Gli impatti occulti del biologico

Il riso è il terzo cereale prodotto al Mondo dietro a mais e frumento. Da soli rappresentano il 90% della produzione mondiale di cereali

Lungi dall’essere la salvezza del Pianeta, l’agricoltura biologica ha degli impatti sull’ambiente globale che vengono sottaciuti per mere convenienze economiche

Fra i recenti temi caldi che occupano le pagine dei giornali vi è quello legato agli impatti prodotti dalle diverse conduzioni delle imprese agricole, ovvero convenzionale, integrata – espressa talvolta come “sostenibile”- e ovviamente biologica e/o biodinamica.

Circa queste ultime due, però, va sottolineata la profonda differenza che corre fra ostentare riduzioni della chimica di sintesi, spesso neppure veritiere, e l’analisi degli impatti reali tramite un approccio oggettivo e olistico. Il primo termine è molto caro a chi, come chi scrive, ama sezionare la realtà in base a evidenze dimostrabili e misurabili. Il secondo termine è tradizionalmente caro soprattutto a chi oggi sostenga proprio le istanze eco-bio. Quindi, un tale modo di soppesare le diverse forme di conduzione agricola dovrebbe piacere a tutti. Ma forse anche no.

Stando infatti all’approccio razional-olistico, una ricerca italiana del 2016 avrebbe evidenziato come il riso biologico abbia impatti complessivi superiori a quello coltivato secondo i moderni concetti di agricoltura integrata. Quella cioè che si prefigge sì di abbassare la pressione delle pratiche agricole sull’ambiente, ma non ripudia ottusamente l’uso della chimica e della genetica innovativa.

Questa ricerca è stata anche inclusa nelle missive che il Gruppo SeTA (Scienze e tecnologie per l’agricoltura) ha inviato al Senato in sede di discussione sul DDL 988, smaccato favoritismo politico all’agricoltura biologica e biodinamica. Un favoritismo basato per lo più sul banale storytelling lobbistico anziché su evidenze scientifiche.

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Nello studio sopra citato, sulla bellezza di 11 variabili analizzate l’unico parametro sul quale la risicoltura integrata perderebbe il confronto con quella biologica sarebbe quello relativo alla presenza di “pesticidi” nelle acque. Ovviamente, non usando erbicidi né altri agrofarmaci di sintesi, il biologico questo impatto non ce l’ha. Almeno, non ce l’hanno quei risicoltori che davvero abbiano rinunciato a questi preziosi strumenti di difesa, perché non è mistero per alcuno che esistono invece risicoltori sedicenti bio che poi hanno produzioni “misteriosamente” pari o superiori a quelle dei colleghi integrati. Un fenomeno di cui si era occupata anche la trasmissione Report, su RAI3, con una specifica puntata sui “furbetti” della risicoltura biologica, senza manifestare però l’usuale durezza che la trasmissione riserva di solito alle multinazionali o ad altri simboli del capitalismo liberista. E v’è da dire purtroppo, perché gli agricoltori bio che usano diserbanti o similari sono veri e propri truffatori, non semplici “furbetti”. E da truffatori la trasmissione avrebbe dovuto trattarli.

Cosa dicono le ricerche

A fare un buon riassunto dei contenuti della ricerca italiana ci ha pensato Riso Italiano, alla cui lettura si rimanda.

Circa però il tema “pesticidi” nelle acque, tema non trattato da Riso Italiano, è bene ricordare come siano stati già prodotti diversi documenti atti a spiegare come “presenza” non vada confusa con “pericolo”, né tantomeno “danno”. Trovare residui di agrofarmaci nelle acque, infatti, non significa che si stiano verificando danni a carico degli organismi che vi vivono, né a carico dei cittadini che quell’acqua bevono.

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Gas serra e altri aspetti ambientali

Diverso il discorso per le emissioni di gas serra, come CO2, metano e NOx, gas che influenzano il clima planetario e che quindi un impatto misurabile ce l’hanno eccome, sia sull’ambiente, sia sulle vite di uomini, piante e animali.

In tal senso è ormai noto come l’agricoltura bio abbia dei “carbon footprint” migliori di quella integrata quando si ragioni in termini di superfici coltivate, ma perda il confronto quando si esprimano i calcoli su base produttiva. Detta in altri termini, se è pur vero che un ettaro di grano biologico emette meno gas serra di un ettaro di grano “integrato”, un chilo di grano biologico ha causato più emissioni di un chilo di grano “integrato”.

Oltre al su citato studio italiano, peraltro, ne esistono molti altri svolti su diverse colture e in diverse aree geografiche. Quindi è bene che i biologici si rassegnino: le loro superfici impattano di meno, ma le loro produzioni impattano di più. E la popolazione mangia cibo, non ettari. Quindi, ciò che potrebbe apparire erroneamente consigliabile su scala locale, ragionando solo sulle emissioni per ettaro, diventa assolutamente sconsigliabile su scala planetaria, ragionando di approvvigionamenti agroalimentari globali.

Si mediti quindi sui reali effetti che potrebbe avere il cosiddetto Green Deal, il quale ha pianificato di elevare le superfici a biologico europeo dall’attuale 8% scarso al 25% del totale. Così facendo, il carbon footprint dell’Europa calerebbe certamente se espresso come emissioni/superficie, ma aumenterebbe in valore assoluto su scala globale, perché tutto ciò che non verrebbe più prodotto in Europa diverrebbe obbligatorio importarlo dall’estero, sbolognando in tal modo le nostre emissioni ad altri Paesi. Quindi, applicando il Green Deal per come è stato dissennatamente progettato, il carbon footprint agroalimentare di noi Europei aumenterà anziché diminuire.

La triste realtà, quindi, è che la politica madre del Green Deal mira furbescamente a ottenere risultati positivi solo su base territoriale, spacciabili poi a livello mondiale come esempi di virtù, quando di virtuoso nulla possiedono. Anzi: trattasi solo di bieco magheggio contabile basato sullo spostare all’estero le emissioni necessarie a soddisfare la domanda interna di cibo del Vecchio Continente. In pratica, un bilancio truccato, squallida espressione della peggior mentalità nimby (not in my backyard. Trad. non nel mio giardino).

Non solo ricerche italiane

Fra gli studi sfogliati in questi giorni come approfondimento di quello italiano del 2016, ve n’è uno che ha attratto particolare attenzione, ovvero quello di tre ricercatori giapponesi: S. Hokazono, K. Hayashi e M. Sato (2009): “Potentialities of organic and sustainable rice production in Japan from a life cycle perspective”. Agronomy Research 7 (Special issue I), 257–262, 2009.

Tre le forme di risicoltura giapponese analizzate: quella convenzionale, quella biologica e quella “sustainable”, ovvero quella integrata moderna. Da questa ricerca nipponica, focalizzata su due precisi parametri, ovvero emissioni ed eutrofizzazione delle acque, si evince come le emissioni di gas serra si confermino minori per il riso bio rispetto al convenzionale quando espresso in termini di superficie, ma non quando espresso per unità prodotta. In tal caso i rapporti fra i due si ribaltano. Quanto all’eutrofizzazione delle acque, invece, la risicoltura bio risulta migliore della convenzionale in termini sia di unità di superficie, sia di unità di prodotto.

Interessante però notare come le minori emissioni di gas serra si ottengano con la risicoltura definita “sustainable”. In tal caso i due impatti, gas serra ed eutrofizzazione, appaiono minori con entrambi i criteri di valutazione. A dimostrazione che la chimica di sintesi non è affatto una nemica quando usata in modo responsabile e sapiente. Anzi.

Infine una curiosità che dà qualche spunto di ulteriore ragionamento: i ricercatori confrontano i due tipi di impatto anche per unità di reddito prodotta, espressa in Yen: nei due anni considerati, i tre tipi di risicoltura hanno generato rese medie pari a 5.960, 5.580 e 4.970 chilogrammi l’ettaro, rispettivamente per convenzionale, sostenibile e biologico. I prezzi però sono stati pari a 250, 283 e 367 Yen per chilo. In sostanza, i ritorni economici delle tre modalità colturali sono stati di 1.490.000, 1.579.140 e 1.823.990 Yen.

La risicoltura convenzionale ha cioè prodotto il 20% in più di quella biologica, ma ha incassato oltre il 18% in meno. La risicoltura sostenibile ha anch’essa prodotto più della biologica, circa il 12% in più, ma ha incassato il 14% in meno. Ovvio che diversi agricoltori optino per la scelta biologica senza pensare troppo a tutti gli altri aspetti.

Esprimendo infatti gli impatti ambientali in rapporto alla ricchezza generata, ovvero emissioni ed eutrofizzazione per 1.000 Yen, il riso biologico vince a mani basse anche esprimendo i dati per chilo di prodotto, non solo per superficie. La curiosità di tale calcolo risiede nel fatto che i ricercatori pare quasi vogliano dimostrare che l’inquinamento diminuisca quando espresso in funzione degli Yen ottenuti dagli agricoltori. In sostanza, se usato in modo inappropriato, quest’ultimo dato parrebbe ribadire l’ormai insostenibile concetto per il quale di fronte all’economia anche l’ambiente si debba inchinare. Meglio quindi non cadere in tale trappola.

Cibo bene primario

Vi è infine un tipo di valutazione che non viene mai effettuata da alcuno, ovvero quella mirante a esprimere il valore di un chilo di prodotto non solo in base al peso fisico, bensì anche in funzione del contenuto morale, etico, sociale e umanitario che quel chilo di alimenti rappresenta in sé per sé. Il cibo è infatti un bene primario irrinunciabile e in molte aree del Pianeta è talmente scarso che milioni di persone perdono la vita ogni anno per iponutrizione, direttamente o indirettamente. La mancanza di cibo è alla base anche delle molteplici instabilità geopolitiche mondiali, o comunque ne aggrava gli effetti quando esse derivino da sporchi giochi di potere politico.

Quante delle crudeltà e dell’arretratezza di molte aree del Globo sono dovute alla scarsità di alimenti? Quanto delle migrazioni di massa? Quanto dell’analfabetismo? Quanto delle disuguaglianze fra classi sociali e di genere? Quanto dello sfruttamento minorile, anche sessuale? E quindi, per inverso, quanto di tutto ciò viene mitigato da un qualunque chilo di alimenti?

Il cibo ha cioè un valore intrinseco intangibile che va molto al di là del suo mero peso in chilogrammi. In tal senso, sarà quindi bene iniziare a chiedersi quanto “pesi” moralmente, eticamente, socialmente e globalmente, quel 20% in più di riso prodotto dalla risicoltura giapponese convenzionale rispetto a quella bio, pur con tutte le sue emissioni e impatti. Perché trattandosi di cibo, non v’è nulla di etico, morale, sociale o umanitario nel produrre di meno e vantarsi pure di farlo. Anzi, è vero semmai il contrario, visto che se oggi cammina sulla Terra oltre il doppio della popolazione che vi camminava nel 1950, lo si deve a chi ha cercato di produrre sempre di più, non sempre di meno. Questi ultimi, più che di sfamare il Mondo si sono infatti preoccupati di arricchire se stessi. E a giudicare dall’andazzo recente ci stanno riuscendo sempre più agevolmente, grazie anche a deprecabili complicità politiche e dei media.

La Rivoluzione Verde ha avuto degli impatti? Certo. Infatti si stanno cercando vie sempre più sostenibili alle produzioni agricole. Ormai questa strada viene percorsa da circa trent’anni, con ottimi risultati, senza però che tutto ciò venga mai comunicato al popolo. Nulla di strano quindi che questo venga facilmente convinto dai biologici che “gli altri” avvelenano lui e l’ambiente, mentre “loro” sono la chiave di volta della salvezza planetaria.

Al contrario, quando quel cittadino rimirerà il suo costoso piatto di pasta o di riso bio, sarà bene ricordi che al Pianeta egli ha arrecato più danno che con un piatto di pasta o di riso “sustainable”. Con buona pace dello storytelling di marketing del biologico e delle agricolture alternative ad esso assimilabili, come per esempio la biodinamica.

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