Pesci, Fukushima e tanti boccaloni

Prosegue l’allarmismo demenziale contro il piano di diluizione delle acque di Fukushima (fonte: https://it.jf-staeulalia.pt/)

Una moria di pesci ricopre le spiagge di Hakodate, a più di 600 chilometri a nord di Fukushima. Un fenomeno già rilevato nel 2009, nel 2014 e 2018 ma dato oggi per “inaudito”. Ovviamente, sono subito apparsi i ciarlatani che sobillano paure anti-nucleariste

Una moria di sardine e altri pesci ricopre le spiagge di Hakodate, una cittadina giapponese sita nell’isola di Okkaido, e viene subito data come “senza precedenti”. Forse in quella cittadina, poiché allargando l’area di osservazione si registrano analoghe morie nel 2009, 2014 e 2018. Quasi che fenomeni di questo tipo abbiano una certa regolarità, sebbene non con le stesse entità e localizzazioni.

Fra le ipotesi più ragionevoli, il brusco abbassamento delle temperature delle acque, come pure una massiccia pressione da parte di vari predatori che avrebbe sfinito e poi spinto verso le piagge i poveri pesci. Ma l’occasione era troppo ghiotta perché i ciarlatani no-nuke non puntassero subito il dito sullo smaltimento delle acque stoccate presso la centrale nucleare di Fukushima.

Nell’agosto scorso è infatti iniziato il piano di diluizione in mare, un piano che si prevede su scala trentennale e solo a seguito di una ulteriore diluizione preliminare pre-sversamento. Praticamente quell’acqua, opportunamente pre-diluita, verrà sversata con volumi quotidiani movimentabili con un secchiello da spiaggia. Ciò poiché la procedura è stata studiata in modo da non alterare i livelli di radioattività naturale, quella cosiddetta “di fondo”. Peraltro, si parla di trizio, un isotopo il cui nucleo presenta un protone e due neutroni, cioè uno in più dell’idrogeno “normale”. Quindi non si tratta di cesio 137 o di polonio 210. Ovvero: piantatela di spargere, voi, veleni ben più pericolosi delle radiazioni stesse.

Gli articoli precedenti

Di tale processo se n’era già parlato in passato, prima descrivendo cosa succederebbe se tutta quell’acqua venisse buttata in una volta sola non nell’Oceano Pacifico, bensì nel lago Maggiore, dimostrando che l’acqua del lago sarebbe comunque rimasta abbondantemente al di sotto delle soglie previste per la potabilità. Detto in altre parole, l’acqua del lago Maggiore, dopo lo sversamento dell’acqua triziata di Fukushima, la si potrebbe tranquillamente bere, fosse solo per le radiazioni.

Nonostante ciò, in occasione dell’inizio del piano di diluizione si scatenarono ancora polemiche e sterili speculazioni, per le quali si commentò in modo puntuale. Inutilmente, a quanto pare.

Ciarlatani a pesca, boccaloni che ci cascano

La moria di Hokadate è stata un’occasione troppo ghiotta per non cavalcare ancora l’idiozia delle acque di Fukushima. Diversi media hanno infatti riportato la notizia della moria, alcuni limitandosi a descrivere il fatto, come ogni giornale serio dovrebbe fare in attesa di conferme sulle cause. Altri, invece, hanno subito sventolato “lo spettro di Fukushima”, citando una fantomatica comunità scientifica contraria allo sversamento.

Chiariamoci, non è che fra gli scienziati non ci siano idioti e incapaci, come pure la categoria non è avulsa da furbastri speculatori o da persone talmente ideologizzate dal giustificare balle colossali pur di tirare l’acqua alle proprie posizioni pseudo-ambientaliste. Ma a tutto c’è un limite. O, almeno, dovrebbe esserci.

Le spiagge oggetto di moria sono infatti a più di 600 chilometri a nord rispetto a Fukushima: fantastico che le radiazioni abbiano compiuto una traiettoria talmente subdola da colpire lì, sull’isola di Hokkaido, senza ammazzare alcunché nel mezzo. Bastano tre neuroni per capire che tra i due fatti non può esservi alcuna correlazione.

Ciò non bastasse, le modalità stesse dello smaltimento aiutano a capire le dimensioni stellari della boiata. Il piano è su base pluridecennale: dai 30 ai 40 anni. Quattro mesi, da agosto a dicembre, sono un terzo di anno. Anche ipotizzando un rilascio costante e omogeneo di quelle acque (si ripete: già precedentemente diluite ante-sversamento) si parla di un volume che al momento non arriva forse all’1% di tutta l’acqua stoccata a Fukushima. Un niente. A conferma, al momento non si rilevano alterazioni di radioattività nelle zone stesse di rilascio, figuriamoci a distanza di 600 e passa chilometri.

Conclusioni, siamo alle solite: subdolo allarmismo basato su ipotesi bislacche, paragonabili a quelle dei no-vax quando un povero cristo muore per arresto cardiaco. Perché alla fine, a ben guardare, l’ambientalismo più becero è ormai ampiamente sovrapposto al complottismo antivaccinista.

Questo si è infatti fuso con i no-5G, con i complottisti delle Torri Gemelle e con i negazionisti dello sbarco sulla Luna, senza farsi mancare nulla nemmeno sul fronte di pesticidi, ogm e carni coltivate. Una ghenga di sbullonati facilmente manipolabili da chi, al contrario, tutto è tranne che scemo e trae vantaggi personali o associativi da sparate come quelle contro Fukushima.

Nel frattempo, però, la parte sana del Mondo va avanti, includendo il nucleare fra le fonti di energia sulle quali investire per contrastare i cambiamenti climatici. Un dato finalmente emerso dalla recente COP28 svoltasi a Dubai.

Ah, già, che sciocco: i complottisti sono spesso anche negazionisti climatici. Tutto torna.

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A EcoBrain, nucleare, clima, carni coltivate, ogm, glifosate e molto ancora

EcoBrai-Defez-Sandroni-Giliberto

Il 19 novembre 2023 si è tenuto EcoBrain, evento dedicato alla scienza declinata su diversi fronti: nucleare, clima, carni coltivate e agricoltura, con un approfondimento speciale sulle colture geneticamente modificate e l’erbicida glifosate

Un insieme di argomenti molto diversi fra loro, trattati in specifici interventi tenuti da altrettanti esperti. Fra questi, moderati da Jacopo Giliberto, giornalista de il Foglio, Roberto Defez e Donatello Sandroni, cioè chi scrive, sono stati coinvolti per approfondire il tema degli ogm ma non solo: biologico, biodinamico, veganesimo, glifosate, agrivoltaico e prodotti tipici a confronto con le carni coltivate.

Di  seguito il video per rivedere la sessione:

Da parte mia, ho potuto apprezzare una sala ricca di giovani. Tutti interessati a scoprire e a capire, senza preconcetti né ideologie condizionanti. Un piacere che provo sempre quando posso trasferire informazioni, dati, evoluzioni storiche, che a dei giovani possono essere tranquillamente sfuggite.

Magari con l’augurio che un domani essi stessi possano svolgere la medesima funzione una volta giunti all’età matura, quella in cui cioè non si ragiona più guardando troppo spesso solo a se stessi, bensì si ragiona molto più guardando a chi ci seguirà nel tempo.

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Per accedere agli altri contenuti di EcoBrain:

Diana Massai, Stefano Biressi e Sergio Saia – Il cibo del futuro è coltivato in laboratorio?

Matteo Miluzio – Capire la crisi climatica:

Matteo Ward – L’impatto del Fast Fashion su ambiente e clima:

Simone Bleynat – “E le scorie dove le mettiamo?”:

Pasquale Abbatista – Aviazione sostenibile: il futuro dei carburanti

Marco Coletti: I Misteri della radioattività, presentazione del libro “Radioactivity”:

Il futuro dell’ambientalismo, dialogo con Ia Anstoot:

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Glifosate: no, non provoca né cancro né autismo

Usi di glifosate in America e incidenza di autismo e tumori: no correlation…

Oggi, 16 novembre 2023, si dovrebbe decidere il destino europeo di glifosate, erbicida promosso da ogni autorità mondiale di regolamentazione ma osteggiato dalle lobby eco-bio. Di seguito, le analisi comparative fra usi di glifosate in America e le incidenze statistiche di 20 tipi di tumore, come pure dei disturbi dello spettro autistico: nessuna correlazione risulta agli atti. Fatevene una ragione

Accusato di ogni malefatta possibile e immaginabile, glifosate è da anni sotto attacco senza però mai riuscire a dimostrare de facto che quanto affermato corrisponda al vero. Si sono infatti moltiplicate le accuse all’erbicida di provocare malanni laqualunque, oppure danni ambientali catastrofici, senza però sfuggire a possibili critiche per i metodi seguiti nella produzione di tali pseudo-ricerche colpevoliste.

In sostanza, i risultati degli studi proibizionisti non sono mai risultati coerenti con i reali scenari sanitari e ambientali, o per le modalità e i livelli di esposizione, o per le metodiche utilizzate, o ancora per l’estrapolazione di dati che sanno più di numeri al lotto che di prove scientifiche. In sostanza, si affermano danni e rischi che di fatto non si realizzano nel mondo reale.

Una raccolta di link utili in tal senso è scaricabile in pdf.

A conferma, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) ha confermato per l’ennesima volta che nulla vieta a glifosate di essere rinnovato nel Vecchio Continente. E ciò dopo l’analisi di migliaia di pagine di studi scientifici svolti in good laboratory practise (cosa che quasi mai avviene nelle ricerche “sedicenti indipendenti”). In sostanza, dal punto di vista scientifico glifosate non propone rischi inaccettabili né per la salute, né per l’ambiente.

Anche su tale parere finale di Efsa è stato realizzato un apposito documento scaricabile.

Le truppe cammellate anti-glifosate non si arrendono

Nonostante il ponderoso tomo di Efsa, coerente con decine di altri ponderosi tomi di Epa, Echa, Fao, Oms e di ogni altra Autorità sanitaria e ambientale globale, il fronte proibizionista continua a produrre accuse dal sapore catastrofista. Ciò al fine di influenzare mediaticamente le decisioni, ormai solo politiche, dell’Europa sull’erbicida.

Fra le accuse più ataviche vi è quella di provocare il cancro. Si è quindi andati a realizzare un confronto fra usi di glifosate negli Stati Uniti e incidenza di una ventina di tumori diversi, Stato per Stato: nessuna correlazione appare fra i livelli d’uso dell’erbicida e l’incidenza dei tumori presi in considerazione.

Anche in questo caso si è realizzato un apposito report ricco di numeri e grafici, scaricabile anch’esso in pdf.

Non paghe di ciò, le lobby eco-bio, armate da uno stuolo di pseudo scienziati di ben pochi scrupoli, hanno tirato fuori persino l’accusa a glifosate di provocare autismo. Ovviamente, così come appare da ogni documento sopra riportato, nemmeno su questo fronte appare una correlazione fra l’erbicida e i disturbi dello spettro autistico. E quindi avete un altro documento in pdf da scaricare e leggere.

Bene peraltro ricordare come una correlazione fra due variabili non è affatto detto implichi un nesso causale. Cioè, anche se due variabili salgono o scendono di pari passo ciò non dimostra che una influenzi l’altra. Si chiamano infatti “correlazioni spurie“, prove cioè di un nesso causale accertato.

Se però non risulta possibile realizzare nemmeno una correlazione spuria, diventa molto arduo tentare di collegare fra loro due variabili. Ed è infatti ciò che avviene sia per il cancro, sia per l’autismo. Per lo meno negli Stati Uniti, Paese dove glifosate è nato e dove viene ampiamente utilizzato da oltre 50 anni.

Poi, va da sé che vi ho dato una tale mole di informazioni da leggere che forse l’uno per mille di voi si prenderà la briga di approfondire. Ed è per questo che i ciarlatani hanno vita facile e spesso vincono: a loro basta strillare a casaccio una qualsiasi accusa e il gioco è fatto. Uno ricca pletora di giornali privi di scrupoli gliele rilanceranno per avere il loro fottuto scoop e per voi sarà solo paura.

Immotivata, ovviamente. Ma se non trovate il tempo di leggere le cose come stanno davvero, la colpa è vostra e solo vostra…

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California: senza energia non c’è transizione ecologica che tenga

Lo Stato di Los Angeles pare fare i conti senza l’oste (fonte: https://it.jf-staeulalia.pt/)

Los Angeles vuole convertire a elettriche tutte le auto con motore endotermico, che non verranno più ammesse dopo il 2035. In più, vorrebbe moltiplicare le colonne di ricarica in tutto lo Stato. Ma sarà bene rifaccia i conti in termini di energia, perché ora come ora non tornano

Fare i conti senza l’oste è sempre sbagliato, poiché alla fine la cifra da pagare la decide sempre lui, non l’avventore. A quanto pare ciò sta avvenendo anche in California, ove entro il 2035 si vorrebbe dare lo stop alla vendita di vetture a motore endotermico, sostituendole tutte con quelle a trazione elettrica. Di pari passo, Los Angeles vorrebbe dotarsi di almeno 10mila stazioni di ricarica rapida entro il 2025.

Il piano è strutturato sulla base di quattro fasi progressive: entro il 2026, cioè fra soli quattro anni, il 35% delle nuove autovetture messe in commercio dovrebbe essere alimentato da batterie o da idrogeno, salendo al 51, 68 e 100% rispettivamente entro il 2028, il 2030 e il 2035. Il medesimo piano includerebbe anche i veicoli medi e pesanti, da convertire a emissioni zero entro il 2045.

Ed ecco entrare in ballo il famoso oste. A fine agosto 2022 il CISO, acronimo di California independent system operator, ha dovuto raccomandare agli automobilisti californiani di non ricaricare le proprie auto elettriche dalle 16 alle 21, cioè la fascia oraria in cui viene ricaricato l’80% dei veicoli. Problema: con temperature superiori ai 40°C stavano andando a palla anche i condizionatori, mettendosi questi in competizione con le auto elettriche. Da qui la richiesta, al fine di scongiurare reiterati Blackout.

E adesso è ancora niente: secondo le stime di Anfia, Associazione nazionale filiera industria automobilistica, la California sarebbe lo Stato americano con più vetture circolanti, con 14.200.000 unità (13% del totale americano). Al momento di elettriche ve ne sarebbe solo 1.130.000, pari quindi all’8% del totale californiano. E questa, per quanto bassa possa sembrare, è invece una cifra di tutto riguardo, poiché rappresenterebbe il 43% di tutte le auto elettriche degli Stati Uniti.

Entro pochi anni a partire dal 2035, una volta esauritesi le auto a gasolio o a benzina, servirà cioè 12 volte l’energia erogata adesso per le sole vetture elettriche. E figuriamoci come potrebbero fare quando la conversione toccherà i mezzi medi e pesanti.

Sì e-car, ma No-nuke

Per raggiungere i propri obiettivi sulla transizione ecologica del parco circolante alla California servirà quindi un mare di energia. Dura pensare che il salto quantico di domanda energetica possa essere soddisfatto solo con pannelli solari e pale eoliche. Né pare ragionevole produrre energia usando carbone, petrolio o metano. Se no, sarebbe solo una partita di giro. Servirebbero quindi tante centrali nucleari, ma la California è come detto una Stato profondamente ecologista e quindi anche tendenzialmente no-nuke.

Su 96 reattori nucleari presenti in america, solo due sono in California, ovvero il 2,08%. Peccato che il soleggiato Stato dell’Ovest abbia una popolazione di 39 milioni e più di abitanti, pari al 12% del totale americano. Quindi sarà bene rifare qualche conto con l’energia nucleare prodotta per abitante (MWh/pro capite), confrontando la California con altri Stati forse meno ecologisti, ma molto meglio attrezzati per ipotizzare transizioni ecologiche ben più a portata di mano.

Nel grafico sottostante sono riportati i valori di energia nucleare per abitante prodotta in alcuni Stati significativi (MWh/pro capite). Come si vede, la California è messa malissimo rispetto agli altri Stati presi in esame, con un valore di soli 0,41 MWh da nucleare per abitante.

Nel grafico successivo i dati di cui sopra sono espressi come rapporto fra i diversi Stati considerati e la California. Dati anch’essi impietosi, che lasciano intuire come a Los Angeles debbano darsi una mossa e pure in fretta. 13 anni passano velocemente e se vogliono alimentare tutte le auto a energia elettrica, senza bruciare fossili per la sua produzione, devono chinare la testa e accettare la costruzione di molteplici centrali nucleari.

Altrimenti l’oste, cioè la realtà, s’incazza.

Links:

https://worldpopulationreview.com/state-rankings/states-with-nuclear-power-plants

https://www.saveonenergy.com/resources/electricity-bills-by-state/#10-states-with-the-lowest-electricity-bills

https://www.anfia.it/it/documenti/itemlist/category/17-statistiche-internazionali

https://www.cbsnews.com/losangeles/news/flex-alert-extended-to-saturday-ev-owners-asked-to-not-charge-vehicles-during-peak-hours/

https://www.cbsnews.com/news/california-bans-sale-gas-powered-cars-2035/

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Né cancerogeno, né mutageno, né tossico per la riproduzione. Glifosate piace alla scienza: la conferma di Echa

Gli esperti di Echa confermano i pareri di Efsa, Oms, Fao, Epa e di un’altra quindicina di Autorità di regolamentazione nel mondo

L’Agenzia europea per la chimica valuta migliaia di studi sull’erbicida e decreta quanto già si sapeva da anni: non va messo negli occhi e non va buttato a secchiate nei fiumi

Glifosate continua a occupare centinaia di scienziati ed esperti in ogni continente del Globo. Soprattutto in Europa il lavoro è divenuto frenetico, poiché a fine 2022 inizierà il processo di valutazione sul rinnovo dell’erbicida a livello continentale. Quindi le truppe cammellate dell’associazionismo chemofobico stanno già muovendo da tempo le proprie postazioni di artiglieria per demolire l’obiettivo che si sono ormai date da anni: fare bandire glifosate dal Vecchio Continente, senza se e senza ma.

Peccato che tutti gli organi preposti alla valutazione degli agrofarmaci concordino nel dire che non sussistano prove esaurienti a sostegno delle accuse mossegli, ovvero di essere cancerogeno, tossico per la riproduzione, mutageno e nocivo per gli organi interni. Tutte accuse, queste, nate dall’impegno sistematico di discutibili gruppi di ricerca, sedicenti indipendenti, che hanno profuso sforzi per dimostrare a tavolino certi effetti, quando di tali effetti nella vita reale non v’è traccia.

Leggi l’approfondimento:

Glifosate: primo ok (scientifico) al rinnovo

Purtroppo, a fronte di migliaia di studi accumulatisi nel tempo, non solo prodotti dalle industrie, bensì anche da ricercatori anch’essi indipendenti, bastano poche ricerche sviluppate ad hoc per tenere acceso il dubbio che glifosate sia un mostro in Terra, sperando che grazie a tale fuoco di sbarramento l’erbicida venga bandito dalla politica europea.

Dalla politica, si badi bene, non dalla scienza. Poiché quest’ultima l’ha già promosso più e più volte a livello europeo, tramite le nostre maggiori autorità scientifiche di valutazione (Echa, Efsa, Bfr, Anses… etc). Pure è stato promosso da ogni altra agenzia di regolamentazione mondiale, dal Canada al Giappone, dall’Australia al Brasile, dalla Nuova Zelanda agli Stati Uniti. A queste si sono aggiunte Oms e Fao, per giunta.

Solo la Iarc, si ostina a classificare cancerogeno l’erbicida, in base a studi epidemiologici che definire fragili è già esser molto buoni. A questi sono stati aggiunti studi su modello animale (cavie di laboratorio) che hanno solo dimostrato che di erbicida ne occorre una montagna perché in qualche ratto si sviluppi un tumore. Il tutto, dopo mesi e mesi di abboffate di glifosate con la dieta. Prove che per come sono state impostate dimostrano semmai l’estrema sicurezza di questa sostanza attiva per la salute umana.

Leggi l’approfondimento:

Iarc contro il resto del mondo

Oggi arriva l’ennesimo parere positivo dell’ennesima agenzia di valutazione scientifica europea, l’Echa, ovvero l’Agenzia europea per la chimica. Là dentro ci lavorano centinaia di esperti di più nazioni. Gente che ha fatto della scienza la propria professione e che lavora da sempre sotto i riflettori dei media e dell’associazionismo più becero. Quindi se e quando parla lo fa dopo aver valutato ogni prova a disposizione fino all’ultimo capello.

Il suo giudizio è che no, glifosate non ha alcun bisogno di rivedere l’attuale classificazione tossicologica: provoca lesioni agli occhi (per forza, ha reazione acida…) come pure ha dimostrato di essere nocivo per alcuni organismi acquatici in diversi test di laboratorio. Due caratteristiche comuni a centinaia di altri formulati fitosanitari, di cui svariate decine autorizzati pure in agricoltura biologica.

Quindi glifosate non è, si ripete, non è cancerogeno, né mutageno, né tossico per i processi riproduttivi, né intacca specifici organi.

Leggi l’approfondimento:

Echa su glifosate: attenzione a occhi e acque, ma non è cancerogeno

No: glifosate non va bevuto, né ci si condisce l’insalata

Non appena è circolata la notizia sui social si è ovviamente scatenata la ridda di analfabeti funzionali e di “furbetti del biologichino” che hanno sbeffeggiato Echa e le documentazioni utilizzate per la sua valutazione.

Niente di nuovo: puntuale, arriva l’esercito di imbecilli che crede di essere originale e spiritoso scrivendo che allora ce ne si può anche bere un cicchetto, di glifosate. Oppure che ci si può condire l’insalata. Gente strana, questa. Gente che forse beve la candeggina con cui disinfetta il water, o che insaporisce l’insalata con lo shampoo antiforfora. Personaggi tendenzialmente rozzi nei contenuti e ignoranti nel modo di esprimersi, spesso usando un italiano men che approssimativo e ricorrendo come unica arma dialettica al discredito e al dileggio delle multinazionali (spesso sono anche no-vax mica per caso) e delle Autorità di regolamentazione (spesso sono anche no-vax mica per caso, repetita juvant).

Personaggi che ritengono più attendibili gli svagelli psichedelici di soggetti come Stephanie Seneff, bizzarra ricercatrice informatica del Mit di Boston che ha elaborato teorie anti-glifosate perfino in tema di covid-19 (spesso sono anche no-vax mica per caso, repetita juvant – bis).

Gente che, gratta gratta, propugna forme di agricoltura che somigliano più agli scenari di quando eravamo cacciatori-raccoglitori e vivevamo dei pochi frutti che la Natura ci metteva a disposizione. Nel senso che mica ce li regalava magnanimamente: dovevamo sudare e rischiare molto per strappare qualche bacca e una bistecca di mammut. E vivevamo trent’anni. Gente che quindi è pure socialmente pericolosa, poiché se giungesse al potere si avrebbero conseguenze devastanti, come accaduto per esempio in Sri-Lanka:

Agricoltura biologica, disastri annunciati e utili idioti

Purtroppo, di tali soggetti ne sono già arrivati perfino in Parlamento, il più delle volte grazie all’idiozia dell’uno che varrebbe uno. Folle approccio demagogico che ha permesso di approdare a Camera e Senato a decine di bifolchi sfaccendati e di mezzi matti che non sanno fare una “O” col bicchiere, ma che hanno il potere di promuovere ogni idiozia giunga loro sulla scrivania, o di bocciare qualunque proposta razionale per raddrizzare questo sciagurato Paese.

Ergo non vi resta che scegliere: o stare con chi la scienza la padroneggia e lavora per il bene comune, o per l’esercito di zombie pseudo-ecologisti che per mestiere o per hobby sbadilano quintali di merda nel ventilatore. Sotto, un ultimo link: a un articolo che contiene molteplici informazioni sull’erbicida. Capisco che studiare sia difficile, ma per lo meno evita di continuare a dire idiozie tipo “E allora beviteloooo!1!1!1!!

Glifosate: quel che dovreste sapere, ma che i media omettono (o distorcono)

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Glifosate nelle urine: i furbetti del pannolino

Numeri stratosferici, grancassa mediatica, ma dietro c’è il nulla cosmico

Da alcuni anni si sono moltiplicati i gruppi di attivisti, giornalisti e di sedicenti ricercatori scatenati nell’analisi di glifosate nelle urine delle persone. Risultati ovviamente “eclatanti” sparsi poi a mezzo stampa. Gli Anglosassoni per certa stampa e certe ricerche usano il termine “junk science”, ovvero scienza spazzatura. Vediamo perché

Ve la ricordate la “famosa” ricerca in cui il 99,8% dei Francesi avrebbe avuto le urine contaminate da glifosate? Ecco, per passare da famosa a famigerata basta la lettura di qualche articolo scritto da persone esperte, anziché da giornalisti ideologicamente schierati contro cose di cui dimostrano spesso (quasi sempre) di capire dal poco al nulla. Felice quindi che uno scienziato come Geoffrey Kabat sia giunto alle mie stesse conclusioni, scendendo ulteriormente in alcuni risvolti da me non approfonditi.

Leggi l’articolo sul caso “glifosate nelle urine dei Francesi” (in Italiano):

Glifosate nelle urine: l’ennesimo studio

Leggi l’articolo di Geoffrey Kabat su Genetic Literacy Project (in inglese):

Dangerous levels of glyphosate in urine? Junk science paper based upon a large-scale anti-GMO testing campaign

Di fatto, tali ricerche dimostrano il contrario di ciò che si prefiggono, cioè spaventare la popolazione. A conferma, da spaventarsi non v’è proprio nulla, dato che i livelli riscontrati nelle urine, anche dandoli per buoni, lasciano stimare dosi assunte col cibo che stallano dalle migliaia ai milioni di volte al di sotto di quelle che la tossicologia ritiene sicure per la salute umana. Quindi di rischi non ce n’è. Urine o non urine, glifosate o non glifosate.

Però, dei lettori digiuni di tale materia si spaventano lo stesso e quando interrogati sul destino della molecola v’è da pensare si esprimeranno in modo contrario, inducendo la politica a prendere decisioni tanto opportunistiche quanto irrazionali. La paura è infatti tutta pancia, mentre le spiegazioni scientifiche sono tutte testa. Ecco perché spesso i ciarlatani vincono. Il caso Covid-Vaccini insegna. Però, dall’articolo scritto da Geoffrey Kabat si possono evincere anche alcuni dettagli che poco c’entrano con la tossicologia e molto con l’onestà e la deontologia di chi tali paure diffonda, talvolta lucrandoci pure.

A parte i conflitti di interessi non dichiarati da parte di alcuni degli autori dello studio, ci sono altri punti interessanti che fanno comprendere come l’attacco a glifosate sia basato su vere e proprie azioni di guerriglia pianificate a tavolino da attivisti che poi si camuffano da scienziati.

Partiamo da chi ha raccolto i campioni di urine (traduzione dal testo originale):

Chi è questo gruppo? Sono famigerati attivisti anti-biotecnologie. Sono stati accusati di ‘distruzione di gruppo di proprietà’ dopo aver invaso tre garden center nel settembre 2016 e nel marzo 2017, dipingendo dozzine di lattine di glifosate per renderle inadatte alla vendita. Uno degli scopi della campagna [francese, nda] dei test delle urine era quello di esercitare pressioni sulla Corte che segue il loro caso, con una mossa simile alle campagne mediatiche organizzate a sostegno delle class action in California contro glifosate e Monsanto“.

Paladini della salute pubblica? Parliamone: quanto ci hanno guadagnato spillando quattrini ai volontari per l’analisi?

I campioni di urina raccolti sono stati sottoposti a un test ELISA (Enzyme-Linked Immuno Assay), addebitato ai volontari a un prezzo piuttosto elevato (85 euro ed eventualmente un supplemento di 50 euro per la denuncia).”

Moltiplicando 85 € per 6.848 individui, si ottiene una cifra superiore ai 580mila euro. Un business niente male per cercare il nulla.

E il laboratorio che ha svolto le analisi (che peraltro ha preso buona parte dei quattrini)?

Innanzitutto va chiarito che il laboratorio di analisi, BioCheck, non è un laboratorio di scienze mediche umane; piuttosto è un laboratorio veterinario con sede a Lipsia, ovviamente non accreditato dal Comitato di accreditamento francese (COFRAC per eseguire analisi mediche), non è accreditato per eseguire test ELISA per glifosate“.

Peraltro, i risultati che sfiorano il 100% di positività pare vengano fuori solo a loro:

In ‘BioCheck, un laboratoire aux curieuses analyses’ (Trad: BioCheck, un laboratorio con analisi curiose), ha scritto Gil Rivière-Wekstein nel febbraio 2019, un mese dopo un indicibile servizio speciale dedicato a glifosate, mandato in onda dall’emittente televisiva pubblica France 2, con una piccola tabella a corredo: il dato del 100% [100% delle persone risultate positive] sembra essere una costante infallibile in queste analisi, almeno quando i campioni vengono analizzati dal laboratorio BioCheck, che è sistematicamente responsabile di tutti questi risultati spettacolari“.

In effetti, altre analisi similari danno percentuali di positività molto inferiori, aprendo la strada a molteplici sospetti circa gli esiti “choc” di tali ricerche di parte.

Sotto, la tabella tratta dall’articolo su GLP. Che si consumi Bio o meno, le concentrazioni urinarie sono pressoché identiche. Anzi, parrebbe quasi che i consumatori abituali di cibi bio abbiano un filo più glifosate nelle urine dei non-consumatori bio. I casi sono quindi due: o consumare bio serve a niente, per lo meno sull’assunzione di glifosate con la dieta, oppure le analisi vanno prese con le pinze a causa della possibilità che i test Elisa diano falsi positivi, soprattutto quando applicati da centri non autorizzati per tali analisi.

Sopra: concentrazioni di glifosate nelle urine espresse come nanogrammi per millilitro, cioè microgrammi per litro. Da tali valori, assumendoli validi, si evince un’assunzione media di 2,6 milligrammi annui di glifosate. La soglia ritenuta sicura per la salute umana è di 0,5 milligrammi al giorno per chilo di peso. Una persona di 60 chilogrammi può cioè assumere in totale sicurezza fino a 30 milligrammi al giorno, cioè quasi 11mila milligrammi l’anno. Ergo, l’esposizione media annua, calcolabile dalle concentrazioni rilevate, sarebbe circa 4.200 volte inferiore alla dose che la tossicologia ci dice essere ininfluente sulla salute umana. Tradotto: il nulla.

Conclusioni

Da tempo si sa che con l’allarmismo i ciarlatani ci guadagnano sempre. Bene quindi diffidare dagli articoli “choc” sui media generalisti che rilanciano ricerche “choc” fatte contro pesticidi oggi, ogm domani e chissà cos’altro dopodomani.

Purtroppo, c’è perfino chi, fra agronomi e agrotecnici, si beve queste panzane in quanto funzionali al proprio profilo ideologico, oppure perché funzionali al loro interesse specifico, tipo fare assistenza ad aziende Bio. Quindi inzuppano volentieri il biscotto in tali ricerche e articoli del menga, a tutto svantaggio dell’agricoltura nel suo insieme, contribuendo a spargerne un’immagine fuorviante e dannosa.

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Vigneti, pesticidi e cancri? Ma anche no…

Dati ufficiali, regionali e provinciali, contro illazioni da ciarlatani. Chi vincerà?

Analizzando i dati oncologici del Veneto, prima Regione italiana per impiego di prodotti fitosanitari, appare netto lo scollamento fra tumori e chimica agraria, come pure fra cancro e viticoltura

Capillari nel territorio veneto, soprattutto trevigiano, e insistenti nei modi, molteplici ciarlatani terrorizzano da anni le popolazioni locali tramite specifiche serate a tema, quelle in cui alla fine sembra che vigneti e pesticidi siano mostri a sette teste responsabili d’ogni maleficio. Ovviamente, essendo ciarlatani, se ne guardano bene dal mostrare dati ufficiali relativi alle tre variabili correlate: vigneti, pesticidi e cancri. Dati che invece sono stati raccolti nei paragrafi che seguono.

Ben si comprende, però, come ai suddetti ciarlatani basti citare la morte per tumore dello zio Peppino Laqualunque (“Ma sì, il marito della Siòra Clotilde de Trebaseleghe! Quello che viveva vicino a un vigneto!”), per aizzarmi contro i vari comitati no-pesticidi. Ma pazienza. Il Covid-19 ha purtroppo dimostrato come l’aneddotica personale possa travalicare ogni statistica ufficiale, anche la più solida. Quindi, non mi resta che accettare che tale deriva (in)culturale si palesi anche parlando dei rapporti agricoltura-salute. Per lo meno, avrò creato un contenuto utile a chi lo saprà usare al meglio.

I morti per tumore in Veneto

Iniziamo con l’analizzare gli andamenti dei morti per tumore in Veneto. I dati sono tratti da Health for All di Istat, sistema informativo territoriale su sanità e salute. Uno strumento di sicuro interesse per chiunque voglia contare su una fonte affidabile e ben organizzata di dati.

Nel grafico sotto riportato sono espressi gli andamenti delle medie triennali di morti per tumore (tasso cumulato maschi+femmine) ripartite per provincia. Come si vede, le sette province venete sono chiaramente suddivise in due raggruppamenti ben separati fra loro: sopra si posiziona un terzetto composto da Belluno, per sua sfortuna prima in classifica, seguita dappresso da Rovigo e, poco sotto, Venezia. Queste prime tre province staccano nettamente un quartetto che parte da Padova, scendendo poi a Verona, Treviso e, ultima per sua fortuna, Vicenza.

La domanda quindi è: tali differenze sono forse dovute ai vigneti, all’agricoltura in genere, ai pesticidi?

I vigneti in Veneto

Le superfici vitate nelle diverse province venete sono alquanto diverse, concentrandosi soprattutto in due di esse: Treviso e Verona. Stando ai dati Avepa (Agenzia veneta per i pagamenti) per l’anno 2016, gli ettari a vigneto sarebbero stati pari a 32.065 per la provincia di Treviso e 27.630 per Verona. Molto più staccate Vicenza, Venezia e Padova con, rispettivamente, 7.233, 6.866 e 5.874 ettari. Quasi inesistenti Belluno e Rovigo.

In sostanza, appare una correlazione inversa tra superfici vitate e mortalità per tumore: le province a maggior tasso di mortalità tumorale, Belluno e Rovigo, sono anche le più scarse quanto a vigneti. Al contrario, le tre province con la maggior viticoltura, Treviso, Verona e Vicenza, sono al capo opposto del grafico, mostrando le mortalità oncologiche più basse. La viticoltura veneta, peraltro, è diminuita molto a partire dagli Anni 70, quando era sopra ai 100mila ettari complessivi. Quindi si sta parlando di un’attività particolarmente radicata nel territorio veneto. Nonostante ciò, la storia pluriennale presa in considerazione conferma che su scala provinciale tra vigneti e cancri non esiste alcun legame identificabile.

I “pesticidi” in Veneto

Ma di non solo vigneto vive l’agricoltura veneta. Quindi è bene andare anche a valutare l’uso di agrofarmaci in generale, sempre provincia per provincia. Secondo i dati di Arpav 2008-2016, riportati nel grafico sottostante, Verona impiega mediamente il 46-47% dei fitosanitari applicati in Veneto, a sua volta, come detto, prima regione in Italia per impieghi di “pesticidi”. A Verona segue Treviso, con il 23-24% circa. Poi Venezia, Rovigo e Padova si posizionano sul 6-7%, mentre Vicenza chiude la classifica con poco più del 5%. Praticamente non classificabile Belluno: rasoterra.

Analogamente a quanto visto per le superfici vitate, anche per gli agrofarmaci non appare alcuna correlazione fra mortalità per tumore su scala provinciale e uso di “pesticidi”. Basti pensare che la prima provincia per tumori, Belluno, si conferma ultima non solo per la viticoltura bensì anche per gli agrofarmaci in generale. A conferma, Verona e Treviso sono sì le prime due province per impiego di agrofarmaci, ma anche fra le ultime per tasso di mortalità oncologica.

Forse, invece di sgonnellare fra mille riunioni serali coi cittadini, spaventandoli a morte contro i “pesticidi”, meglio sarebbe consigliarli sugli stili di vita più adeguati da adottare. I Bellunesi, per esempio, come sono messi a fumo e alcol, visto che sono i due primi fattori di rischio quanto a tumori?

Grave appare quindi la stortura comportamentale degli attivisti pro-allarmismo, soprattutto pensando che a battere compulsivamente quei territori sono proprio dei medici. Cioè persone che tali tendenze statistiche dovrebbero insegnarle loro a me. Ben lungi da ciò, essi preferiscono sobillare la popolazione cavalcando casi singoli, come appunto quello dello zio Peppino Laqualunque. Ovvero il contrario del metodo scientifico. Più dell’ignoranza, si teme, poté la disonestà.

Concludendo…

Dall’analisi dei trend statistici veneti per tassi di morti oncologiche, ettari di vigneto e utilizzo di “pesticidi”, sembrerebbe quasi che alla salute faccia bene vivere nelle province a maggior intensità viticola e agrochimica.

Ovviamente, queste correlazioni inverse non possono far concludere che vigne e “pesticidi” siano elisir di lunga vita. Però, questo sì appare chiaro, non possono nemmeno essere accusati, loro, degli inesistenti Armageddon sanitari che i summenzionati ciarlatani continuano a millantare in ogni paesino in cui poggino la propria funerea ala. Che i vari comitati del No-Tutto se ne facciano una ragione.

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Covid-19: che ognuno segua il proprio destino

Personale sanitario ai tempi della Spagnola: è venuto il momento di preservare medici, infermieri e popolazione razionale in genere, anziché rincorrere i negazionisti

Dopo un anno e mezzo di pandemia, con due ondate e mezza già sperimentate, è venuto il momento di tirare le somme e di prendere decisioni importanti contro le derive pseudo-scientifiche alla base dell’anti-vaccinismo

Alla prima ondata, in effetti, non è che potessimo fare molto di più di quanto fatto. Il virus ci aveva preso completamente impreparati e sguarniti, obbligando tutti a rincorrere l’epidemia come meglio si poteva. I sanitari non sapevano da che parte raccapezzarsi e nessuno comprendeva ancora appieno cosa diavolo fosse l’agente che ci stava massacrando, né come curarlo. Unico modo per arginarlo, minimizzare i contatti fra la gente, visto che il Covid-19 cammina con le nostre gambe e infetta col nostro fiato. Ma mica tutti lo capirono, sebbene concetto elementare valido dai tempi della peste.

Non a caso, i morti s’impennarono e solo l’arrivo della primavera, aiutata da un duro lockdown, riuscì a rimettergli la museruola. Per lo meno, provvisoriamente. Purtroppo, nulla si fece di razionale in quei mesi di stasi, nonostante si potesse facilmente prevedere un suo ritorno in autunno, cosa per la quale si era scritto in aprile (leggi l’approfondimento), seguito da un altro articolo di novembre, in cui si doveva amaramente constatare come quanto scritto al giro precedente fosse stato ampiamente disatteso.

Pure ci si era espressi in tema di obblighi vaccinali, reputandoli inapplicabili e tutto sommato contrari al giusto approccio di selezione naturale che il virus stesso ci dava occasione di adottare.

Oggi la situazione è cambiata, ma in peggio. Sebbene oltre la metà della popolazione italiana sia già stata vaccinata con doppia dose, mancano all’appello diversi milioni di cittadini over 40 anni che a vaccinarsi proprio non ci pensano. L’idea del Green Pass, lanciata per incentivare le vaccinazioni ha poi avuto un duplice effetto: il primo di portare ai centri vaccinali per lo meno i pigri, allettati dall’opportunità di andarsi a mangiare liberamente una pizza. Dall’altro ha però acuito le rivolte nei no-mask e no-vax che dir si voglia.

Recentemente si è anche assistito a vere e proprie manifestazioni aggressive, come l’occupazione della mensa aziendale della Electrolux da parte di alcune decine di no-Green Pass, impendendone l’accesso a 700 colleghi. Oppure il piano per sabotare le partenze dei treni in una decina di stazioni importanti del territorio italiano. Non sono mancate nemmeno le manifestazioni, come quella in cui è stato letteralmente ribaltato un gazebo del M5S, visti ormai come traditori.

Ovviamente, se per anni soffi sull’anti-scienza, sul complottismo, buttando merda col badile nel ventilatore, non è che poi quando hai responsabilità di Governo i tuoi seguaci più esaltati te la lascino passare liscia. Questa è gente che si indentifica con personaggi come la Cunial, ovvio che adesso si sia adirata dopo la sua defenestrazione dal movimento.

Ma al di là di contabilizzare i fatti recenti, sarebbe venuto ormai il momento di valutare quali mosse dovrebbe fare il Governo nei prossimi mesi. Perché qui tra rivolte e riottosità vaccinale pare che la politica non sappia proprio come raccapezzarsi. Impossibile infatti imporre la vaccinazione obbligatoria a meno di prevedere sanzioni severe in caso di rifiuto. Cosa di cui difficilmente il Governo intenderà assumersi la responsabilità. Immaginate infatti le cause, per lo più strumentali e immaginarie, di tutti i no-vax che dopo la vaccinazione millanterebbero effetti collaterali gravissimi, con richieste di indennizzi milionari. Una strage…

Considerando il clima già oggi acceso dal Green Pass (che io ovviamente possiedo, essendo doppio vaccinato da mesi), è facile intuire che si scatenerebbe una mezza guerra civile. E in un Paese che non sa tenere a bada qualche migliaio di stonati di droga in un Rave, si dubita si possa avere il polso di agire con militare risolutezza contro i molti rivoltosi no-vax. Quindi meglio rinunciarci a prescindere.

Ergo, è forse venuto il momento di cercare strade alternative alla coercizione, seguendo magari gli insegnamenti di un amico pompiere, responsabile della sicurezza all’interno di alcuni magazzini di grandi dimensioni, quelli pieni di scatoloni fino al soffitto per un valore di milioni di euro.

In caso di incendio, mi disse, non si deve fare ciò che suggerirebbe l’istinto, ovvero direzionare i getti d’acqua nel centro delle fiamme. Sarebbe inutile: il fuoco continuerebbe ad ampliare l’area interessata fino a rendere impossibile ogni tipo di intervento. In pratica, si condannerebbe al rogo l’intero magazzino.

Unica cosa da fare, abbandonare alle fiamme la porzione di scatole in cui si è sviluppato l’incendio, concentrandosi su quelle circostanti. Bagnando queste, ovviamente le si danneggia al pari del fuoco, ma si crea una barriera inattaccabile dalle fiamme stesse. Quindi, sebbene possa apparire irrazionale, la cosa migliore da fare è abbandonare ciò che ormai è destinato a bruciare e accettare pure di danneggiare intenzionalmente un’altra quota di merce. Però in tal modo si salva l’intero magazzino con la maggior parte dei beni in esso contenuti.

Ora, sostituite il fuoco con il Covid-19, il magazzino con l’Italia, tutta la merce nel suo insieme con il popolo italiano e le scatole con i singoli cittadini. Ve ne sono alcuni, fra questi, che stanno già bruciando o che presto bruceranno perché non vaccinati, come pure a causa dei loro comportamenti scellerati, tipo non mettere le mascherine, atteggiandosi per tale ragione a rivoluzionari quando sono solo degli sciocchi incoscienti di cui ogni tanto le cronache ci testimoniano il decesso.

Non dobbiamo più insistere nel cercare di convincerli. Né tanto meno meritano un particolare impegno nel tentativo di salvarli. Non è più eticamente ammissibile che la maggioranza della popolazione italiana patisca dell’attuale condizione, con restrizioni e pericoli tuttora latenti, causa una minoranza di integralisti no-vax.

Ormai, le statistiche sanitarie confermano che i vaccini funzionano per come si sapeva dall’inizio: eccellente protezione anche se non totale. In ospedale la maggioranza dei malati è infatti non vaccinata, con la percentuale che sale poi nelle terapie intensive e con la quasi totalità dei morti che è non vaccinata. Tra i decessi dei vaccinati si contabilizzano quasi esclusivamente over 80 con profili sanitari gravemente segnati. Quelli, per dire, che i no-vax sostengono da sempre che muoiono con il Covid e non per il Covid, ma che improvvisamente divengono prova manifesta che il vaccino non funziona e che il Covid uccide (ma va?).

Ora, considerando che la Sanità italiana ante-Covid era comunque già messa in modo non straordinario, con visite specialistiche o Tac prenotabili a mesi, oppure con gente che moriva dopo tre viaggi in pronto soccorso senza che alcuno capisse cos’aveva, forse sarebbe bene tornare a queste origini e farcele bastare. Per dire, a mio suocero ottuagenario, caduto per terra a fine agosto e che ora sente dolori a una spalla, hanno dato appuntamento il 23 dicembre per dei banalissimi raggi.

Peggio se si pensa che in un anno e mezzo di emergenza Covid sono stati infatti trascurati pesantemente i malati di altre patologie, come pure sono diminuite pericolosamente le diagnosi precoci di malattie mortali, come quelle tumorali per esempio. Ergo, quanta gente è morta e morirà a causa dell’impegno quasi monocorde della Sanità contro il Covid? E non è che un morto per tumore trascurato valga meno di un morto per Covid. Anzi.

Non è giusto. Non è etico. La Sanità deve quindi tornare alla sua missione primigenia e dedicarsi a tutti, non solo a qualcuno. Ergo, sarebbe giunta l’ora di fissare tetti massimi di posti letto e di personale adibito al Covid, realizzando liste di priorità di cura in funzione di alcuni ben precisi parametri. Corsia preferenziale per il vecchietto vaccinato, ma che per la sua condizione ha risposto comunque poco al vaccino. Non è cioè colpa sua se sta male. Corsia preferenziale anche per tutti coloro che il vaccino non lo hanno potuto fare, magari perché appartenenti a fasce di età lasciate volutamente indietro dal Governo stesso. Oppure chi, per motivi fra i più disparati, il vaccino proprio non è riuscito a farlo o non ha proprio potuto. Tutti gli altri, in lista di attesa, così come si fa oggi al pronto soccorso con i diversi colori. Se ti sei rifiutato di vaccinarti, non è però che non ti curo eh? Ci mancherebbe. Solo che magari sei il 78esimo e io posti letti ne ho solo trenta, di cui dieci di terapia intensiva, già pieni. Spiaze.

Ovvio però che se proprio stai malissimo, mica ti mando a morire a casa, magari ammazzato da qualche “cura miracolosa” tipo quella dell’ivermectina o curandoti con qualche vitamina che funziona “ma non cielo dikono”. No, no: così come ti propongo da anni una scelta per una banale Tac, te la ripropongo anche per le cure anti-Covid: “Guardi, il posto c’è fra un mese e mezzo, però a pagamento anche oggi stesso“. Se non turba alcuno che tale opzione collida da sempre con gli articoli della Costituzione in materia di diagnostica, non si vede perché tale approccio non possa essere applicato anche al Covid. Specialmente pensando che non ha alcuna colpa il poveraccio cui spillano quattrini per fare una Tac che potrebbe salvargli la vita e quindi ne ha un’urgenza spasmodica. Il no-vax, invece, la possibilità di star fuori dall’ospedale l’ha avuta e l’ha rifiutata con sdegno. Anzi, si è messo a sfottere e a ostacolare pure chi il vaccino lo voleva. “Covidioti!“, “Pecorelle!“, “Beeee…. beeee…. beeeee!“.

E come Stato dovremmo preoccuparci del destino di gente così? Ma no, non è proprio il caso. La miglior cosa è dare loro ragione: è vero, guarda, il Covid in fondo è solo una brutta influenza che ammazza solo chi ha patologie gravi. Non si muore per il Covid, ma con il Covid. I vaccini? Macché, non crederete mica alle balle che i poteri forti ci hanno propinato sulla loro sicurezza ed efficacia, vero? In realtà proteggono in modo insufficiente, anzi, trasformano i vaccinati in untori che contagiano i poveri non vaccinati. Per lo meno, i vaccinati che ovviamente sopravvivono ai gravissimi effetti collaterali che il Sistema insabbia per tutelare i profitti delle multinazionali.

Davvero eh? Avete ragione voi. In pieno. E poi chissà cosa ci mettono dentro ai vaccini e voi non volete, giustamente, fare arricchire BigPharma con questi cazzo di sieri sperimentali.

Come fare a darvi torto? Giunta è l’ora di ribellarsi a tale dittatura sanitaria, dimostrando con coraggio la solidità delle vostre affermazioni e posizioni. Quindi, accettate la sfida, cari no-vax. Se avete ragione voi – e sono certo che è così – possiamo riaprire benissimo tutto senza troppe paturnie tipo Green Pass, paragonabile in tutto e per tutto alle deportazioni di ebrei nei lager nazisti.

Liberi tutti, quindi, lasciando le misure anti-Covid alla stregua di mere raccomandazioni per i covidioti che abbiano voglia di seguirle, ovviamente. Tipo usare le mascherine, respirando tutta quell’anidride carbonica che gli fotte il cervello, oppure disinfettarsi, o ancora minimizzare le occasioni di affollamento, tipo il compleanno dello zio Peppino con 40 gioiosi parenti tutti insieme in un monolocale. Chi segue tali indicazioni, bene, chi le ritiene delle mere stupidaggini, libero di fare altrimenti.

Però, quando poi lo zio Peppino sta schiattando di Covid e una mezza dozzina di parenti sono positivi o malati, mica penserete di avere il diritto di accampare pretese, vero? Quindi, andate pure avanti nel dare prova di sprezzo del pericolo, dimostratevi coerenti con le vostre stesse posizioni. Restate allineati con quello che dicono Luc Montagnier, Enrico Montesano o Eather Parisi. Ve lo ripeto: avete ragione voi e noi siamo una massa di coglioni. I-ne-qui-vo-ca-bil-men-te!

Il pop corn lo offro io.

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Non esistono bugie a fin di bene

Chiarezza senza fittizi allarmismi: unica via per spiegarsi correttamente

Sul riscaldamento globale vi sono diverse certezze: la prima è che esiste, la seconda è che l’uomo ne è responsabile per la gran parte, la terza è che la comunicazione mediatica e politica è stata disastrosa

Che l’anidride carbonica sia una forzante climatica lo si sa da oltre un secolo, ovvero dai tempi di Arrhenius. Che il picco attuale superiore alle 400 ppm (parti per milione) sia il più alto dell’ultimo milione di anni è pure questo un fatto: senza alcuna perturbazione aggiuntiva, nell’attuale fase interglaciale dovremmo stare al massimo intorno alle 300 ppm, fossimo in linea con i precedenti picchi che si sono susseguiti con cadenza di 80-90mila anni. Ergo, quelle 100 e passa parti per milione in più ce le abbiamo messe noi, molte delle quali nel volgere di pochi decenni per giunta. Del resto, se carbone, gas e petrolio ci hanno messo milioni di anni per formarsi nel sottosuolo e noi li estraiamo e li bruciamo a rotta di collo per un paio di secoli, il pulse di CO2 in atmosfera non poteva certo essere diverso da quello osservato.

La persistenza pluridecennale dell’anidride carbonica in atmosfera fa poi sì che sulle nostre teste ci sia ancora della CO2 emessa dai nostri nonni e bisnonni quando ancora di Global Warming non se ne parlava affatto. Il problema è che quella che emettiamo noi resterà altrettanto sulle teste dei nostri nipoti e bisnipoti, con l’aggravante che ne abbiamo prodotta molta ma molta di più.

Chiarito quindi che questo post non intende discutere dei cambiamenti climatici, innegabili, e delle sue origini prettamente antropiche, altrettanto innegabili, vediamo cosa non ha funzionato nella comunicazione del problema, come pure negli orientamenti da seguire per trovare soluzioni anziché spingere solo inconcludenti piagnistei pseudo-ecologisti.

Per esempio, nei propri report periodici l’Ipcc (intergovernamental panel for climate changes) indica sì le cause e le entità delle emissioni, ma parimenti ricorda come il nucleare sia un rimedio di altissima importanza per mitigare il fenomeno. Peccato gli ambientalisti puntino sempre e solo il dito sui problemi elencati, spesso deformandone persino l’entità, salvo poi sostenere che l’Ipcc vada preso con le pinze quando si parli di centrali atomiche. Il trionfo del cherry picking.

Ma veniamo appunto alla comunicazione, a partire dall’ormai frusto tormentone che alla Terra mancherebbero solo dieci anni prima della catastrofe climatica irreversibile. Classico caso di come urlando “Al lupo! al lupo!” alla fine la gente non ci crede più e magari non vede più il lupo quando arriva davvero. Per esempio, risale al 1989 il primo articolo di cui sono venuto a conoscenza che stabiliva in dieci anni la scadenza per la salvezza. Era un pezzo comparso l’11 febbraio 1989 su La Repubblica dal titolo “Dieci anni per salvare la Terra”, a firma Arnaldo D’Amico. In quel frangente era il World Watch Institute a lanciare l’allarme, definito all’epoca “senza dubbio il più drammatico” dei sei pubblicati fino a quel momento. Contrariamente a quanto ormai accertato oggi, si affermava anche che l’energia nucleare non fosse una valida alternativa poiché troppo costosa (Cvd).

Sempre su La Repubblica, nel settembre 2013, quindi quasi 25 anni dopo, altro articolo pressoché fotocopia dal titolo “Dieci anni per salvare il Pianeta”, a firma Antonio Cianciullo. Cambiava in tal caso l’istituto di riferimento: al rapporto del World Watch Institute si era infatti sostituito quello del citato Ipcc.

Si spera quindi che altri redattori di La Repubblica non titolino “Dieci anni per salvare il Mondo” nel 2038 e “Dieci anni per salvare il Globo” nel 2063. (Prego i lettori di incaricare i propri figli e nipoti di verificare, perché io per l’epoca non ci sarò di certo più). Perfino i film di fantascienza hanno spostato la collocazione temporale delle loro trame molti secoli in là nel futuro, poiché hanno capito che pochi decenni servivano solo a farsi prendere in giro quando fosse divenuto possibile verificare l’inesistenza dei fatti ipotizzati. Esempio classico “1999 Odissea nello spazio”. Meglio sarebbe stato collocare la serie tv nel 2999, a scanso di equivoci.

Proseguendo sul tema “decennio e poi Armageddon”, nel 2019 Greta Thumberg citava le posizioni di alcuni climatologi, suoi rifermenti scientifici, secondo i quali si doveva invertire la tendenza entro il 2030 o i cambiamenti climatici sarebbero stati drammatici e irreversibili. Altri dieci anni, quindi.

Nel 2021 è stato poi il turno di Luca Mercalli, il noto climatologo in farfallino spesso presente in televisione e sui media in genere. Secondo Mercalli al Pianeta mancherebbero solo, indovinate, dieci anni per salvarsi.

Insomma, è per lo meno da 32 anni (probabilmente di più, ma non ne ho memoria) che si afferma che alla Terra ne restino solo dieci. E i negazionisti dei cambiamenti climatici ringraziano, trovando ogni volta un rafforzamento in più delle proprie tesi. Del resto, i profeti di sventura hanno da sempre terrorizzato la popolazione con Armageddon che mai sono arrivati. Quindi, perché mai dare credito a quelli di oggi? Del resto, sono rappresentanti dei medesimi orientamenti ideologici che vaticinavano l’imminente fine del petrolio già nei lontani anni ’60. E lo scetticismo ingrassa.

Che credito dare poi ad Al Gore, ex vicepresidente americano, quando sostenne nel 2007 che le calotte polari si sarebbero sciolte entro il 2013? Un’affermazione tratta, secondo i media, dagli scienziati. Sì, ma ni. Lo scenario di Gore per il 2013 era solo uno dei tanti fra quelli tratteggiati da un gruppo di ricercatori che avevano sviluppato diverse simulazioni giocando con molteplici variabili che potevano influire sul clima. Quella presa da Al Gore era il worst case, il caso peggiore, con un incremento di 4°C della temperatura media globale in soli sei anni.

Un’eventualità che non era di per sé impossibile, ma che aveva una probabilità di verificarsi ampiamente sotto lo zero virgola per mille. Infatti non si è verificata. A nulla valsero le puntualizzazioni di uno degli scienziati chiamati in causa, un climatologo dal cognome polacco immemorizzabile (infatti me lo sono scordato). E così, mentre la voce della scienza venne fatta passare in secondo piano, prendendone solo la parte che più interessava, la profezia di Al Gore andò ad aggiungersi alle molte altre svanite nel nulla negli anni precedenti. E vai col negazionismo a tutta birra, sempre più ricco di argomenti in tasca.

Non possono nemmeno mancare critiche circa i testimonial scelti per la campagna di sensibilizzazione sul tema, come per esempio Leonardo di Caprio. La star americana intervenne alle Nazioni Unite con un discorso toccante, pieno di espressioni facciali e mimica coerenti con le parole (è un attore, del resto), sollecitando un profondo cambiamento negli stili di vita delle persone o per il Pianeta sarebbero stati disastri tanto gravi quanto imminenti. Peccato Di Caprio ami passare le proprie vacanze su yatch giganteschi che in un solo giorno di navigazione brucino tanto combustibile quanto io ne potrò consumare in tutta la vita con la mia utilitaria 1.6 diesel Euro 6. Far quindi sentire la gente comune presa per i fondelli da ricchi e viziati testimonial non è che sia il viatico migliore per trasferire il messaggio desiderato. Anzi, la reazione rischia di essere quella opposta per pura ribellione da classe sociale.

Non parliamo poi della traversata atlantica fatta da Greta Thunberg quando doveva andare a New York per parlare anch’ella alle Nazioni Unite. Non volendo usare l’aereo, perché inquina, e non trovando sufficiente un collegamento via Zoom o Skype, ci andò con un’imbarcazione milionaria messa a disposizione e gestita da Pierre Casiraghi, figlio di Stefano Casiraghi e Carolina di Monaco. Ovvero il rampollo di una delle famiglie regnanti europee, quella di Montecarlo, che è nota per lo più per il lusso, lo sfarzo e i miliardi accumulati grazie alle tasse agevolate a favore dei ricconi di mezzo mondo che abbiano spostato lì la propria residenza. In pratica, il simbolo di quel mondo capitalistico e sprecone che la giovane svedesina afferma di contrastare. Chi non ha percepito la stortura comunicativa dell’evento, sostenendo che l’importante è il messaggio (!), è quindi parte del problema, a partire da giornali e tv.

Per giorni i media si focalizzarono infatti sul vasino in cui Greta avrebbe fatto la pipì in mare, con una morbosità imbarazzante. Nessuno si premurò invece di specificare che Casiraghi sarebbe tornato indietro mica sulla barca, bensì in aereo. A recuperare l’imbarcazione e a riportarla nel Principato ci avrebbe pensato un equipaggio privato appositamente volato a New York. Più i voli aerei di chi Greta segua passo passo, essendo ormai un fenomeno mediatico che si muove con diverse persone perennemente al seguito. Ovviamente anche loro in aereo. In pratica, per non prendere l’aereo lei ha fatto volare una mezza dozzina di persone al posto suo. E questo la gente comune la fa incazzare, piantatevelo nella testa, soprattutto dopo il discorso a vene gonfie che la ragazza fece all’Onu intimando agli adulti di vergognarsi.

Certi messaggi, condivisibili per lo meno negli intenti, si avvantaggiano infatti della simpatia, della coerenza e quindi della credibilità che i testimonial sono in grado di offrire al pubblico. Ergo, non ci siamo affatto se si ottiene il risultato opposto a causa proprio della mancanza di simpatia, coerenza e credibilità.

A soffiare ulteriormente nelle vele al negazionismo climatico sono state poi altre campagne stampa abbastanza deformanti, come quelle che seguono sistematicamente ogni evento catastrofico, dall’alluvione agli incendi. Che i cambiamenti climatici abbiano un peso sui trend di questi fenomeni è palese. Magari meglio sarebbe però evitare di presentarli tutti come fatti inauditi, mai accaduti prima: tutta colpa dei cambiamenti climatici. Accadde per esempio dopo che Zermatt venne invasa da un’alluvione nel 2019. Mai accaduto prima? Mica tanto: secondo uno studio sviluppato sulla Val D’Aosta dal citato Luca Mercalli eventi similari si sarebbero abbattuti sulla valle sin dalla fine dell’ottavo secolo, cioè circa 1.200 anni fa. Più volte Aosta venne alluvionata nei secoli passati, come pure diversi eventi simili a quello di Zermatt hanno provocato morte e distruzione in epoche in cui eravamo meno di un miliardo sul Pianeta e andavamo al massimo a cavallo. Quindi anche no: serietà impone di cambiare toni e parole dando ad esse il giusto peso e significato.

Gli incendi in Canada del 2020? Mai visti prima? No: secondo il National Forest Database canadese il picco per l’area boschiva andata distrutta fu nel 1988 e il numero massimo di incendi spettò al 1989 (oggi purtroppo fuori scala temporale che attualmente parte dal 1990). Quindi il clamore mediatico improntato al “mai visto prima” si trasformò anche in quel caso in una meravigliosa leva nelle mani dei negazionisti. Su Siberia e Australia non so, non ho serie temporali a portata di mano, quindi non mi esprimo. Cosa che se i giornalisti facessero di sistema sarebbe meglio per tutti.

E poi, dai, mostrare foto di ghiacciai scattate nel 2017, comparandole con quelle dei primi anni 50’, ha senso? Sì, lì per lì, ma poi il ghiacciaio durante l’estate arretra ancora un po’ e scopre un rifugio costruito dagli Alpini nel 1917 in piena Prima Guerra mondiale. Questo perché gli ultimi anni ’40 sono stati fra i più freddi del secolo scorso, mentre quelli a cavallo del Primo Conflitto furono decisamente più temperati. Significa quindi che il cambiamento climatico non esiste? Niente affatto, ma in tal guisa può essere spacciato da chi si sia legata al dito la precedente comparazione fotografica, gongolando di gusto.

Il global warming non va infatti sostenuto o negato in base a eventi puntuali e locali, poiché l’analisi del clima va sviluppata in chiave temporale di medio e lungo periodo e, appunto, su scala globale. La nevicata a marzo sui monti abruzzesi con temperature sotto zero non può essere usata di per sé come prova che il riscaldamento globale non esiste, perché siamo in Abruzzo a marzo. Punto. Analogamente, le alluvioni in Germania dell’estate 2021 hanno numerosi precedenti nei secoli passati, debitamente documentati dai livelli idrometrici segnati sugli angoli delle case che erano già presenti per lo meno dal XVII secolo. Stupisce quindi che addirittura dei ricercatori di istituti pubblici affermino che tali fenomeni non avrebbero mai potuto verificarsi prima dell’era industriale. Ma tant’è…

Anche affermare che oggi gli eventi disastrosi siano addirittura raddoppiati è un “filino” forzata come informazione. Se si prendono infatti la popolazione e il Pil medio del ventennio 1980-1999 e li si compara con le medesime medie del ventennio 2000-2019, si evince come entrambi siano raddoppiati numericamente. Ergo, se un tornado abbattutosi nell’area “X” faceva un milione di dollari di danni e 10 morti nel 1990, non è che è raddoppiato di intensità perché nel 2010 distrugge beni per due milioni di dollari e uccide 20 persone. Perché nel frattempo in quell’area si sono moltiplicate le cose da distruggere e le persone da uccidere. Anche in questo caso il global warming non esiste? No, esiste, poiché le rilevazioni annue stanno aumentando, anche grazie all’intensificazione delle reti di rilevamento e dell’attenzione ai fenomeni. Ma parlare di raddoppio in base ai danni economici e ai morti, magari anche no: approccio interessante, ma fuorviante.

Ecco, il senso di questo approfondimento non è perciò quello di verificare o negare il global warming. Solo un cieco potrebbe negarlo. Semmai è quello di ricordare che non esistono bugie a fin di bene. La verità fattuale va trasmessa infatti così com’è, senza scandalismi giornalistici, senza cavalcate ideologiche di qualche politico o di qualche associazione in cerca di visibilità (e quattrini). Soprattutto, bisognerebbe comunicare senza fare alcunché che poi possa essere strumentalizzato dai negazionisti per portare acqua al proprio mulino. Perché in tal caso meglio sarebbe stato tacere, anziché porgere i sassi a chi vorrebbe usare la fionda.

Molto più utile sarebbe invece spiegare alla popolazione perché le risposte al problema non sono la dieta vegana, né i pannelli solari oggi adorati come divinità. Né sarà il biologico a salvare la Terra, né tantomeno l’avversione a diesel, nucleare, ogm, concimi e “pesticidi”. Le tecnologie per produrre più energia a basso impatto ci sono, basterebbe usarle invece di cavalcare e sobillare paure. Idem per le tecnologie da impiegare nei processi industriali e agricoli, atti a massimizzare le rese minimizzando le emissioni per unità di cibo prodotta.

Poi, va da sé, se ognuno sprecasse meno risorse, andrebbe meglio per tutti. Ma si teme che nessuno gradisca spegnere il riscaldamento in inverno o andare al lavoro in bicicletta in primavera, magari accontentandosi di una settimana di ferie in Romagna anziché volare per 12 ore verso paradisi tropicali lontani. Perché sempre tardi sarà quando le emissioni verranno soppesate anche in base alla loro priorità e indispensabilità, anziché solo per settore produttivo: un chilo di CO2 emesso per produrre cibo non può essere infatti equiparato a un chilo di CO2 emesso per farsi un giro domenicale al lago solo perché a casa ci si annoia, oppure per illuminare a giorno un casinò di Las Vegas consumando una quantità di energia pari a quella utilizzata da certi Paesi africani. Una maggiore equità di valutazione, questa, che servirebbe magari anche per intaccare quella rugginosità comportamentale e sociale che è forse la più subdola complice del cambiamento climatico stesso.

Perché parlare e denunciare è sempre facile, modificare le macrodinamiche globali un po’ meno. Prova ne è lo scellerato Green Deal europeo, quello che con il suo Farm2Fork aumenterà al 25% la superficie continentale a biologico (triplicandola) e si propone di convertire il 10% delle attuali superfici agricole dando loro più finalità ambientali e paesaggistiche che produttive.

Ergo, compreremo più cibo da quei Paesi che hanno emissioni più alte per unità prodotta, aggiungendo a queste anche quelle necessarie per il trasporto intercontinentale delle merci. Quando nel vostro piatto ci sarà pasta fatta con grano uzbeko anziché italiano, sappiatelo: state inquinando più di prima, non meno. Anche e soprattutto se quel grano è dato per biologico o “antico”. Se infatti devo coltivare il doppio o il triplo della terra per produrre la stessa quantità di cibo, le emissioni salgono, mica scendono. Un conto semplice e immediato che però non compare praticamente mai sui media italiani ed europei, da tempo proni ai proclami pseudo-ecologisti dell’ineffabile Ursula Von Der Leyen. Il tutto, ignorando bellamente le posizioni di scienziati ai cui occhi i nuovi orientamenti appariamo giustamente ipocriti se non addirittura folli.

Noi Europei potremo quindi vantarci col mondo di essere divenuti più Green, salvo aver causato un innalzamento globale delle emissioni solo per soddisfare quello spocchioso atteggiamento pseudo ecologista che anziché aiutare a risolvere i problemi li sta aggravando sempre più, raccontando favole, vendendo illusioni e moltiplicando bugie, supposte a fin di bene quando invece sono tutt’altro.

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Fiumi e laghi lombardi: gli inquinanti silenziosi

Molteplici gli inquinanti in fiumi e laghi lombardi, ma la stampa sa parlare solo di glifosate

Solventi, idrocarburi, ftalati, fluoruri, metalli pesanti e persino farmaci a uso umano nelle acque superficiali lombarde, ma i media generalisti sanno parlare solo di “pesticidi” e, soprattutto, dell’erbicida glifosate

Non c’è verso: escono dei dati ufficiali, prodotti da agenzie pubbliche, e la stampa generalista si scatena contro gli agrofarmaci utilizzati in agricoltura. Uno su tutti glifosate, eletto a totem maligno da abbattere in nome della salute pubblica e dell’ambiente.

A una lettura più attenta dei dati, nella fattispecie quelli di Arpa Lombardia riferiti al 2019 (un file xls di proporzioni bibliche: 305.726 righe), si apprende come gli scenari siano molti diversi da quelli narrati. Peraltro v’è una grossa differenza fra cioè che si cerca e ciò che si trova. Se alcune molecole le cercherò sempre e altre mai, non v’è da stupirsi che poi la percezione della popolazione venga polarizzata su alcune ben specifiche sostanze, ignorando l’esistenza di molte altre. Altre che, per somma ironia, sono prodotte soprattutto dalla cittadinanza stessa nelle loro case o nei luoghi dove lavorano, anziché dagli agricoltori nei propri campi.

Per esempio v’è una molecola particolarmente rinvenuta nelle acque, al pari di glifosate ma circa 20 volte più tossica dell’erbicida (Fonte: Emea), ma di cui non compare menzione sulle pagine dei giornali, troppo assorbiti dalle loro crociate anti-pesticidi. Trattasi di diclofenac, un antinfiammatorio di ampio utilizzo che nel 2019 è stato trovato in fiumi e laghi per 371 volte contro le 321 di glifosate, quindi 50 volte in più. Simili anche le concentrazioni, partendo per entrambi da un minimo di 0,03 microgrammi per litro (limite di rilevabilità analitica) fino a un massimo di 4,6 µg/L per diclofenac e 4,8 per glifosate. Simile anche la media, con circa 0,2 µg/L per l’antinfiammatorio e 0,23 per l’erbicida. Quindi un’impronta ambientale del tutto sovrapponibile, con tutto il peso degli insulti mediatici spostato però sul solo glifosate e un imbarazzante silenzio tombale sul farmaco.

C’è poi una soglia di Legge che spesso viene usata come discrimine per allarmare la popolazione e fare indignare l’opinione pubblica: lo 0,1 µg/L stabilito nel 1980 Direttiva 80/778/CEE per le acque potabili. Al di là di quanto sia fuori luogo utilizzare il limite per le potabili come riferimento per le superficiali, a meno vengano utilizzate per alimentare gli acquedotti, tale limite non ha alcun senso neppure dal punto di vista tossicologico. Per quanto possa sembrare assurdo (e lo è!) tale soglia non è frutto di alcuna valutazione scientifica, bensì è stato affibbiato agli agrofarmaci così, de botto, senza senso. Non a caso vi sono limiti molto superiori per inquinanti molto peggiori, tipo l’arsenico, con 50 µg/L (500 volte gli agrofarmaci), mentre cadmio e mercurio segnano rispettivamente 5 e 1 µg/L, cioè 50 e 10 volte tanto il limite per i cosiddetti “pesticidi”. Per gli idrocarburi il valore è pari a 10 µg/L: cento volte di più.

Oggi, per ironia della sorte, sarebbero anche disponibili nuovi indicatori per le acque potabili, individuati tramite apposite formule basate su dati tossicologici ufficiali, specifici molecola per molecola. Un approccio già utilizzato più volte dall’Oms, per esempio. Tali indicatori potrebbero benissimo essere utilizzati quali veri limiti di confidenza tossicologica, lasciando all’attuale soglia di Legge il ruolo di mero obiettivo di qualità cui tendere, anziché utilizzarlo come soglia oltre la quale si paventano danni sanitari quando così affatto non è.

Peccato si tema nessuno vorrà mai ammettere che per oltre 40 anni abbiamo penalizzato un intero comparto, quello dei prodotti per la difesa delle colture, terrorizzando per giunta la popolazione senza motivo. Quindi tali nuovi indicatori, “Risk & Science based” resteranno quasi sicuramente nel cassetto. Visto mai che qualche matto s’azzardi a utilizzarli…

Scarica il dossier sui limiti di confidenza tossicologica per gli agrofarmaci

Provate a pensare con quale faccia i normatori potrebbero infatti presentarsi oggi al pubblico e ammettere che in realtà le soglie da considerare sicure sono da centinaia a migliaia di volte quello sciagurato 0,1 µg/L assegnato a capocchia in illo tempore. Mi vedo già i titoli sui giornali: “I pesticidi resi potabili per Legge!”. I delinquenti della disinformazione, si sa, non si pongono mai confini deontologici.

Quindi dovremo ancora fare i conti con tale irrazionale valore, vedendolo utilizzare da ogni sciacallo mediatico come una scure contro l’agricoltura. Ok, va bene: allora guardiamo cos’altro supera quel limite senza che alcuno si prenda la briga di parlarne.

Acque: l’ospite che non ti aspetti

Il succitato parallelismo tra diclofenac e glifosate può toccare anche il suddetto limite, con l’antinfiammatorio che lo supera per 175 volte contro le 178 volte dell’erbicida. Ovviamente, diclofenac non è tenuto a rispettare alcun limite nelle acque. La normativa, cioè, non si preoccupa di fissare soglie specifiche per tali sostanze. Eppure, come detto, una sostanza attiva come diclofenac risulta avere una LD50 su ratto (tossicità acuta) circa 20 volte più alta di glifosate, per non parlare di altri antinfiammatori comunemente usati che mostrano anch’essi valori di alcune decine di volte più alti dell’erbicida descritto sempre come “monstre”. Ovviamente, non si potrebbe parlare di pericolo per la salute umana, visto che tali farmaci li assumiamo a dosi terapeutiche, cioè migliaia di volte più alte di quelle rinvenute nelle acque. Ma forse servirebbe inquadrarne la presenza in ottica ambientale, perché pesci, crostacei e altri organismi acquatici mica sono consumatori abituali di farmaci e sarebbe meglio restassero così.

A conferma, i farmaci umani nelle acque ci sono e spesso sono predominanti per numero e concentrazioni rispetto alla quasi totalità dei “pesticidi”. Basti pensare che in Spagna ben 43 differenti farmaci sarebbero stati rinvenuti nel fiume Ebro che scorre lungo la Catalogna(1). Sostanze giunte alle acque fluviali a seguito di escrezione fecale o urinaria da parte dei pazienti che li assumevano.

Una presenza confermata anche più di recente da alcune ricerche svoltesi in Inghilterra(2) dalle quali sarebbero emersi 56 differenti sostanze attive contenute in una specie di crostaceo d’acqua dolce, il Gammarus pulex. Al fianco delle tracce di alcune sostanze attive impiegate nella difesa delle colture, come oxamyl, propazina, acetamiprid e thiacloprid, sono state rinvenute per la quasi totalità molecole afferenti alla farmacopea umana.

Quasi il 90% delle sostanze presenti nei gamberetti erano infatti diuretici come l’idroclorotiazide, o antidepressivi come alprazolam, diazepam, citalopram, clorazepam, affiancati da un antidolorifico come il tramadol, un antistaminico come la difenidramina, o stimolanti come il 4-fluoromethcathinone e perfino la cocaina, sostanza da abuso. Non mancano molecole comunemente usate dagli asmatici come il salbutamolo, avente anche parziale effetto anabolizzante e pertanto iscritto nelle liste dell’antidoping, oppure la lidocaina e perfino la ketamina, anestetico dissociativo.

Sempre riguardo ad alcune pessime abitudine personali, come l’assunzione di sostanze stupefacenti, pure queste avrebbero ricadute sulle acque, come evidenziato dall’Istituto Mario Negri di Milano che avrebbe rinvenuto cocaina perfino nel fiume Po(3).

Ricerche come quella inglese o quella spagnola dimostrano che gli agrofarmaci sono solo una frazione minoritaria dell’ammontare complessivo delle contaminazioni delle acque. Bene sarebbe quindi realizzare specifici dossier anche per altre categoria di prodotti, in modo da informare la cittadinanza sulle conseguenze per l’ambiente delle loro cure sanitarie, per esempio. Forse in tal modo comprenderebbero che tra un antidepressivo assunto per curare se stessi e un antiperonosporico applicato per proteggere la vite, concettualmente, non v’è una grande differenza. E magari non si sentirebbe più, il cittadino, nell’arrogante posizione di pretendere il bando solo per le molecole usate dagli agricoltori, illudendosi in tal modo di salvare il Mondo. Sentirsi invece tutti sulla stessa barca, si spera, dovrebbe migliorare la percezione di sé e degli altri nei confronti dell’ecologia. Per lo meno acquatica.

Ampa: metabolita con più padroni

Glifosate è spesso attaccato anche per il fatto che produce un metabolita chiamato Ampa. Questo è stato rinvenuto nelle acque superficiali per ben 846 volte, con un picco di 40,9 µg/L e una media di 1,22. E per 700 volte Ampa è risultato superiore al fatidico 0,1 microgrammi.

Ciò dovrebbe aprire qualche perplessità circa l’origine di tale sostanza, visto che è stata rinvenuta 2,6 volte più spesso di glifosate. In sintesi, Ampa sarebbe stato rinvenuto nel 62% dei casi senza che insieme vi fosse anche glifosate. Peraltro, l’erbicida non ha mai mostrato concentrazioni comparabili a quelle di Ampa. Qualcosa non quadra quindi. E la spiegazione è semplice: Ampa deriva anche da detersivi di comune utilizzo civile e industriale, finendo nelle acque tramite gli scarichi anziché dai campi coltivati.

Peccato che tale evidenza non sia mai comunicata dai media, facendo ritenere glifosate l’unico responsabile della presenza di Ampa nelle acque. Per fare disinformazione, infatti, non basta raccontare alcuni aspetti per come ci pare, bensì serve anche omettere le informazioni che permetterebbero ai cittadini di comprendere come stiano davvero le cose.

Inquinanti: c’è di tutto un po’

Gli agrofarmaci, stando sempre alle tabelle di Arpa Lombardia per il 2019, sarebbero stati rinvenuti numerosi, vista l’estrema eterogeneità delle colture lombarde e, quindi, l’eterogeneità delle sostanze impiegate. Peccato, o per fortuna, siano stati trovati quasi tutti e quasi sempre in tracce modeste, restando per gran parte sotto il famigerato 0,1 µg/L e sforando raramente il singolo microgrammo per litro.

Al loro fianco, invece, nelle acque lombarde vi sarebbero molti altri inquinanti come per esempio solventi, ftalati, idrocarburi policiclici aromatici, bisfenolo A, fluoruri, vari metalli pesanti e arsenico, contenuti spesso a concentrazioni molto maggiori degli odiati “pesticidi”.

Nota bene: l’arsenico risulta sempre in tabella con un valore minimo di 1 µg/L. Cioè, anche il suo valore più basso riportato è 10 volte superiore al limite per gli agrofarmaci, pur essendo l’arsenico più tossico della quasi totalità dei “pesticidi”. Ma, come abbiamo visto, la Direttiva europea del 1980 lo ha graziato con un limite 500 volte più alto.

L’arsenico sarebbe stato trovato per ben 1.234 volte, toccando il picco di 54 microgrammi per una media di poco inferiore a 3. Si teme che se venisse applicato all’arsenico il medesimo limite dei “pesticidi” si perderebbe il conto degli acquedotti che andrebbero chiusi. Invece, essendo elemento naturale e ampiamente presente nelle acque, verso di esso è stato necessario adottare una politica morbida. Perché va bene la salute umana, ma senza acqua nelle case i cittadini potrebbero anche arrabbiarsi un filo. Inutilmente, peraltro, perché se hai la iella di avere in zona molto arsenico nelle acque, non te la puoi mica prendere con nessuno se non con la natura stessa, tranne particolari casi di inquinamento puntiforme.

Che i lettori di questo articolo traggano quindi le proprie conclusioni su certi titoli apparsi sui giornali, sia cartacei, sia nel web, con “pesticidi” e, soprattutto, glifosate sbattuti alla gogna basandosi sul nulla, quando va bene, e storpiando perfino i risultati di alcune ricerche scientifiche quando va male, come fatto da La Repubblica con uno studio dell’Università di Milano:

Avvelenamenti delle acque da glifosate? No: mero clickbait

Un comportamento che sempre più avvelena sì, ma solo l’opinione pubblica.

Bibliografia

1) Bianca Ferreira et Al. (2011): “Occurrence and distribution of pharmaceuticals in surface water, suspended solids and sediments of the Ebro river basin, Spain”. Chemosphere, Volume 85, Issue 8, November 2011, Pages 1331-1339; http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0045653511009040

2) T. Miller et al. (2019): “Biomonitoring of pesticides, pharmaceuticals and illicit drugs in a freshwater invertebrate to estimate toxic or effect pressure“. Environment International, Vol. 129, Aug. 2019, pag. 595-606. https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0160412019307160

3) Ettore Zuccato et Al. (2005): “Cocaine in surface waters: a new evidence-based tool to monitor community drug abuse”. Environmental Health 2005 4:14. https://ehjournal.biomedcentral.com/articles/10.1186/1476-069X-4-14

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