 100% Bio.

Di certo, l’eco-santona si guarderà bene dal farsi vedere nello Sri Lanka oggi. E per la sua incolumità le si sconsiglia vivamente di recarvisi. Resta da chiarire come anche qui, in Europa e in Italia, le sirene del Bio abbiano sedotto ampie porzioni della politica, vedesi le recenti trovate del Farm2Fork. Del resto, la stampa generalista, incluse certe trasmissioni sedicenti di inchiesta sempre bene ne parlano, dell’agricoltura biologica, presentando l’agricoltura moderna come “intensiva“, usando l’aggettivo in modo dispregiativo. E per chi fosse interessato a capire dove sta l’inghippo, prego:

Agricoltura intensiva: sinonimo del Male o solo agricoltura moderna?

Il dramma è che sui social e nei media generalisti imperversano anche utili idioti che ben lungi dal guadagnare dalle marchette che fanno a favore dei prodotti biologici (almeno fatevi pagare…), continuano a spargere disinformazione e fake news, rendendosi complici e partecipi di una propaganda a confronto della quale impallidisce perfino quella di Putin e Lavrov, suo ministro dall’impudenza fuori scala.

Non ci sono molti consigli da dare, salvo quello di stare alla larga da chi incensi il biologico “senza se e senza ma“, presentandolo come la panacea di tutti i mali: agricoli, alimentari, sanitari, economici e perfino ambientali.

Vi stanno raccontando una manica di baggianate e molti di loro manco capiscono l’entità delle medesime, divenendo a loro volta altri utili idioti che le moltiplicano sui social. Quindi, se proprio volete capire come stanno davvero le cose, andate a farvi un giro in Sri Lanka: quando tornerete tutto potrete diventare tranne che utili idioti al servizio della propaganda bio.

Disclaimer 1: nessun commento è ammesso. La spiegazione qui

Disclaimer 2: i bannerini pubblicitari che possono apparire nel blog sono di wordpress. Dato che adopero una versione gratuita, loro sperano che io gliela paghi mettendomi pubblicità. Ignorate ogni suggerimento a diete, prodotti o cure miracolose: sono contrarie ai contenuti del mio blog e pertanto me ne dissocio apertamente.

Pesticidi, viticoltura e troppa disinformazione

Tutti addosso alla viticoltura. Ma i numeri danno loro torto

In aree viticole come il Trevigiano, patria del Prosecco, infuriano da molti anni proteste contro i cosiddetti “pesticidi”, reclamando contro un loro uso supposto “indiscriminato” e premendo a favore della viticoltura biologica, supposta meno impattante. Vediamo cosa dicono i numeri

Crociate mediatiche a tutto spiano, oggi con le fiaccolate, domani con i cortei, hanno dipinto la viticoltura come fonte di malattie inenarrabili, attribuite soprattutto ai “pesticidi di sintesi“. Una rabbia particolarmente furiosa si è poi manifestata soprattutto a danno di glifosate. Tali proteste, evidentemente, funzionano, visto che hanno di fatto portato all’esclusione di questo erbicida dai disciplinari di produzione del Prosecco Docg, facendo praticamente sparire questo prodotto dai vigneti trevigiani. Meno male? Ma neanche per idea: solo una facciata di cartapesta in ossequio al “marketing del senza“.

Che infatti le cose non stiano come paventato, per lo meno sul tema “tumori“, se n’è già fornita ampia disamina, dimostrando come in Veneto vi sia una correlazione inversa tra superfici a vigneto, usi di agrofarmaci e mortalità per tumori.

Leggi l’approfondimento:

Vigneti, pesticidi e cancri? Ma anche no…

Vediamo ora qualche dato sul tema “usi indiscriminati dei pesticidi“, perché anche su questo punto vi sono alcune sorprese. Circa gli “usi sempre più massicci di pesticidi” si è invece già fornita una specifica disamina numerica, dimostrando come tale affermazione sia di fatto una vera e propria bufala, visto che in trent’anni le tonnellate impiegate in Italia si sarebbero praticamente dimezzate.

Leggi l’approfondimento:

Più bocche, meno terre, meno “pesticidi”: la tempesta perfetta

Gli impieghi di formulati fitosanitari in viticoltura

Ai dati riportati al link sopra indicato, relativi al totale nazionale, contribuisce significativamente la viticoltura, ma solo per quanto riguarda i fungicidi. Le tabelle presenti sul sito di Istat riportano infatti anche la suddivisione degli impieghi per tipologia di prodotto e per coltura. Questa informazione di tipo settoriale è però ferma al 2016, riportando per quell’anno una superficie viticola trattata di 644.583 ettari, pari al 98,8% del totale vitato nazionale. Il numero medio di trattamenti nel 2016 è quindi stato pari a 13,59. Un dato ovviamente alquanto variabile in funzione della stagione e dell’area considerata.

Sempre per l’anno 2016 è possibile confrontare anche i dati nazionali con quelli specifici della viticoltura. Complessivamente, in tale anno la vite avrebbe rappresentato il 12,9% delle tonnellate di formulati fitosanitari applicati in Italia, segnando un valore medio di 24,8 chilogrammi per ettaro, di cui 24,3 sarebbero imputabili ai soli fungicidi. Relativamente a questi ultimi, su vite sarebbero state impiegate 15.640 tonnellate delle oltre 61mila applicate a livello nazionale.

Detta in altri termini, il 25,6% dei fungicidi utilizzati in Italia nel 2016 sarebbe stato applicato su vite. Al contrario, erbicidi e insetticidi avrebbero rappresentato meno dell’1% ciascuno. Gli erbicidi avrebbero infatti contabilizzato impieghi pari a 192 tonnellate (0,8% del relativo dato nazionale). Di queste, 159 sarebbero dovute al solo glifosate, erbicida il cui uso su vite rappresenta quindi solo lo 0,7% degli usi agricoli complessivi nazionali.

Analogamente, di insetticidi se ne impiegavano su vite solo 171 tonnellate, ovvero lo 0,8% del dato italiano complessivo. In sostanza, se per i fungicidi la vite rappresenta una quota altamente significativa delle tonnellate di formulati utilizzate in Italia, ciò non avviene per le altre tipologie di prodotto, qualificando la vite fra le colture a minor impiego a livello nazionale. Un’evidenza che dovrebbe quindi far riflettere sulle pressioni esercitate proprio sugli erbicidi, uno su tutti glifosate. I diserbi in viticoltura rappresentano infatti una quota estremamente ridotta rispetto al totale, sia a livello colturale, sia a livello agricolo generale, inducendo quindi a rivedere l’attuale percezione circa i suoi usi, decisamente sovradimensionata.

Ripartizione su vite per famiglia di prodotti

La quantità complessiva di agrofarmaci impiegati su vite nel 2016 è stata pari a 16.036 tonnellate. Su vite, come detto, sono i fungicidi a rappresentare la quota ampiamente maggioritaria degli impieghi, con 15.640 tonnellate, pari al 97,5% dell’ammontare complessivo dei fitosanitari impiegate sulla coltura.

Gli inorganici in base zolfo rappresentano la quota maggiore con 11.054 tonnellate, pari al 68,9% del totale. Nello specifico segmento di prodotti, i trattamenti con lo zolfo rappresentano quindi il 70,1% dei fungicidi impiegati in viticoltura. Da parte loro i rameici rappresentano la seconda voce di impiego, pari al 10,6% del totale con 1.703 tonnellate. Percentuale che sale al 10,9% sul totale dei fungicidi. In sostanza, rame e zolfo messi insieme rappresentano il 79,5% dei quantitativi di agrofarmaci impiegati nei vigneti e l’81% dei fungicidi.

In questa specifica categoria di prodotti, gli agrofarmaci di sintesi compongono quindi meno del 20% dei quantitativi impiegati su vite. Gli azoto-organici, esclusi i triazoli, rappresentano infatti il 14,8% del totale con 2.378 tonnellate (15,2% sul totale fungicidi). I triazoli, da parte loro, date le loro basse dosi di impiego, ammontano a sole 71 tonnellate: 0,44% sul totale di agrofarmaci impiegati e lo 0,45% sul segmento dei soli fungicidi.

Dei 24,8 chilogrammi per ettaro di agrofarmaci impiegati su vite, quindi, ben 17 chili sarebbero di solo zolfo, mentre i rameici apporterebbero 2,63 chilogrammi. In totale, rame e zolfo rappresentano su vite 19,7 chilogrammi dei 24,8 utilizzati. Quattro quinti dei chilogrammi mediamente applicati su vite sarebbero quindi dovuti a prodotti autorizzati anche in viticoltura biologica.

Conclusioni

  1. Scandalizzarsi per i chili di agrofarmaci impiegati in viticoltura, supposti eccessivi, ha senso dallo scarso al nullo, visto che se si vuole raccogliere l’uva sana si deve trattare mediamente 13-14 volte l’anno.
  2. Il 70% di quei chili è peraltro di banalissimo zolfo, sommando al quale il “romantico” rame si arriva all’81% del totale. Entrambe le tipologie di fungicidi sono ammessi in viticoltura biologica.
  3. Da quanto sopra, appare decisamente sciocco reclamare per la conversione a biologico della viticoltura, illudendosi in tal modo di diminuire l’impiego di chilogrammi per ettaro. Eliminando gli agrofarmaci di sintesi, che hanno dosi molto basse, i viticoltori sarebbero obbligati a utilizzare ancor più zolfo e rame, gonfiando ulteriormente il dato relativo agli usi per ettaro.
  4. Considerando che nei vigneti l’uso di glifosate non arriva all’1% del totale impiegato, chiederne l’estromissione dai disciplinari è stata quindi campagna meramente mediatica, figlia di una demonizzazione gonfiata ad arte da una molteplicità di portatori di interesse, sostenuti per le strade e sui social dalle usuali masse di utili idioti. Una demonizzazione cui purtroppo non sono stati in grado di opporsi né le autorità locali, incluse quelle sanitarie, né i consorzi dei produttori, del tutto proni agli umori sballati che giravano e tuttora girano per ogni dove.
  5. Infine: la modifica genetica delle viti potrebbe apportare resistenze endogene alle principali patologie fungine. Il Genome editing si mostra in tal senso la via più consigliabile, visto che è in grado di modificare velocemente e in modo chirurgico il DNA della coltura, realizzandovi all’interno i geni per diverse resistenze. Va infatti ricordato che i funghi patogeni mutano e che ciò che gli è oggi resistente potrebbe non esserlo più domani. Visto però che la vite è coltura pluridecennale, va parimenti accettato che le applicazioni di fungicidi in vigna siano fattore comprimibile, ma non eliminabile. Anche perché vi sono patologie secondarie che senza agrofarmaci diverrebbero in fretta primarie. Ergo, se proprio non volete i “pesticidi”, almeno non opponetevi alle tecniche di modifica genetica, del tutto sicure per l’ambiente e per i consumatori.

Disclaimer 1: nessun commento è ammesso. La spiegazione qui

Disclaimer 2: i bannerini pubblicitari che possono apparire nel blog sono di wordpress. Dato che adopero una versione gratuita, loro sperano che io gliela paghi mettendomi pubblicità. Ignorate ogni suggerimento a diete, prodotti o cure miracolose: sono contrarie ai contenuti del mio blog e pertanto me ne dissocio apertamente.

Più bocche, meno terre, meno “pesticidi”: la tempesta perfetta

Da un lato lo storytellig, dall’altro i numeri

Mentre aumentava la popolazione, diminuivano gli ettari coltivati e i mezzi di difesa necessari per proteggere le colture. Un avvitamento molto pericoloso che continua tuttora, promettendo il collasso della già scarsa autosufficienza alimentare italiana

L’uso sempre più massiccio dei pesticidi” è uno dei tormentoni più in voga da diversi anni. Come pure c’è chi da altrettanti anni abbaia, bava alla bocca, contro l’agricoltura cosiddetta “intensiva“, esortando a cambiare indirizzo e a dare sempre più spazio a forme di agricoltura supposte meno impattanti, come il biologico, ma sicuramente meno produttive.

Leggi l’approfondimento sui perché l’agricoltura biologica non è la panacea di tutti i mali:

L’agricoltura biologica: storia di un disastro annunciato

C’è quindi un problema: le forme di agricoltura proposte come alternative a quella moderna e tecnologica sono solo illusoriamente meno impattanti, poiché per unità di cibo prodotto comportano impatti superiori. Inoltre, la popolazione italiana è cresciuta nel tempo, concentrandosi per giunta nelle città. Le campagne, di conseguenza, si sono progressivamente ridotte a causa di abbandoni e cementificazione. Come fare quindi a soddisfare una domanda alimentare cresciuta per decenni, mentre calavano le superfici coltivabili pro-capite e quasi scomparivano le braccia per coltivarle? Si può: con la meccanizzazione, la genetica e la chimica. Peccato che solo la prima sia in qualche modo tollerata, mentre la seconda e la terza vengono demonizzate come supposti agenti di morte, anziché esser viste come alleate indispensabili.

Un bel dilemma, questo, anche considerando che nel frattempo, sempre sotto le spinte chemofobiche, agli agricoltori sono rimasti sempre meno prodotti da utilizzare a difesa delle colture (il 70% delle sostanze attive utilizzate fino alla fine degli Anni 80 non ci sono più), come pure sono diminuiti gli usi in assoluto.

Nel grafico sottostante, i trend inversi dei terreni coltivabili e della popolazione italiana.

Come si vede, mentre la popolazione aumentava del 19,4% fra il 1961 e il 2019, le superfici agricole diminuivano del 36,6%. La divergenza fra le due variabili ha fatto sì che ormai restino solo 2.175 mq a testa di terre coltivabili contro i 4.093 dei primi Anni 60. Un calo di disponibilità pro capite pari al 46,8%. In sostanza, ciascun Italiano ha sempre meno metri quadri per produrre cibo. Reclamare quindi cibo italiano è più che altro una bizzarria mediatica, un obiettivo irraggiungibile a meno di accettare che da quei pochi metri quadri rimasti si estragga quanto più cibo possibile. Cioè il contrario di quello che si otterrebbe con l’aumento delle superfici a biologico.

Sotto, il calo negli usi degli agrofarmaci (alias “pesticidi”), sia espressi come formulati commerciali, sia come sostanze attive.

L’andamento irregolare è dovuto alle condizioni fitosanitarie e metereologiche di ogni annata. Il trend in calo è comunque percepibile chiaramente fra il 1990 e i 2020, con un minimo del -41,5% per i formulati, toccato nel 2019, parallelo al -51,7% delle sostanze attive, sempre nello stesso anno. Ci si chiede quindi in che modo il Farm2Fork previsto dal Green Deal pensi di poter eliminare la metà degli attuali agrofarmaci di sintesi nell’arco di pochi anni, senza lasciare sguarniti i campi contro malerbe, parassiti e malattie fungine. Il tutto, considerando pure che se vi sono meno molecole e meno modi d’azione, a sviluppare resistenze ci vuole un attimo, costringendo gli agricoltori a impiegare sempre e solo le poche sostanze attive rimaste.

Concludendo: il cosiddetto “uso sempre più massiccio dei pesticidi” è una fola maramalda, come pure lo è quella de “l’uso indiscriminato dei pesticidi“. Peraltro, l’agricoltura intensiva non è causa, bensì effetto, avendo ridotto progressivamente le superfici coltivabili. Ciò ha reso indispensabile produrre sempre di più da ogni metro quadro di terra rimasta. Ogni altra forma di agricoltura può quindi solo indurre cali produttivi a due cifre percentuali, gonfiando ulteriormente la già imbarazzante dipendenza dall’estero dell’agroalimentare italiano ed europeo.

Poi arriva una guerra in Ucraina e all’improvviso ci si accorge che chi, come chi scrive, ammoniva da tempo su questi temi, proprio scemo non era.

Disclaimer 1: nessun commento è ammesso. La spiegazione qui

Disclaimer 2: i bannerini pubblicitari che possono apparire nel blog sono di wordpress. Dato che adopero una versione gratuita, loro sperano che io gliela paghi mettendomi pubblicità. Ignorate ogni suggerimento a diete, prodotti o cure miracolose: sono contrarie ai contenuti del mio blog e pertanto me ne dissocio apertamente.

Influenza aviaria: fermarla si potrebbe, ma…

Le biotecnologie sono al servizio non solo degli uomini, bensì anche degli animali. Chi le ostacola fa male al Mondo

Da 11 anni una tecnologia bioingegneristica giace inascoltata nei cassetti delle autorità di regolamentazione. Permetterebbe di fermare l’influenza aviaria negli allevamenti. Ma c’è chi si oppone

Per chi ha fretta:

L’influenza aviaria è trasmessa da volatili selvatici, soprattutto migratori. Gli allevamenti sono falcidiati ogni anno da questi virus, ad alto grado di mutazione, causando decine di milioni di capi morti, sofferenze e danni economici gravissimi. Da 11 anni ci sarebbe la soluzione per fermarla, modificando geneticamente il pollame in modo che non risulti più infettabile dal virus, ma la tecnologia è congelata a causa delle solite pressioni anti-biotech delle compagini pseudo-ambientaliste e pseudo-animaliste. Di fatto, ciò fa parte della loro crociata anti-zootecnia, cui le periodiche epidemie gonfiano le vele mediatiche. Un comportamento ideologico malevolo e in malafede che non dovrebbe condizionare l’innovazione tecnologia globale.

Per approfondire

Kevin M. Folta è docente presso il Dipartimento di Scienze dell’Orticoltura dell’Università della Florida, negli Stati Uniti. Dal 2007 al 2010 ha contribuito al progetto per il sequenziamento del genoma della fragola, ma il suo principale impegno è nella ricerca nel campo della fotomorfogenesi nelle piante, inclusa la sintesi dei composti responsabili del sapore delle fragole. Divulgatore scientifico dal 2002, interviene spesso per sfatare fake news sulle biotecnologie, come pure per contrastare i gruppi che le osteggiano. Nel 2017 è stato eletto membro del Committee for Skeptical Inquiry.

I suoi articoli vengono spesso riportati da GLP, acronimo di Genetic LIteracy Project e uno degli ultimi suoi contributi riguarda l’influenza aviaria e le opportunità di contrastarla che purtroppo giacciono nel cassetto proprio a causa delle pressioni anti-ogm delle solite associazioni pseudo-ecologiste.

Qui l’articolo originale in inglese:

Viewpoint: There is a solution to the devastating poultry pandemic – but anti-technology activist groups and outdated regulations are blocking it

Di certo, non v’è molto né di ecologista, né di animalista nel vedere cumuli di volatili morti, uccisi dal virus dell’aviaria o abbattuti perché infetti, mentre i bulldozer li spingono in una fossa a migliaia per volta.

Nuovi contagi stanno infatti dilagando non solo in Italia, bensì anche negli Usa, provocati da un nuovo ceppo di aviaria ad alta patogenicità, in acronimo HPAI. L’attuale epidemia sarebbe infatti la più mortale degli ultimi sette anni, sostiene Folta. Ammonterebbero ormai a oltre 23 milioni, fra polli e tacchini, gli animali già uccisi o abbattuti.

Ciò che genera ancor più rabbia, però, è che una tecnologia utile ad arrestare queste epidemie sarebbe già stata sviluppata e quindi disponibile. Peccato che non si possa impiegare in quanto afferisce al campo delle biotecnologie e le solite associazioni anti-ogm la starebbero tenendo in scacco con le usuali azioni di lobby e le ancor più fruste campagne mediatiche di stampo allarmista.

La tecnologia in questione sarebbe in grado di bloccare la trasmissione del virus dal primo uccello infetto a tutti gli altri ad esso vicini. Ciò stando ai ricercatori britannici che hanno modificato geneticamente dei polli affinché non possano diffonderla ad altri pur avendola contratta. La ricerca è stata pubblicata su Science: “Suppression of avian influenza transmission in genetically modified chickens”.

Come funziona

Per comprendere la scoperta dei ricercatori bisogna prima riassumere qualcosa sui virus: nel loro codice genetico contengono specifiche sequenze che amministrano gli enzimi necessari per la loro stessa replicazione. Senza questi enzimi i virus non riescono quindi a replicarsi.

Tramite le biotecnologie, il team di Cambridge/Edinburgo ha modificato gli elementi necessari alla replicazione generando “molecole esca”, cioè del materiale genetico che agli occhi delle cellule sembra siano virus da replicare, quindi li replica, ma ciò che ne deriva è qualcosa che è privo delle informazioni necessarie per assemblare un virus infettivo vero e proprio. In pratica, la “fabbrica” biochimica sfruttata dai virus per replicarsi viene distratta da questi falsi bersagli e inizia a obbedire a questi anziché ai virus stessi.

Nei test, il primo pollo infettato avrebbe quindi sviluppato la malattia, e ne sarebbe morto, ma tutti quelli a lui vicini no. Le molecole-esca non hanno peraltro mostrato effetti collaterali sugli uccelli sottoposti a tese, come pure non sono plausibili alterazioni a carico delle uova o della carni.

Altro punto a favore di tale innovazione è che potrebbe essere trasmessa alle generazioni successive di polli (o tacchini o di qualsiasi altro volatile allevato) attraverso l’allevamento tradizionale. Non c’è quindi bisogno di continue modifiche genetiche.

La strage che potremmo arrestare…

Le stragi da aviaria negli allevamenti iniziano di solito al di fuori di essi, essendo veicolata di solito dagli uccelli migratori selvatici, infetti, che si spostano verso nord al ritorno dalle aree in cui hanno svernato. Durante la migrazione questi uccelli fanno tappa lungo la rotta, visitando anche gli spazi adiacenti agli allevamenti, infettando al contempo anche fauna locale che a sua volta potrà trasmettere l’infezione.

Nonostante l’estrema severità delle misure di biosicurezza, il virus  riesce comunque a bucare le difese, dilagando spot in diversi allevamenti. Ciò perché è altamente contagioso e si muove tramite le correnti d’aria e le particelle generate dalla polvere fecale.

Nel 2015, prosegue Folta, oltre 50 milioni di polli e tacchini domestici sono morti a causa dell’aviaria, con una perdita stimata di 3,3 miliardi di dollari. Solo negli ultimi anni, le infezioni da HPAI sono scoppiate in 24 stati americani ed è probabile che il virus sia ormai endemico lungo le rotte migratorie orientali. La crisi innescata da queste stragi ha avuto impatti notevoli anche sui consumatori, causa aumenti sensibili dei prezzi: le uova sarebbero aumentate per esempio del 52%. Purtroppo, appare improbabile una via d’uscita tramite vaccinazione, dal momento che questi virus mostrano un alto grado di mutazioni.

… ma qualcuno dice no

La domanda quindi è perché una tecnologia nata nel 2011, cioè 11 anni fa, non può essere ancora applicata negli allevamenti? Come al solito, sono i gruppi anti-ogm che avrebbero orchestrato l’usuale campagna di intimidazione dei normatori, agitando la bandiera degli allevamenti intensivi presentati come lager dalle condizioni malsane. L’agrobusiness, secondo loro, starebbe cercando con queste modifiche di ridisegnare il DNA degli animali per meglio adattarli agli ambienti “industriali” degli allevamenti. Accuse che peraltro poggiano su una base di verità: da quando l’uomo è diventato allevatore/agricoltore sono iniziate le selezioni degli animali che portavano le caratteristiche più funzionali alle esigenze gestionali e alimentari umane. Lo si è fatto per le colture, lo si è fatto per gli allevamenti. Abbattere mammut con le lance non era certo meglio.

Poi, che certi capannoni siano delle vere e proprie brutture, non serve ce lo ricordino gli pseudo-ambientalisti e pseudo-animalisti. Non a caso è da decenni che si lavora per l’evoluzione delle prassi legate al benessere animale, progredendo continuamente in tal senso. Del resto, ci sarebbero anche altre modifiche genetiche che permetterebbero di far nascere solo pulcini di un determinato sesso, mettendo fine alla mattanza di quelli nati col sesso “sbagliato”, ma anche in tal caso sono sempre le stesse compagini a remare contro tali innovazioni biotecnologiche.

In sostanza, e come spesso accade, chi propugna ideali di per sé nobili se presi in valore assoluto, poi si mostra la prima causa di inutili stragi e sofferenze. A conferma che la strada dell’inferno è davvero lastricata di buone intenzioni.

Disclaimer 1: nessun commento è ammesso. La spiegazione qui

Disclaimer 2: i bannerini pubblicitari che possono apparire nel blog sono di wordpress. Dato che adopero una versione gratuita, loro sperano che io gliela paghi mettendomi pubblicità. Ignorate ogni suggerimento a diete, prodotti o cure miracolose: sono contrarie ai contenuti del mio blog e pertanto me ne dissocio apertamente.

I conti salati dell’opportunismo

La penuria di commodities ha scoperchiato le fragilità agricole dell’Italia (Fonte foto: Claas Italia)

Prezzi dei mangimi fuori controllo e bestiame a rischio abbattimento. Italia ed Europa sono oggi vittime di pluridecennali errori strategici, esponendosi entrambe al rischio di severe lezioni sull’agroalimentare

Talvolta anche le più raffinate analisi degli economisti possono nascondere trappole con cui si rischia di fare i conti in futuro. Ciò perché le dinamiche globali non sono esclusivamente economiche, bensì anche politiche, sociali, culturali e talvolta belliche. Gli indirizzi di business consigliabili oggi potrebbero cioè rivelarsi degli harakiri domani.

A conferma, una ventina di anni fa alcuni economisti nostrani ipotizzavano enormi potenzialità di crescita se gli Italiani avessero adottato la predisposizione americana all’acquisto rateale. L’Italiano, più sparagnino, tendeva infatti a comprare quando aveva i soldi per farlo, in tutto o almeno in parte. L’Americano dell’epoca no: rateizzava e acquistava. L’economia d’Oltreoceano pareva quindi florida ed espansiva, a partire dal mercato immobiliare.

Solo pochi economisti, fra cui l’Italiano Luigi Zingales, avvertirono dei rischi di quelle bolle speculative. Pochi anni dopo, nel 2007, in molti dovettero dare ragione al professore padovano, poiché fu in quell’anno che iniziò la più catastrofica crisi finanziaria del Dopoguerra. Fare debiti è infatti una leva interessante per alimentare l’economia solo se nell’immediato futuro si hanno i soldi per tapparli, quei debiti. E molti Americani quei soldi non li avevano, cadendo nella trappola micidiale di avere più rate da pagare che soldi con cui pagarle.

In Italia ciò impattò meno, grazie proprio a quella natura risparmiatrice che fece sì che a fronte di un grande debito pubblico esistesse un discreto risparmio privato.

Quella lezione, però, non sembra aver reso più saggi i decisori politici nostrani su molteplici faccende, agricoltura in primis, né pare che la pessima esperienza americana abbia indotto a maggiore prudenza alcuni economisti del settore primario. Nel corso dell’ultimo ventennio si sono infatti moltiplicati articoli che spingevano l’agricoltura nazionale verso attività più redditizie, anche se di nicchia, abbandonando le colture meno remunerative come per esempio mais e cereali. E fin qui parrebbe pure consiglio logico e razionale. Peccato che per far ciò si sia finiti con l’importare sempre più commodities da altri Paesi. Abbiamo cioè gonfiato nel tempo un pericoloso debito in termini di autosufficienza alimentare, a fronte di profitti tanto appetitosi quanto momentanei.

Coerenti con questo storytelling, anche i sussidi pubblici all’agricoltura sono cambiati negli anni, passando dal premiare le produzioni a incentivarne la riduzione. Il set-aside, per esempio, prevedeva specifici contributi a chi lasciasse incolti i terreni, salvo essere abolito, guarda caso, nel 2008 a crisi finanziaria ormai deflagrata. Nel frattempo si erano moltiplicate le normative europee, sempre più restrittive, che insieme ai disciplinari di produzione hanno drasticamente ridotto l’arsenale fitosanitario e i fertilizzanti a disposizione degli agricoltori.

Basti pensare che la Lombardia è la prima regione agricola italiana e il 60% circa delle sue superfici coltivabili sono soggette a qualche vincolo di tipo ambientale che ne strozza la produttività.

Infine il Greening, con sussidi specifici che premiano l’ecologia a ulteriore scapito della produttività. Ottime quindi le intenzioni verso l’ambiente, sebbene i risultati non siano stati all’altezza dei sacrifici chiesti in cambio. Disastrose infatti le conseguenze per la produttività agricola, tanto che sono andati moltiplicandosi i terreni abbandonati. In pratica, un set-aside definitivo causa disperazione.

Notevoli si sono infine rivelati anche gli adempimenti burocratici, lievitati senza pietà a carico di agricoltori e allevatori. Questi si sono perciò trovati di fronte a una scelta opprimente: abbandonare o adeguarsi, moltiplicando la caccia ai sussidi e al taglio dei costi fino a divenire strettamente dipendenti dai sussidi stessi. Ed è proprio in questi scenari che si è realizzata anche la crescita del biologico e dei prodotti cosiddetti “tipici”, quelli cioè venduti a caro prezzo sui mercati, riconoscendo però agli agricoltori poche briciole in più.

Poi vennero i grani antichi, le varietà autoctone dimenticate, le razze animali pressoché estinte da recuperare, nonché molteplici colture alla moda. Tutto con il fine di vendere magari poca merce, ma a prezzi più alti, tappando con le importazioni i crescenti buchi agroalimentari. E a chi manifestava preoccupazione per tale rischioso sbilanciamento veniva risposto “È il mercato, bellezza!”. Infatti, perché produrre mais da insilare, quando conviene coltivare altro, dando al proprio bestiame granturco importato? Perché mai continuare a spingere le rese delle commodities, quando il mercato non ripaga i costi e si ricava più denaro correndo dietro a qualche coltura-capriccio?

Esempio di ciò la Regione Lazio che per il 2022 avrebbe concesso 600 euro all’ettaro di contributi a chi coltivi quinoa biologica. Peccato che stando ai dati Fao la resa media della quinoa sia intorno ai nove quintali per ettaro, spaziando da un minimo di 2-3 quintali fino a picchi, rari, di venti se coltivata in modo moderno e intensivo. Di grano duro si possono invece toccare in Italia rese di 50 quintali per ettaro (34 di media) e di grano tenero perfino i 90 (media 62). Di certo, la moda della quinoa, specie se bio, ne ha fatto lievitare i prezzi oltre che i contributi. Nel 2005 veniva infatti prezzata 400 dollari la tonnellata, contro i 2.500 dollari del 2018 dopo aver toccato addirittura i seimila nel 2013.

Forti di tali numeri, sulla stampa di settore impazzarono quindi gli articoli che ne incentivavano la semina, spacciandola come ghiotta opportunità di mercato. Questo fino a un paio di anni fa. Oggi, con le bombe che fischiano in Ucraina e le navi di grano, mais e olio di girasole che non arrivano più nei porti, i contenuti degli articoli sono di tutt’altro tenore, lanciando grida di dolore per la mancanza di approvvigionamenti di materie prime e di mangimi per le stalle, con la minaccia di dover abbattere il bestiame entro poche settimane se non arriveranno in fretta forniture sostitutive dall’estero. Ma non di quinoa biologica, bensì di cereali e soia.

Soprattutto il mais, pilastro degli allevamenti nostrani, è calato vistosamente negli ultimi anni. Secondo Istat, in Italia se ne produceva poco meno di cento milioni di quintali fra il 2006 e il 2008, contro i 61 milioni del 2021. Troppe restrizioni, troppi costi e pochi ritorni economici. Meglio quindi correre dietro ai trend del momento, spesso opportunistici, che tener duro e salvare le fondamenta dell’agricoltura e della zootecnia italiana.

La crisi ucraina ha poi usato come sveglia grandi secchiate di acqua gelida, spazzando via in un lampo gli innumerevoli storytelling delle produzioni scarse, sì, ma furbe, poiché più remunerative. Purtroppo, a suon di tarlare le travi portanti del Paese, incalzando gli agricoltori verso imprudenti obiettivi modaioli, oggi la realtà suona alla porta e presenta il conto, con un mais il cui costo sarebbe aumentato del 60-70% rispetto al 2020 (fonte Federalimentare), seguito dappresso dalla soia usata per l’alimentazione degli animali e quindi per la produzione di formaggi e salumi. Peccato che l’Italia ne debba importare oltre il 70% e che oggi il suo prezzo sia aumentato del 30-40% in un solo anno.

Senza peraltro dimenticare le speculazioni: in soli tre giorni il prezzo del mais per nutrire il bestiame sarebbe passato da 35 a 60 euro al quintale, prezzo rilevato il 10 marzo (fonte Cia). Non va certo meglio per il farinaccio, altro prodotto utilizzato negli allevamenti, salito da 12 a 30 euro in pochi giorni. Quasi raddoppiati anche i mangimi a base di favino e pisello proteico. A queste condizioni, stando agli stessi allevatori, il rischio è appunto di chiudere e di portare al macello il bestiame prima che deperisca per mancanza di nutrimento.

Sono bastate cioè poche settimane di guerra per mettere definitivamente in ginocchio le già fragili potenzialità produttive di un’Italia troppo dipendente dall’estero per non ricevere la fatidica spallata finale, cioè quella variabile extra-economica cui mai si pensa finché non arriva come un meteorite, spazzando via ogni spicciolo opportunismo.

Ora si cerca di correre ai ripari in extremis, con Stefano Patuanelli, Ministro delle politiche agricole, che ha sollecitato lo sblocco delle importazioni di ibridi di mais ogm anche se non ancora autorizzati dalla Ue per il consumo. Peccato che di poterli coltivare in Italia ancora non se ne parli. Nel frattempo in diverse aree italiane si cambia orientamento produttivo, sconfinando talvolta nella fantascienza. Per esempio, in provincia di Foggia, regina del pomodoro da industria, molti agricoltori si starebbero orientando alla semina del mais. Un’eventualità da ritenersi impossibile solo un mese fa.

Non che la storia non abbia dato in passato lezioni in tal senso. Dai porti del Mar Nero arrivò infatti quel grano russo e ucraino che nel 1861 contribuì a sedare le rivolte popolari che presero vita nel Meridione post-unificazione italiana. All’epoca avevamo sì tanta terra, ma raccoglievamo di grano un po’ meno di quanto oggi si raccolga di quinoa. Invece, usando le moderne tecnologie potremmo raccogliere molto di più, di tutto, ammorbidendo quindi l’inevitabile dipendenza dall’estero su livelli meno impattanti per l’economia italiana.

Quella stessa economia drogata per decenni dalle troppe euforie supposte furbe, salvo poi scoprire che senza alcuni ben precisi pilastri viene giù il palazzo interno. Sarebbe cioè giunto il momento di guardare ancora alla produttività interna come a un bene sacro da promuovere a ogni costo, anziché correre dietro a molteplici gatti e volpi che promettono di raccogliere zecchini d’oro semplicemente seppellendone un po’ nel campo. Il loro, di campo, ovviamente.

Disclaimer 1: nessun commento è ammesso. La spiegazione qui

Disclaimer 2: i bannerini pubblicitari che possono apparire nel blog sono di wordpress. Dato che adopero una versione gratuita, loro sperano che io gliela paghi mettendomi pubblicità. Ignorate ogni suggerimento a diete, prodotti o cure miracolose: sono contrarie ai contenuti del mio blog e pertanto me ne dissocio apertamente.

Più dei trattori poterono i carri armati

La Russia invade l’Ucraina ed emergono le prevedibili fragilità italiane per l’agroalimentare

L’invasione dell’Ucraina mette a repentaglio la pace nel senso più tragico del termine, minando già nell’immediato le dinamiche agroalimentari mondiali. L’Italia è uno dei più fragili ostaggi degli eventi, soprattutto a causa di pluridecennali miopie politiche

Spesso si comprende il valore di ciò che si aveva solo dopo averlo perso. Oppure, quando una grave crisi mette a nudo quelle fragilità che in condizioni di pace (apparente) restavano invisibili agli occhi dei più.

Oggi l’Italia ha paura: Mosca ha invaso l’Ucraina e sono guai per tutti. Bellici, innanzi tutto, ma non solo. Anche se il Belpaese restasse fortunosamente ai margini di un eventuale conflitto mondiale, le conseguenze sarebbero devastanti dal punto di vista economico, soprattutto sul fronte energetico e agroalimentare.

Per essere vincente un Paese deve contare infatti su tre punti fermi irrinunciabili: l’autosufficienza energetica, quella agroalimentare e la potenza militare. In tal senso l’Italia è ostaggio da sempre degli approvvigionamenti energetici dall’estero, condizione ad alto rischio che affonda le radici in scelte autolesioniste del passato accompagnate da una sconsolante penuria di investimenti in infrastrutture e fonti diversificate di produzione interna, come pure è mancata una saggia diversificazione dei fornitori stranieri. Scelte la cui gravità emerge prepotentemente oggi nelle bollette delle famiglie. Meglio poi calare un velo sulle potenzialità belliche nostrane, tutto tranne che temibili agli occhi di colossi come Usa, Cina e Russia. Infine l’autosufficienza agroalimentare, terzo punto dolente.

Le superfici agricole italiane si mostrano infatti in continuo calo, causa abbandoni e cementificazione. Pure le rese per ettaro risultano stagnanti da tempo, mentre i redditi agricoli devono essere pesantemente integrati da sussidi pubblici al fine di scongiurare il definitivo abbandono delle campagne. Perché lavorare in perdita non è impegno sostenibile da alcuno.

Al contrario, l’Ucraina è il primo Paese del continente europeo per superficie a seminativo, grazie anche a una superficie agricola complessiva intorno ai 32 milioni di ettari, pari a due volte e mezza quella italiana che si ferma infatti a circa 12,5 milioni. Solo di cereali, nelle pianure ucraine verrebbero coltivati oltre 15 milioni di ettari. Questi sarebbero per giunta cresciuti in vent’anni di 1,7 milioni, ovvero la somma delle superfici italiane a grano duro e tenero per l’anno 2000 (Fonte: Istat).

Le prime 20 produzioni ucraine

Ma non solo di cereali si tratta, parlando di Kiev, visto che il grande Paese dell’est europeo occupa il primo posto al mondo nelle esportazioni di girasole e olio di girasole, grazie a produzioni di oltre 15 milioni di tonnellate. Secondo posto invece per la produzione mondiale di orzo (8,9 milioni di tonnellate), fatto che pone Kiev al quarto posto anche per quanto riguarda le esportazioni di questo cereale. Locomotiva anche per il mais, occupando il terzo posto nel ranking globale per produzioni (35,9 milioni di tonnellate) e il quarto per le esportazioni. Quarta piazza invece per la produzione di patate (20,3 milioni di tonnellate), quinta per la segale, ottava per il summenzionato grano, e nona per le uova di gallina.

Ranking mondiale dell’Ucraina

In totale, si stima che le produzioni agroalimentari di Kiev potrebbero soddisfare il fabbisogno di circa 600 milioni di persone. Un’enormità, pensando che la popolazione ucraina ammonta a poco più di 40 milioni di individui.


Perfettamente comprensibili quindi le preoccupazioni italiane per la guerra in corso, viste le ingenti importazioni di varie commodities di primaria importanza per l’agroindustria nazionale. A conferma, nel 2020, secondo Ismea, l’Italia avrebbe importato soprattutto oli grezzi di girasole, mais e frumento tenero. Stando inoltre a Coldiretti, nei primi dieci mesi del 2021, dall’Ucraina sarebbero state importate 107mila tonnellate di grano tenero, quello necessario alla produzione di pane e biscotti, pari a circa il 5% dell’import nazionale. Anche dalla Russia è stato importato grano tenero nello stesso lasso temporale in ragione di circa 44mila tonnellate. Cioè meno della metà.

A seguito dell’attacco russo all’Ucraina i prezzi globali del grano sono quindi saliti in un colpo solo del 5,7%, toccando una quotazione internazionale di 9,34 dollari al bushel, corrispondenti a 306 euro alla tonnellata. Guardando ai mercati nostrani al 25/02/22, sulla piazza di Bologna il grano tenero è salito del 2,7-2,8% rispetto alla quotazione della settimana precedente, toccando i 293,5 €/ton per il “buono mercantile” e i 305,5 €/ton per il “fino”. Analogo incremento percentuale per l’orzo, i cui prezzi hanno mostrato un incremento del 2,7% in una settimana toccando i 265,5 €/ton.

Minori gli incrementi per il mais, fra un minimo di +0,4% (piazza di Mantova) a un massimo di +2,2% (piazza di Cuneo), con prezzi compresi fra 224,5 €/ton (Firenze) e 285 €/ton (Cuneo). Un’altra nota dolente, il mais, dato che è la coltura foraggera su cui si basa buona parte delle produzioni zootecniche italiane. Purtroppo, la superficie nazionale a mais si è dimezzata nel volgere di una quindicina di anni, scendendo da circa 1,2 milioni di ettari a poco più di 600mila.

Se quindi l’Italia era pressoché autosufficiente per il mais all’inizio del Terzo millennio, oggi dipende dall’estero per quasi il 50% dei propri fabbisogni. In tal senso, l’Ucraina è il secondo fornitore dell’Italia dopo l’Ungheria, rappresentando circa il 20% delle importazioni totali. Nei primi dieci mesi del 2021 sarebbe però calato del 15% l’import da Kiev, scesa a “sole” 446mila tonnellate.

Tale dipendenza dall’estero per il granturco è dovuta essenzialmente al continuo calo di redditività per i maiscoltori italiani, i quali si sono visti contemporaneamente aumentare i costi di produzione e stagnare le rese. Ciò perché le normative europee e nazionali hanno minato nel tempo la possibilità di nutrire e proteggere adeguatamente la coltura, come pure ha impedito di adottare genetiche innovative come quelle coltivate, per esempio, negli Stati Uniti. Non a caso, è americano il record di produzione di granella di mais, con circa 40 tonnellate per ettaro. Un’enormità, pensando che in Italia si fatica assai a toccare le 15. Quello americano è un record, è vero, ma se le genetiche e le tecniche agronomiche utilizzate negli Usa fossero accettate e disponibili anche in Italia, si potrebbe tornare alle produzioni complessive dei primi anni 2000 senza aggiungere un solo ettaro coltivato a mais.

In sostanza, gli allevamenti italiani vedrebbero raddoppiare la propria autosufficienza negli approvvigionamenti di mais senza dare un colpo di aratro in più. Un valore, quello dell’autosufficienza, di cui purtroppo si comprende appieno la dimensione solo quando una grave crisi bellica prende a schiaffi i sogni fatali di una politica agricola miope. Una politica che negli ultimi decenni ha sistematicamente umiliato la produttività agricola nazionale, seguendo degli storytelling di marketing funzionali solo a costose produzioni di nicchia. Cioè quelle di scarsa quantità ma di alto prezzo. Esattamente il contrario di ciò che deve cercare un Paese moderno se non vuole trovarsi in braghe di tela allo scoppio di una guerra.

Infatti, non solo di mais e di grano si parla, purtroppo: secondo le informazioni condivise dall’Istituto per il commercio estero (ICE), l’Ucraina sarebbe il più grande produttore mondiale di olio di girasole, con una quota pari al 31% del totale globale. Quota che sale al 37% in termini di esportazioni. In sostanza, l’Ucraina esporta più del 90% del proprio olio di girasole, per un volume di circa 6,9 milioni di tonnellate, dato cresciuto nel 2020 del 12% rispetto al 2019. Non stupisce quindi nemmeno che Kiev sia anche fra le prime produttrici di miele, occupando il quinto posto al mondo e il primo se si guarda alle sole esportazioni nei Paesi Ue. Non a caso, oscillano fra le 65mila e le 75mila tonnellate annue le produzioni di miele ucraino, per metà derivante proprio dal girasole.

Purtroppo i problemi per l’Italia non sarebbero legati solo alle dinamiche delle produzioni e delle esportazioni agricole, bensì soffriamo anche sul fronte dei fertilizzanti. Dalla Russia arriverebbe in Italia il 23% dell’ammoniaca, necessaria anche alla produzione di concimi azotati. Circa il 17% dei prodotti a base di potassio arriva nel Belpaese da Mosca, come pure il 14% di urea, altro fertilizzante azotato, nonché il 10% dei fosfati. Oltre alle tensioni sulle commodities, quindi, ci sono anche quelle sui mezzi di produzione. Questi non solo rischiano di scarseggiare, ma anche di veder lievitare i prezzi degli stock attualmente disponibili con un significativo aggravio dei costi per gli agricoltori italiani.

Si spera quindi che la grave crisi internazionale rientri presto nei binari e che la pace torni stabilmente padrona degli scenari globali. In primis per le vite umane a rischio, prima e più grave tragedia di ogni conflitto, ma anche dal punto di vista economico e politico. Bene sarebbe infatti che l’Europa e l’Italia rivedessero gli orientamenti mostrati negli ultimi decenni, sia dal punto di vista energetico, sia da quello agricolo. La paura agroalimentare di oggi, più che giustificata, poggia infatti i piedi su trent’anni di demagogie maramalde che hanno sbarrato la strada alle biotecnologie più evolute, falcidiando al contempo fertilizzanti e mezzi di difesa nell’illusione di poterli sostituire con soluzioni naturali sicuramente più gradite ai media, ma del tutto inadeguate a reggere il peso della domanda interna di cibo.

Forse oggi, con i carri armati che solcano i campi al posto dei trattori, si comprenderà la follia di aver paralizzato il Parlamento italiano su una bizzarria come il DDL 988, quello che si proponeva di sdoganare a livello politico gli esoterismi della biodinamica, una forma di agricoltura che rappresenta una frazione per mille delle superfici agricole mondiali.

Magari, i lampi dei cannoni suggeriranno una maggior lucidità anche a livello europeo, ove sono stati realizzati dei veri e propri cappi a cui impiccarsi come il Farm2Fork del Green Deal, quello che si propone di tagliare di un ulteriore 50% l’uso di mezzi per la difesa delle colture, di triplicare le superfici a biologico e di convertire il 10% delle attuali superfici agricole a un ruolo ambiental-paesaggistico anziché produttivo.

Quanto siano scellerate tali decisioni, condannando la Ue a una crescente dipendenza alimentare dall’estero, lo hanno già dimostrato a chiare lettere il Dipartimento americano per l’agricoltura (USDA) e gli studi europei dell’Università olandese di Wageningen, in cui si stima fra il 10 e il 20% la perdita di produzioni agricole europee, toccando il 30% per alcuni tipi di frutta, come le mele.

Perché se già è alquanto grave restare a corto di energia, ancor più grave sarebbe restare a corto di cibo, dovendosi piegare ai ricatti di un dittatore laqualunque che un giorno si alza e fa tremare il mondo.

Disclaimer 1: nessun commento è ammesso. La spiegazione qui

Disclaimer 2: i bannerini pubblicitari che possono apparire nel blog sono di wordpress. Dato che adopero una versione gratuita, loro sperano che io gliela paghi mettendomi pubblicità. Ignorate ogni suggerimento a diete, prodotti o cure miracolose: sono contrarie ai contenuti del mio blog e pertanto me ne dissocio apertamente.

La dura legge della fame

Raccolti da favola che possono diventare solo un lontano ricordo, seguendo le follie pseudo ecologiste di personaggi come Vandana Shiva

Lo storytelling del Bio sbatte contro il muro della realtà. Nel Sikkim indiano e nello Sri Lanka, le conversioni 100% Bio hanno creato e stanno creando disastri in termini di sicurezza alimentare e di povertà fra gli agricoltori

Le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni, si sa. A volte sono per giunta lastricate di mera demagogia e di interessi lobbisti, con tutte le aggravanti morali che tale ingresso negli inferi porta quindi con sé, come accaduto per esempio in alcune aree del Pianeta già di per sé alquanto povere.

Per assurdo, infatti, non sono stati i ricchi Paesi occidentali a testare sulla propria pelle i rischi dello storytelling biologico, bensì a fare da cavie sono stati Sikkim indiano e Sri Lanka, aree orientali in cui la povertà è da sempre diffusa e dove gli agricoltori facevano già fatica a sopravvivere anche prima.

Intuizione “geniale”: convertiamo tutto a bio, così gli agricoltori staranno benone e la popolazione potrà contare su cibi “più sani”. Altra facezia della narrazione di marketing del biologico. In più, pensavano forse i governanti locali, il vantaggio di apparire agli occhi del mondo come Paesi all’avanguardia, capaci di dare lezioni invece di doverle prendere.

Purtroppo per loro, la lezione se la sono data da sé, andando a sbattere contro il muro della realtà. Nel Sikkim indiano, portato sugli allori dal mondo pseudo ecologista quale esempio di vittoria sulla chimica agraria, la situazione è divenuta presto insostenibile dopo la conversione a Bio iniziata nei primi Anni 2000. Il manicheismo del Governo locale non si era infatti limitato a proibire le importazioni e l’uso di fertilizzanti e di agrofarmaci di sintesi, bensì aveva proibito persino l’importazione di derrate alimentari che fossero state prodotte utilizzandoli. Le partite intercettate nei controlli venivano quindi sequestrate e distrutte.

Poi, nel giro di poco tempo, realizzarono come l’agricoltura del posto stesse andando a rotoli e che i prezzi folli imposti per i cibi bio tagliassero fuori ampie porzioni di popolazione, le più povere. Peraltro, nemmeno gli agricoltori se la passavano bene come ipotizzato, poiché l’aumento dei prezzi non compensava i costi maggiori di produzione né la perdita di rese. Infestanti, malattie fungine e insetti parassiti massacravano infatti le colture rimaste sguarnite di mezzi di difesa, come pure le piante stesse producevano meno a causa della scarsità di nutrimento.

Chi coltivava mais e legumi si è vista calare la resa del 70% in soli quattro anni. I produttori di agrumi e di cardamomo hanno registrato cali compresi fra il 25 e il 50%. Più o meno come i coltivatori di pomodori, le cui rese si sono dimezzate. Un po’ meglio è andata ai produttori di zenzero, i quali hanno perso “solo” un terzo dei raccolti. I cereali molto peggio: il riso soddisfa ormai solo il 20% della domanda interna e la produzione locale di grano è crollata da 21.600 tonnellate a sole 350. Una vera e propria disfatta. Solo a fronte di feroci proteste popolari il Governo ha quindi annullato i sequestri di cibo convenzionale, il cui commercio è tornato legale.

Tale debacle impatta peraltro un altro cavallo di battaglia del Bio, ovvero quello che vorrebbe le aree marginali e meno produttive come le più interessate a convertirsi, nel tentativo di correggere coi prezzi più alti le rese già di per sé basse. Il Sikkim era proprio in una situazione del genere, con un’agricoltura poco produttiva e marginale, purtroppo priva anche di infrastrutture di trasporto e di stoccaggio. Solo un Governo di pazzi avrebbe potuto quindi seguire i progetti “tutto-Bio” di personaggi come Vandana Shiva, attivista indiana pseudo-ecologista che non paga del disastro in patria, di cui si era resa primaria complice, ha indotto pure il Presidente dello Sri Lanka a intraprendere le medesime, disastrose scelte.

Prima sono stati proibiti i prodotti definiti “tossici”, poi hanno realizzato che senza agrofarmaci e fertilizzanti di sintesi le rese precipitavano. Per esempio, nel 2015 il cieco furore anti-glifosate (che tutto è tranne che “tossico”) ne aveva fatto proibire l’uso nella coltivazione del tea, salvo togliere la proibizione solo tre anni dopo a causa delle erbe infestanti che soffocavano le piantagioni senza che le alternative “bucoliche” riuscissero ad arginarle. Il tutto, dopo aver causato una perdita di 100 milioni di euro alle esportazioni del pregiato tea di Ceylon. E questo solo nel 2017. Non male come impatto, in un Paese che ha un Pil di poco più di 80 miliardi di dollari.

Eh no: non iniziate nemmeno col dire che i benefici di tali scelte si possono vedere solo nel lungo periodo. Primo, perché si deve mangiare tutti i giorni. Secondo, nemmeno nel lungo periodo le rese potranno mai tornare a quelle originali, checché ne dica quella parte di pseudo accademia che inzuppa il biscotto da anni nello storytelling del Bio e del “lasciar fare alla natura”. A conferma, ci sono anche persone che hanno perso la vita per l’ostinazione a non volersi curare con antibiotici o con anti tumorali, aborrendo la chimica e rivolgendosi con fede a cure farlocche spacciate per naturali. Che tali nefasti esempi siano magari portati a mente anche in agricoltura.

Ora, la vera domanda è: perché Vandana Shiva continua a colpire le popolazioni più povere dell’Asia, inducendo scelte demenziali ai locali governi? E perché questi ultimi continuano a dare credito all’attivista indiana, la quale ormai va considerata a pieno diritto la novella Trofim Denisovich Lysenko, il ciarlatano russo che con le sue bizzarre posizioni antiscientifiche causò disastri all’agricoltura russa fra gli Anni 30 e 60, vedendo finalmente abbandonare le sue strampalate teorie solo nel 1964. L’anno di nascita del sottoscritto. Un piccolo segno del destino, forse.

Peccato che quel ciarlatano sia stato a capo della prestigiosa Accademia pansovietica Lenin delle scienze agrarie, come pure abbia fatto finire in galera o al muro tutti i colleghi che ne contestavano le teorie. Complice uno stalinismo sedotto dalle vane promesse di un pazzo super egoico come Lysenko.

Ora, non ci sono più i Gulag, né uno scienziato degno di questo nome rischia più di finire in prigione o fucilato per ordine di un bieco stregone. Ciò non di meno, le pseudo-scienze continuano a dilagare colpendo anche il settore agricolo, con le persone di scienza che vengono derise, accusate di corruzione, isolate e messe alla pubblica gogna dai molti, troppi, novelli Lysenko, nonché dai vari proseliti che sono riusciti a raccattare per strada. Basti pensare alla presenza di tali soggetti persino nelle pagine social dedicate all’agronomia, giusto per rendersi conto di quanto siano maligne certe metastasi ideologiche.

Per liberarsi di Lysenko ci vollero decenni. Si spera che per mettere nel dimenticatoio gente come Vandana Shiva e i suoi numerosi fans ci voglia un po’ meno. Per il bene di tutti.

Disclaimer 1: nessun commento è ammesso. La spiegazione qui

Disclaimer 2: i bannerini pubblicitari che possono apparire nel blog sono di wordpress. Dato che adopero una versione gratuita, loro sperano che io gliela paghi mettendomi pubblicità. Ignorate ogni suggerimento a diete, prodotti o cure miracolose: sono contrarie ai contenuti del mio blog e pertanto me ne dissocio apertamente.

Genetiche antifungine all’orizzonte

La scienza avanza: Europa e Italia saranno pronte a coglierne i frutti?

Il controllo dei patogeni potrebbe essere integrato in futuro da nuove soluzioni basate su piccoli peptidi ed RNA a doppio filamento: lo afferma uno studio internazionale (con molta Italia dentro)

Non fosse per le irrazionali (e spregiudicate) lobby anti-Ogm, le biotecnologie potrebbero essere già da tempo al servizio dell’agricoltura nazionale. Non solo apportando benefici in termini gestionali ed economici, bensì anche ambientali, sostituendosi ad alcuni specifici trattamenti con agrofarmaci. Inoltre, gli Ogm da tempo noti, resistenti per lo più a insetti e glifosate, potrebbero is a sto essere affiancati e finanche superati da nuove genetiche frutto di Genome editing, ovvero figlie delle tecniche note come Crispr-Cas9.

In tal caso, i target di tali migliorie potrebbero essere soprattutto i funghi patogeni, magari partendo dalle molteplici specie di oidio, dalle anch’esse molteplici peronospore e, perché no, dalla ticchiolatura, ovvero le patologie che più richiedo impiego di fungicidi. Non che Alternaria, Monilia, Sclerotinia e altre varie ed eventuali vadano riposte nel dimenticatoio, ovviamente. Anche perché le coperte corte durano poco: rendere una coltura resistente a un patogeno, al fine di eliminare gli specifici trattamenti fitosanitari, può aprire il varco ad altre malattie che erano controllate dai medesimi agrofarmaci usati sul patogeno target: sospesi i trattamenti, tempo 2-3 anni emergerebbero altre avversità fin lì poco considerate.

La gara a inseguimento non finirebbe quindi mai, anche perché è ben nota la capacità di mutare che i patogeni hanno. Basti pensare alle precedenti resistenze sviluppate nei confronti delle Ruggini dei cereali, aggirate all’improvviso da un ceppo particolarmente virulento capace di farsi beffa di quei meccanismi di resistenza.

Se un fenomeno del genere si palesasse in un vigneto o in un frutteto, supposti vivere anche per decenni, per tutta la durata residua del ciclo vitale della coltura si dovrebbero riesumare i precedenti agrofarmaci, da usarsi esattamente come si usavano prima che tali transitorie resistenze venissero messe a punto. 

Quindi la ricerca di soluzioni differenti non deve mai fermarsi, con buona pace delle facili illusioni che ogni nuova proposta genera in chi creda semplicisticamente che la guerra sia finita. Ciò perché le guerre a patogeni e parassiti sono sequenze di infinite battaglie, terminata una delle quali si deve fronteggiare subito quelle successive. Banalmente per l’arrivo di un’avversità aliena.

In linea proprio con la volontà di differenziare il più possibile gli strumenti a difesa delle colture, è giunto uno studio in cui l’Italia ha avuto un ruolo fondamentale. A far parte del team internazionale di scienziati sono state anche l’Università Statale di Milano, l’Università Politecnica delle Marche e l’Università di Bologna. A queste hanno fornito il proprio contributo l’Università di Adelaide, in Australia, e il Kth Royal Institute of Technology svedese. Tale ricerca è stata focalizzata sulla messa a punto di nuove molecole organiche utilizzabili come alternative ai fungicidi tradizionali. Tradotto: piccoli peptidi ed RNA a doppio filamento.

I risultati, pubblicati sulla rivista Trends in Biotechnology, confermerebbero le potenzialità di tali molecole nel controllo di alcune avversità grazie alla loro elevata specificità per l’organismo bersaglio. Ampia la panoramica fornita dallo studio sulle molecole identificate, indicando al contempo le necessarie e ulteriori indagini da realizzare, anche per mettere a punto le più opportune strategie da adottare per il loro ottimale utilizzo in campo.

Si attendono quindi gli auspicabili sviluppi, sperando però che tali nuove soluzioni non cerchino di farsi largo tramite l’usuale criminalizzazione, spesso farlocca, delle soluzioni pre-esistenti. Ben si comprende che la caccia ai finanziamenti sia una jungla senza esclusione di colpi, quindi possa essere forte la tentazione di demonizzare gli attuali “pesticidi” per tirare l’acqua al proprio specifico mulino. Si auspica però che ciò non accada, perché alimentare ulteriormente la già insopportabile (e dannosa) chemofobia sarebbe solo l’ennesimo danno per l’agricoltura, non un vantaggio.

Disclaimer 1: nessun commento è ammesso. La spiegazione qui

Disclaimer 2: i bannerini pubblicitari che possono apparire nel blog sono di wordpress. Dato che adopero una versione gratuita, loro sperano che io gliela paghi mettendomi pubblicità. Ignorate ogni suggerimento a diete, prodotti o cure miracolose: sono contrarie ai contenuti del mio blog e pertanto me ne dissocio apertamente.