Zootecnia e disinformazione (Parte 1/3: l’acqua)

Davvero i bovini consumano 15mila litri di acqua per un chilo di carne? Ni. Basta leggere per comprendere il trucco

Recentemente accusata di essere concausa pure dell’epidemia di Coronavirus, la zootecnia è al centro di attacchi su molteplici fronti. Tre gli argomenti più comuni: consumo di acqua, competizione per il cibo fra uomo e animali, nonché le emissioni di gas serra. Oggi tratteremo il tema acqua. Perché i numeri vanno letti tutti, non solo quelli funzionali a ben precise ideologie

 

  • Un chilo di carne “costa” 15mila litri di acqua.
  • Gli animali da allevamento competono con l’uomo per il cibo.
  • La zootecnia produce il 10% dei gas serra mondiali.

 

Tre affermazioni che trovano ampio spazio su media e spazi web, soprattutto su quelli di chiaro orientamento eco-animalista. Siamo sicuri però che i numeri sul campo confermino tali convincimenti e descrivano i fenomeni nella loro interezza? In questa prima puntata di tre si approfondirà il tema dei consumi idrici, perché trattasi di argomento complesso agli occhi di un profano, ma elementare per chi di si occupi di zootecnia e di agricoltura. Nelle prossime puntate si analizzeranno invece gli altri due temi in questione.

Bistecche e consumi di acqua

La cifra di 15mila litri per un chilo di carne bovina lascerebbe pensare a mandrie assetate che pompano dai fiumi masse imponenti di acqua, sottraendola all’umanità e all’ambiente. Di fatto, quella proposta è una cifra omnicomprensiva derivata da studi dell’Università di Wageningem, in Olanda, e tiene conto di ogni litro che possa essere ricondotto alla fatidica bistecca. In sostanza, gli stessi ricercatori riportano come la stragrande maggioranza di quella cifra derivi dai fabbisogni idrici delle piante foraggere necessarie al mantenimento delle mandrie. Solo pochi punti percentuali di quei volumi servono quindi nelle stalle. Una puntualizzazione che però manca quasi sempre negli articoli e nei servizi sul tema. E quando un’omissione diventa sistematica, la puzza di volontarietà aumenta molto.

Se infatti è pur vero che l’efficienza del processo produttivo della carne sia molto bassa, bisogna pensare all’origine e alla disponibilità dei fattori di produzione, acqua inclusa, altrimenti si rischia di perdere la bussola. Per produrre sostanza secca, cioè quello che fornisce nutrimento a uomini e animali, già le piante di per sé consumano molti litri di acqua per ogni chilo sintetizzato. Basti pensare che la coltivazione dei noci implica un consumo di acqua di 9 mila litri per chilo di frutti prodotto(1). Quindi, stare anche nell’ordine delle migliaia di litri di acqua per chilo di cibo cominciamo a dire che non è “innaturale”, bensì è la normalità.

Ma la domanda da porsi è: tanta o poca che sia, da dove viene quell’acqua? Essenzialmente possiamo suddividere l’acqua in tre tipologie differenti: Verde, Blu e Grigia. La prima è quella piovana, la seconda è quella contenuta nei corpi idrici superficiali e sotterranei (fiumi, laghi, falde), la terza è quella che deriva dalla diluizione dell’acqua utilizzata direttamente dall’uomo per le proprie attività industriali, urbane e agricole.

Nei Paesi ad alta vocazione zootecnica, fondamentalmente nel centro-nord dell’Europa, la piovosità è molto elevata, soprattutto in primavera. Quindi la maggior parte dei fabbisogni delle colture foraggere viene soddisfatta dal cielo. Non può quindi considerarsi né “spreco” né “consumo”. È pioggia: può cadere sulle città e gonfiare i sistemi fognari, oppure cadere nei campi e sostenere il metabolismo delle piante, coltivate o meno che siano. Quindi, per esempio, se in Olanda si seguono processi di allevamento super intensivi, ciò non implica che vi sia sottrazione di risorse idriche al resto del Pianeta. L’Olanda galleggia letteralmente sull’acqua e pertanto quest’ultima non è fattore limitante, né il suo risparmio in loco avrebbe ricadute sull’emisfero australe del Mondo.

Alcune colture necessitano però di irrigazione e questa deriva invece dalle summenzionate acque Blu. Ancora, cambia molto da coltura a coltura. I cereali come frumento, avena e orzo, non vengono di norma irrigati, in quanto seminati a ottobre e raccolti a inizio estate, cioè all’inizio del periodo siccitoso. Anzi, se nella fase di maturazione del grano non piove è pure meglio, perché la coltura deve naturalmente seccarsi prima di essere raccolta come granella e come paglia. Gli insilati di orzo e triticale, invece, vengono prodotti con le piante ancora verdi, cioè nella prima metà di maggio, quando il problema è semmai falciare e imballare il fieno tra una pioggia e l’altra. Stessa cosa le foraggere dei prati, come l’erba medica o il loietto. La loro maggior produzione è infatti primaverile, in un periodo quindi dove le piogge cadono abbondanti.

Se poi pensiamo alle grandi mandrie sudamericane al pascolo, lì il 100% dell’acqua che ha dissetato l’erba e il bestiame è di origine pluviale. Ovvero 100% naturale. Un’acqua che quindi non è andata in alcun modo “persa”, né stata in alcun modo “sprecata”. È stata gentilmente offerta dalla natura e noi ne abbiamo ricavato cibo.

Discorso diverso per le colture a uso zootecnico a ciclo primaverile-estivo, come mais e soia. Queste due colture sono dei veri e propri pilastri della zootecnia, in quanto il primo fornisce grandi quantità di alimenti e di calorie, la seconda rappresenta la prima fonte di proteine, quindi alimento nobile per gli animali.

Essendo seminate a fine inverno o inizio primavera, saranno entrambe esposte alla siccità estiva. In special modo il mais che se non viene irrigato tra fine giugno e inizio luglio rischia di perdere molta della propria produttività, dato che in quella fase avviene la fioritura e quindi se la fertilità non è piena, neanche le produzioni lo saranno.

 

I danni derivanti dalla siccità possono essere gravissimi. Una forma di “spreco” che spesso non viene percepita come tale

 

Questa coltura è cioè quella che richiede grandi quantità di acqua irrigua, per lo meno in un numero di anni significativo. Ovvio che in anni come il 2014, in cui in Italia ha piovuto da marzo a ottobre quasi ininterrottamente, l’irrigazione non aveva senso. Diverso il 2013, siccitoso, con i campi di mais seccati dal Sole ad agosto per mancanza di acqua. Questo almeno nei casi in cui non era possibile irrigarlo. I campi limitrofi, irrigati, erano invece perfettamente verdi e produttivi.

Ergo, su questa coltura serve anche molta acqua Blu, utilizzata a scopi irrigui. Diversi sono i sistemi con cui distribuire l’acqua nei campi, alcuni più obsoleti, come quello a scorrimento, altri più moderni, come l’irrigazione ad ala gocciolante. Questa riduce drasticamente i volumi necessari per irrigare, concentrando l’acqua alle radici della coltura e prestandosi anche a distribuire fertilizzanti in modo mirato e razionale. Se quindi si vuole spingere verso il risparmio idrico sarebbe bene rimodulare certe forme di sussidio all’agricoltura, in modo da consentire ai produttori gli investimenti necessari per dotarsi di tali (costosi) impianti irrigui. Se la sostenibilità va incentivata, poche altre cose appaiono infatti prioritarie come l’irrigazione razionale delle colture agrarie.

 

Esempio di sistema irriguo con manichetta. Al momento quello più efficiente e che consente i maggiori risparmi di acqua

 

Logica domanda: da dove viene l’acqua Blu? Ancora una volta dalla pioggia e dalle precipitazioni invernali come quelle nevose. Ghiacciai, laghi, fiumi e falde fanno cioè da polmone acqueo e traslano nel tempo quanto caduto dal cielo mesi o anni prima. Se quindi in estate viene prelevata una quota di tali riserve non si fa altro che ricorrere ancora all’acqua piovana, solo in modo differito. A meno di entrare in competizione con altre attività umane (ma qui si chiede: perché deve rinunciare solo l’agricoltura?), le acque Blu possono benissimo essere utilizzate per irrigare i campi. Certo, se si fa come nell’ex Unione sovietica con il lago d’Aral non si è capito niente, né di gestione delle acque, né di sostenibilità. Ma quello è il tipico esempio di abuso, non certo di pratica abituale.

A patto quindi di non estinguere la loro fonte, i flussi irrigui, dopo aver sostenuto il metabolismo delle piante, altro non fanno che rientrare nel ciclo globale dell’acqua tramite i naturali processi di evaporazione dal suolo o di traspirazione dalle piante.

Una volta tornate nuvole, potranno nuovamente condensarsi e ripiovere a terra, magari da qualche altra parte. Quindi vanno considerate come un prestito, non come un furto. Un prestito che ci viene ripagato con il cibo, sia esso di origine animale o meno. E del resto, se quell’acqua non fosse stata captata dai fiumi tramite i canali d’irrigazione e poi dispensata alle colture, sarebbe andata a finire al mare. L’importante è quindi che ogni litro di quell’acqua prelevata sia andata a bersaglio, minimizzando i volumi assoluti utilizzati. Non foss’altro che per una ragione di costi finali, anche economici.

 

Molta dell’acqua utilizzata per irrigare i campi deriva da corpi idrici che l’avrebbero portata al mare inutilizzata. Averla usata per produrre cibo, invece, è una sorta di “prestito” virtuoso

 

Un terzo punto poco considerato è quello dei bilanci annuali. Pensiamo per esempio ai servizi televisivi estivi, in cui le popolazioni lacustri lamentano il calo dei livelli idrometrici dei loro amati laghi. Oppure pensiamo agli analoghi servizi agostani in cui si vedono i fiumi impoveriti di acqua fino a scoprire le basi dei pilastri dei ponti. Puntuali giungono le accuse all’agricoltura di “rubare” acqua a laghi e fiumi. Tempo un paio di mesi inizieranno però le piogge di fine estate, le quali proseguiranno fino ad autunno inoltrato. Et voilà, dimentichi di quanto detto solo qualche mese prima, i servizi cambieranno completamente tono, inquadrando laghi i cui livelli lambiscono le passeggiate turistiche e fiumi che si gonfiano ai limiti dell’esondazione. A volte oltre i limiti di esondazione, provocando danni gravi, qualche volta mortali.

 

I livelli di laghi e fiumi vanno considerati nell’intera durata dell’anno, sia quado sono in secca, sia quando rischiano di esondare

 

Ora chiedetevi cosa succederebbe a novembre a quei laghi e a quei fiumi se all’inizio della stagione piovosa fossero stati qualche metro più in alto quanto a livello idrometrico, senza poter cioè contare sui molti milioni di metri cubi liberi, occupabili dalle piene. Il tutto pensando che quell’acqua “rubata” è diventata cibo per tutti. Quindi un bene primario assolutamente irrinunciabile, anche per le popolazioni lacustri.

 

Concludendo:

L’uso dell’acqua in agricoltura è da percepire come attività indispensabile, al primo posto nella lista delle priorità. Se non ci credete, provate a mangiare dei bulloni: anche le acciaierie usano fiumi di acqua, ma rosicchiare una spranga di ferro non alza mica la sideremia…

I 15mila litri per un chilo di carne sono una storpiatura maramalda di un dato oggettivo, ma volutamente distorto per alterare in negativo la percezione popolare delle attività zootecniche. Il tutto al fine di alimentare odio verso gli allevatori, dipinti sempre come insaziabili ladri di acqua. Quando vi siano condizioni di abbondanza, come di solito accade nei Paesi a forte vocazione zootecnica, il suo uso non va affatto percepito come “furto”, bensì come “prestito” di una risorsa eternamente rinnovabile e di sicuro non limitante. Per lo meno in quelle realtà geografiche.

Quando infine la zootecnia sia allo stato brado, questa sfrutta esclusivamente acqua piovana, quindi a impatto idrico zero.

Se peraltro mangiate noci, non avete poi risparmiato molto rispetto a una bistecca e se non mangiate la vostra bistecca non avrete affatto regalato 15mila litri di acqua ad alcuno. Sarà bene farsene tutti una ragione.

Nella prossima puntata si approfondirà il tema della competizione per il cibo fra uomini e animali d’allevamento. Perché anche su questo tema la disinformazione ha fatto danni pesanti.

 

Bibliografia

1) Marta Antonelli e Francesca Greco (2013): “L’acqua che mangiamo“. Edizioni Ambiente

 

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