Erbicidi, agricoltura e irriconoscenti a pancia piena

Insultare gli agricoltori e opporsi a ciò che serve per produrre cibo: una pericolosa follia collettiva (foto di autore sconosciuto)

Mangiare e prosperare senza sapere da dove vengono cibo e prosperità. Succede per molteplici frutti del progresso, agrofarmaci inclusi. Le crociate contro “pesticidi” e, soprattutto, diserbanti, sono prova di ignoranza storica e di incapacità di analizzare il mondo

Non ho idea di chi abbia scattato la foto. Lo citerei volentieri per lo scatto meraviglioso. Non ho idea nemmeno di chi siano gli autori di quello striscione abolizionista e al contempo offensivo. So per certo, comunque, che indipendentemente da nomi e cognomi dietro quella scritta si celi un oceano di ignoranza e stupidità. Un oceano non dissimile da chi accusa i sanitari di somministrare veleni ai propri pazienti, a partire dai vaccini. Diverse similitudini vi sono anche contro i detrattori del 5G, i quali per insultare e allarmare usano la tecnologia 4G e poi useranno la 5G per confermare la propria idiozia quando useremo il 6G. E così via, in un loop di follia anti-tecnologica la quale, appunto, usa la tecnologia per manifestare contro di essa.

In tal frangente, la crociata contro gli erbicidi è caso emblematico. Ben si comprende come ciò sia potuto succedere, con le associazioni ambientaliste e altre ad esse assimilabili che da decenni sobillano le menti più semplici paventando catastrofi ambientali e sanitarie. Del resto, se non terrorizzi la gente contro qualcosa, poi come si fa a chiedere soldi per finanziare le crociate stesse? Un trucchetto che infatti viene oggi usato anche dai molteplici ciarlatani che rovistano nelle pance dei novax per farsi mandare bonifici a sostegno della “coraggiosa battaglia per la verità” che stanno conducendo, dicono, a loro tutela. Di fatto spennano solo dei poveri grulli, cosa che non li rende molto diversi da quei colossi delle lobby ambientaliste che operano grazie ai medesimi schemi propagandistici.

Quello che non sapete e che forse manco volete sapere

Cari i miei imbrattatori di lenzuoli, in primis gli agricoltori sono sì sporchi, ma solo perché lavorare la terra, riparare attrezzature e a pulire stalle non è mestiere pulito come stare comodamente sul divano con uno smartphone in mano, a pancia piena, scrivendo contumelie sui social o, come in questo caso, insulti agli agricoltori con un po’ di vernice stesa a pennello.

Se sono sporchi, quindi, è perché fanno il lavoro più basilare di tutti, ovvero produrre cibo. Anche per voi, maledetti babbei. Per giunta, sono rimasti in quattro gatti a farlo, quel lavoro. Un solo agricoltore è chiamato a dare cibo a più di 100 cittadini. Per farlo, necessita di grandi macchine per tirare le attrezzature atte a lavorare, seminare e curare le colture stesse. Come pure utilizza grandi macchine semoventi da raccolta per mietere e trebbiare o trinciare con un solo passaggio centinaia di ettari. Cosa per fare la quale servivano una volta decine di persone che tiravano di falce sotto il Sole per giornate intere. Erano i vostri nonni e bisnonni, sapete? Persone che se oggi leggessero quanto avete scritto tornerebbero su questo mondo e vi darebbero tanti di quegli schiaffi da arrossarvi il viso più di quanto voi abbiate arrossato quel cencio.

Circa poi lo specifico uso degli erbicidi, non risulta agli atti una vostra intenzione di diventare mondine, andando a lavorare chini nei campi a strappare le malerbe a mano. E no, le macchine per il diserbo meccanico hanno i propri limiti e difetti. Utilissime, soprattutto in alternanza ai diserbi chimici, ma se qualcuno vi ha illuso che grazie a essi potremmo abolire gli erbicidi quel qualcuno vi ha preso per i fondelli. Un po’ come quelli che vi assicurano che si può fare a meno dei medicinali prendendo qualche integratore naturale e diventando vegani. Ottime le intenzioni, sovradimensionate le aspettative.

Per vostra informazione, solo negli ultimi vent’anni le sostanze attive rimaste a disposizione per proteggere i raccolti, inclusi quelli che diverranno il vostro cibo, sono la metà di prima: solo gli erbicidi sono scesi a 88 dai precedenti 177. Del resto, gli usi degli agrofarmaci in genere è più che dimezzato dal 1990 a oggi. Quindi, state combattendo una battaglia feroce contro uno dei comparti produttivi che più ha diminuito il proprio impatto sull’ambiente. Ovviamente, ciò non vi viene detto dai ciarlatani “green” di cui sopra, i quali si taglierebbero le palle da soli se ammettessero tali numeri.

Ergo, cari abolizionisti del piffero, cercate qualche occupazione migliore per il vostro tempo. Perché insultare gli agricoltori, ai quali dovreste dire solo grazie, e chiedere proibizioni prive di senso è atto insulso e deleterio. A meno ovviamente di essere così coerenti da saltare due pasti su tre. Perché questo è il calo medio che si avrebbe nelle produzioni di cibo se rinunciassimo agli agrofarmaci.

Qualcuno si offre? No eh? E allora ricordatevi che “un bel tacer non fu mai scritto“. Men che meno su di un lenzuolo.

Leggi l’approfondimento:

Più bocche, meno terre, meno “pesticidi”: la tempesta perfetta

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Né cancerogeno, né mutageno, né tossico per la riproduzione. Glifosate piace alla scienza: la conferma di Echa

Gli esperti di Echa confermano i pareri di Efsa, Oms, Fao, Epa e di un’altra quindicina di Autorità di regolamentazione nel mondo

L’Agenzia europea per la chimica valuta migliaia di studi sull’erbicida e decreta quanto già si sapeva da anni: non va messo negli occhi e non va buttato a secchiate nei fiumi

Glifosate continua a occupare centinaia di scienziati ed esperti in ogni continente del Globo. Soprattutto in Europa il lavoro è divenuto frenetico, poiché a fine 2022 inizierà il processo di valutazione sul rinnovo dell’erbicida a livello continentale. Quindi le truppe cammellate dell’associazionismo chemofobico stanno già muovendo da tempo le proprie postazioni di artiglieria per demolire l’obiettivo che si sono ormai date da anni: fare bandire glifosate dal Vecchio Continente, senza se e senza ma.

Peccato che tutti gli organi preposti alla valutazione degli agrofarmaci concordino nel dire che non sussistano prove esaurienti a sostegno delle accuse mossegli, ovvero di essere cancerogeno, tossico per la riproduzione, mutageno e nocivo per gli organi interni. Tutte accuse, queste, nate dall’impegno sistematico di discutibili gruppi di ricerca, sedicenti indipendenti, che hanno profuso sforzi per dimostrare a tavolino certi effetti, quando di tali effetti nella vita reale non v’è traccia.

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Glifosate: primo ok (scientifico) al rinnovo

Purtroppo, a fronte di migliaia di studi accumulatisi nel tempo, non solo prodotti dalle industrie, bensì anche da ricercatori anch’essi indipendenti, bastano poche ricerche sviluppate ad hoc per tenere acceso il dubbio che glifosate sia un mostro in Terra, sperando che grazie a tale fuoco di sbarramento l’erbicida venga bandito dalla politica europea.

Dalla politica, si badi bene, non dalla scienza. Poiché quest’ultima l’ha già promosso più e più volte a livello europeo, tramite le nostre maggiori autorità scientifiche di valutazione (Echa, Efsa, Bfr, Anses… etc). Pure è stato promosso da ogni altra agenzia di regolamentazione mondiale, dal Canada al Giappone, dall’Australia al Brasile, dalla Nuova Zelanda agli Stati Uniti. A queste si sono aggiunte Oms e Fao, per giunta.

Solo la Iarc, si ostina a classificare cancerogeno l’erbicida, in base a studi epidemiologici che definire fragili è già esser molto buoni. A questi sono stati aggiunti studi su modello animale (cavie di laboratorio) che hanno solo dimostrato che di erbicida ne occorre una montagna perché in qualche ratto si sviluppi un tumore. Il tutto, dopo mesi e mesi di abboffate di glifosate con la dieta. Prove che per come sono state impostate dimostrano semmai l’estrema sicurezza di questa sostanza attiva per la salute umana.

Leggi l’approfondimento:

Iarc contro il resto del mondo

Oggi arriva l’ennesimo parere positivo dell’ennesima agenzia di valutazione scientifica europea, l’Echa, ovvero l’Agenzia europea per la chimica. Là dentro ci lavorano centinaia di esperti di più nazioni. Gente che ha fatto della scienza la propria professione e che lavora da sempre sotto i riflettori dei media e dell’associazionismo più becero. Quindi se e quando parla lo fa dopo aver valutato ogni prova a disposizione fino all’ultimo capello.

Il suo giudizio è che no, glifosate non ha alcun bisogno di rivedere l’attuale classificazione tossicologica: provoca lesioni agli occhi (per forza, ha reazione acida…) come pure ha dimostrato di essere nocivo per alcuni organismi acquatici in diversi test di laboratorio. Due caratteristiche comuni a centinaia di altri formulati fitosanitari, di cui svariate decine autorizzati pure in agricoltura biologica.

Quindi glifosate non è, si ripete, non è cancerogeno, né mutageno, né tossico per i processi riproduttivi, né intacca specifici organi.

Leggi l’approfondimento:

Echa su glifosate: attenzione a occhi e acque, ma non è cancerogeno

No: glifosate non va bevuto, né ci si condisce l’insalata

Non appena è circolata la notizia sui social si è ovviamente scatenata la ridda di analfabeti funzionali e di “furbetti del biologichino” che hanno sbeffeggiato Echa e le documentazioni utilizzate per la sua valutazione.

Niente di nuovo: puntuale, arriva l’esercito di imbecilli che crede di essere originale e spiritoso scrivendo che allora ce ne si può anche bere un cicchetto, di glifosate. Oppure che ci si può condire l’insalata. Gente strana, questa. Gente che forse beve la candeggina con cui disinfetta il water, o che insaporisce l’insalata con lo shampoo antiforfora. Personaggi tendenzialmente rozzi nei contenuti e ignoranti nel modo di esprimersi, spesso usando un italiano men che approssimativo e ricorrendo come unica arma dialettica al discredito e al dileggio delle multinazionali (spesso sono anche no-vax mica per caso) e delle Autorità di regolamentazione (spesso sono anche no-vax mica per caso, repetita juvant).

Personaggi che ritengono più attendibili gli svagelli psichedelici di soggetti come Stephanie Seneff, bizzarra ricercatrice informatica del Mit di Boston che ha elaborato teorie anti-glifosate perfino in tema di covid-19 (spesso sono anche no-vax mica per caso, repetita juvant – bis).

Gente che, gratta gratta, propugna forme di agricoltura che somigliano più agli scenari di quando eravamo cacciatori-raccoglitori e vivevamo dei pochi frutti che la Natura ci metteva a disposizione. Nel senso che mica ce li regalava magnanimamente: dovevamo sudare e rischiare molto per strappare qualche bacca e una bistecca di mammut. E vivevamo trent’anni. Gente che quindi è pure socialmente pericolosa, poiché se giungesse al potere si avrebbero conseguenze devastanti, come accaduto per esempio in Sri-Lanka:

Agricoltura biologica, disastri annunciati e utili idioti

Purtroppo, di tali soggetti ne sono già arrivati perfino in Parlamento, il più delle volte grazie all’idiozia dell’uno che varrebbe uno. Folle approccio demagogico che ha permesso di approdare a Camera e Senato a decine di bifolchi sfaccendati e di mezzi matti che non sanno fare una “O” col bicchiere, ma che hanno il potere di promuovere ogni idiozia giunga loro sulla scrivania, o di bocciare qualunque proposta razionale per raddrizzare questo sciagurato Paese.

Ergo non vi resta che scegliere: o stare con chi la scienza la padroneggia e lavora per il bene comune, o per l’esercito di zombie pseudo-ecologisti che per mestiere o per hobby sbadilano quintali di merda nel ventilatore. Sotto, un ultimo link: a un articolo che contiene molteplici informazioni sull’erbicida. Capisco che studiare sia difficile, ma per lo meno evita di continuare a dire idiozie tipo “E allora beviteloooo!1!1!1!!

Glifosate: quel che dovreste sapere, ma che i media omettono (o distorcono)

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Agricoltura biologica, disastri annunciati e utili idioti

Come la stampa generalista tende a glissare sugli aspetti negativi del Bio

Scoppiano rivolte in Sri Lanka e la tensione sociale è alle stelle. Fallite le recenti politiche economiche e agricole del Paese, i nodi vengono al pettine anche sul tema Bio, ma la stampa pare non voler toccare l’argomento

Un articolo sul Corriere della Sera tocca il tema Sri Lanka, viste le recenti turbolenze anti governative dovute alla profonda crisi economica e alimentare del Paese. Nel pezzo si toccano molti punti salienti alla base di tale crisi, tutti corretti, ma c’è una parola che proprio non pare debba comparire nella pur ampia disamina, ovvero “biologico“.

Va infatti da sé che buona parte della rabbia popolare derivi soprattutto dalla penuria di risorse alimentari e dei prezzi che queste hanno toccato negli ultimi mesi. Di certo, il tentativo di convertire a bio tutta l’agricoltura dell’isola non è stata una genialata, come già dimostrato nel seguente approfondimento:

La dura legge della fame

Quindi, pur considerando le macro dinamiche socio-economiche e politiche dello Sri Lanka, non pare corretto omettere che gran parte della presente crisi, e della conseguente rivolta, dipende dalle scelte ottuse e anti scientifiche del Presidente e del suo governo.

Il tutto, dovrebbe insegnare che a dare retta a guru come Vandana Shiva si rischia molto. Perché alla base di certe derive politiche e agricole c’è spesso lei, la pseudo-ambientalista indiana. Non paga di quanto causato nel Sikkhim, cioè in patria, Vandana Shiva ha infatti convinto anche la politica cingalese a sposare l’agricoltura 100% Bio.

Di certo, l’eco-santona si guarderà bene dal farsi vedere nello Sri Lanka oggi. E per la sua incolumità le si sconsiglia vivamente di recarvisi. Resta da chiarire come anche qui, in Europa e in Italia, le sirene del Bio abbiano sedotto ampie porzioni della politica, vedesi le recenti trovate del Farm2Fork. Del resto, la stampa generalista, incluse certe trasmissioni sedicenti di inchiesta sempre bene ne parlano, dell’agricoltura biologica, presentando l’agricoltura moderna come “intensiva“, usando l’aggettivo in modo dispregiativo. E per chi fosse interessato a capire dove sta l’inghippo, prego:

Agricoltura intensiva: sinonimo del Male o solo agricoltura moderna?

Il dramma è che sui social e nei media generalisti imperversano anche utili idioti che ben lungi dal guadagnare dalle marchette che fanno a favore dei prodotti biologici (almeno fatevi pagare…), continuano a spargere disinformazione e fake news, rendendosi complici e partecipi di una propaganda a confronto della quale impallidisce perfino quella di Putin e Lavrov, suo ministro dall’impudenza fuori scala.

Non ci sono molti consigli da dare, salvo quello di stare alla larga da chi incensi il biologico “senza se e senza ma“, presentandolo come la panacea di tutti i mali: agricoli, alimentari, sanitari, economici e perfino ambientali.

Vi stanno raccontando una manica di baggianate e molti di loro manco capiscono l’entità delle medesime, divenendo a loro volta altri utili idioti che le moltiplicano sui social. Quindi, se proprio volete capire come stanno davvero le cose, andate a farvi un giro in Sri Lanka: quando tornerete tutto potrete diventare tranne che utili idioti al servizio della propaganda bio.

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Pesticidi, viticoltura e troppa disinformazione

Tutti addosso alla viticoltura. Ma i numeri danno loro torto

In aree viticole come il Trevigiano, patria del Prosecco, infuriano da molti anni proteste contro i cosiddetti “pesticidi”, reclamando contro un loro uso supposto “indiscriminato” e premendo a favore della viticoltura biologica, supposta meno impattante. Vediamo cosa dicono i numeri

Crociate mediatiche a tutto spiano, oggi con le fiaccolate, domani con i cortei, hanno dipinto la viticoltura come fonte di malattie inenarrabili, attribuite soprattutto ai “pesticidi di sintesi“. Una rabbia particolarmente furiosa si è poi manifestata soprattutto a danno di glifosate. Tali proteste, evidentemente, funzionano, visto che hanno di fatto portato all’esclusione di questo erbicida dai disciplinari di produzione del Prosecco Docg, facendo praticamente sparire questo prodotto dai vigneti trevigiani. Meno male? Ma neanche per idea: solo una facciata di cartapesta in ossequio al “marketing del senza“.

Che infatti le cose non stiano come paventato, per lo meno sul tema “tumori“, se n’è già fornita ampia disamina, dimostrando come in Veneto vi sia una correlazione inversa tra superfici a vigneto, usi di agrofarmaci e mortalità per tumori.

Leggi l’approfondimento:

Vigneti, pesticidi e cancri? Ma anche no…

Vediamo ora qualche dato sul tema “usi indiscriminati dei pesticidi“, perché anche su questo punto vi sono alcune sorprese. Circa gli “usi sempre più massicci di pesticidi” si è invece già fornita una specifica disamina numerica, dimostrando come tale affermazione sia di fatto una vera e propria bufala, visto che in trent’anni le tonnellate impiegate in Italia si sarebbero praticamente dimezzate.

Leggi l’approfondimento:

Più bocche, meno terre, meno “pesticidi”: la tempesta perfetta

Gli impieghi di formulati fitosanitari in viticoltura

Ai dati riportati al link sopra indicato, relativi al totale nazionale, contribuisce significativamente la viticoltura, ma solo per quanto riguarda i fungicidi. Le tabelle presenti sul sito di Istat riportano infatti anche la suddivisione degli impieghi per tipologia di prodotto e per coltura. Questa informazione di tipo settoriale è però ferma al 2016, riportando per quell’anno una superficie viticola trattata di 644.583 ettari, pari al 98,8% del totale vitato nazionale. Il numero medio di trattamenti nel 2016 è quindi stato pari a 13,59. Un dato ovviamente alquanto variabile in funzione della stagione e dell’area considerata.

Sempre per l’anno 2016 è possibile confrontare anche i dati nazionali con quelli specifici della viticoltura. Complessivamente, in tale anno la vite avrebbe rappresentato il 12,9% delle tonnellate di formulati fitosanitari applicati in Italia, segnando un valore medio di 24,8 chilogrammi per ettaro, di cui 24,3 sarebbero imputabili ai soli fungicidi. Relativamente a questi ultimi, su vite sarebbero state impiegate 15.640 tonnellate delle oltre 61mila applicate a livello nazionale.

Detta in altri termini, il 25,6% dei fungicidi utilizzati in Italia nel 2016 sarebbe stato applicato su vite. Al contrario, erbicidi e insetticidi avrebbero rappresentato meno dell’1% ciascuno. Gli erbicidi avrebbero infatti contabilizzato impieghi pari a 192 tonnellate (0,8% del relativo dato nazionale). Di queste, 159 sarebbero dovute al solo glifosate, erbicida il cui uso su vite rappresenta quindi solo lo 0,7% degli usi agricoli complessivi nazionali.

Analogamente, di insetticidi se ne impiegavano su vite solo 171 tonnellate, ovvero lo 0,8% del dato italiano complessivo. In sostanza, se per i fungicidi la vite rappresenta una quota altamente significativa delle tonnellate di formulati utilizzate in Italia, ciò non avviene per le altre tipologie di prodotto, qualificando la vite fra le colture a minor impiego a livello nazionale. Un’evidenza che dovrebbe quindi far riflettere sulle pressioni esercitate proprio sugli erbicidi, uno su tutti glifosate. I diserbi in viticoltura rappresentano infatti una quota estremamente ridotta rispetto al totale, sia a livello colturale, sia a livello agricolo generale, inducendo quindi a rivedere l’attuale percezione circa i suoi usi, decisamente sovradimensionata.

Ripartizione su vite per famiglia di prodotti

La quantità complessiva di agrofarmaci impiegati su vite nel 2016 è stata pari a 16.036 tonnellate. Su vite, come detto, sono i fungicidi a rappresentare la quota ampiamente maggioritaria degli impieghi, con 15.640 tonnellate, pari al 97,5% dell’ammontare complessivo dei fitosanitari impiegate sulla coltura.

Gli inorganici in base zolfo rappresentano la quota maggiore con 11.054 tonnellate, pari al 68,9% del totale. Nello specifico segmento di prodotti, i trattamenti con lo zolfo rappresentano quindi il 70,1% dei fungicidi impiegati in viticoltura. Da parte loro i rameici rappresentano la seconda voce di impiego, pari al 10,6% del totale con 1.703 tonnellate. Percentuale che sale al 10,9% sul totale dei fungicidi. In sostanza, rame e zolfo messi insieme rappresentano il 79,5% dei quantitativi di agrofarmaci impiegati nei vigneti e l’81% dei fungicidi.

In questa specifica categoria di prodotti, gli agrofarmaci di sintesi compongono quindi meno del 20% dei quantitativi impiegati su vite. Gli azoto-organici, esclusi i triazoli, rappresentano infatti il 14,8% del totale con 2.378 tonnellate (15,2% sul totale fungicidi). I triazoli, da parte loro, date le loro basse dosi di impiego, ammontano a sole 71 tonnellate: 0,44% sul totale di agrofarmaci impiegati e lo 0,45% sul segmento dei soli fungicidi.

Dei 24,8 chilogrammi per ettaro di agrofarmaci impiegati su vite, quindi, ben 17 chili sarebbero di solo zolfo, mentre i rameici apporterebbero 2,63 chilogrammi. In totale, rame e zolfo rappresentano su vite 19,7 chilogrammi dei 24,8 utilizzati. Quattro quinti dei chilogrammi mediamente applicati su vite sarebbero quindi dovuti a prodotti autorizzati anche in viticoltura biologica.

Conclusioni

  1. Scandalizzarsi per i chili di agrofarmaci impiegati in viticoltura, supposti eccessivi, ha senso dallo scarso al nullo, visto che se si vuole raccogliere l’uva sana si deve trattare mediamente 13-14 volte l’anno.
  2. Il 70% di quei chili è peraltro di banalissimo zolfo, sommando al quale il “romantico” rame si arriva all’81% del totale. Entrambe le tipologie di fungicidi sono ammessi in viticoltura biologica.
  3. Da quanto sopra, appare decisamente sciocco reclamare per la conversione a biologico della viticoltura, illudendosi in tal modo di diminuire l’impiego di chilogrammi per ettaro. Eliminando gli agrofarmaci di sintesi, che hanno dosi molto basse, i viticoltori sarebbero obbligati a utilizzare ancor più zolfo e rame, gonfiando ulteriormente il dato relativo agli usi per ettaro.
  4. Considerando che nei vigneti l’uso di glifosate non arriva all’1% del totale impiegato, chiederne l’estromissione dai disciplinari è stata quindi campagna meramente mediatica, figlia di una demonizzazione gonfiata ad arte da una molteplicità di portatori di interesse, sostenuti per le strade e sui social dalle usuali masse di utili idioti. Una demonizzazione cui purtroppo non sono stati in grado di opporsi né le autorità locali, incluse quelle sanitarie, né i consorzi dei produttori, del tutto proni agli umori sballati che giravano e tuttora girano per ogni dove.
  5. Infine: la modifica genetica delle viti potrebbe apportare resistenze endogene alle principali patologie fungine. Il Genome editing si mostra in tal senso la via più consigliabile, visto che è in grado di modificare velocemente e in modo chirurgico il DNA della coltura, realizzandovi all’interno i geni per diverse resistenze. Va infatti ricordato che i funghi patogeni mutano e che ciò che gli è oggi resistente potrebbe non esserlo più domani. Visto però che la vite è coltura pluridecennale, va parimenti accettato che le applicazioni di fungicidi in vigna siano fattore comprimibile, ma non eliminabile. Anche perché vi sono patologie secondarie che senza agrofarmaci diverrebbero in fretta primarie. Ergo, se proprio non volete i “pesticidi”, almeno non opponetevi alle tecniche di modifica genetica, del tutto sicure per l’ambiente e per i consumatori.

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Più bocche, meno terre, meno “pesticidi”: la tempesta perfetta

Da un lato lo storytellig, dall’altro i numeri

Mentre aumentava la popolazione, diminuivano gli ettari coltivati e i mezzi di difesa necessari per proteggere le colture. Un avvitamento molto pericoloso che continua tuttora, promettendo il collasso della già scarsa autosufficienza alimentare italiana

L’uso sempre più massiccio dei pesticidi” è uno dei tormentoni più in voga da diversi anni. Come pure c’è chi da altrettanti anni abbaia, bava alla bocca, contro l’agricoltura cosiddetta “intensiva“, esortando a cambiare indirizzo e a dare sempre più spazio a forme di agricoltura supposte meno impattanti, come il biologico, ma sicuramente meno produttive.

Leggi l’approfondimento sui perché l’agricoltura biologica non è la panacea di tutti i mali:

L’agricoltura biologica: storia di un disastro annunciato

C’è quindi un problema: le forme di agricoltura proposte come alternative a quella moderna e tecnologica sono solo illusoriamente meno impattanti, poiché per unità di cibo prodotto comportano impatti superiori. Inoltre, la popolazione italiana è cresciuta nel tempo, concentrandosi per giunta nelle città. Le campagne, di conseguenza, si sono progressivamente ridotte a causa di abbandoni e cementificazione. Come fare quindi a soddisfare una domanda alimentare cresciuta per decenni, mentre calavano le superfici coltivabili pro-capite e quasi scomparivano le braccia per coltivarle? Si può: con la meccanizzazione, la genetica e la chimica. Peccato che solo la prima sia in qualche modo tollerata, mentre la seconda e la terza vengono demonizzate come supposti agenti di morte, anziché esser viste come alleate indispensabili.

Un bel dilemma, questo, anche considerando che nel frattempo, sempre sotto le spinte chemofobiche, agli agricoltori sono rimasti sempre meno prodotti da utilizzare a difesa delle colture (il 70% delle sostanze attive utilizzate fino alla fine degli Anni 80 non ci sono più), come pure sono diminuiti gli usi in assoluto.

Nel grafico sottostante, i trend inversi dei terreni coltivabili e della popolazione italiana.

Come si vede, mentre la popolazione aumentava del 19,4% fra il 1961 e il 2019, le superfici agricole diminuivano del 36,6%. La divergenza fra le due variabili ha fatto sì che ormai restino solo 2.175 mq a testa di terre coltivabili contro i 4.093 dei primi Anni 60. Un calo di disponibilità pro capite pari al 46,8%. In sostanza, ciascun Italiano ha sempre meno metri quadri per produrre cibo. Reclamare quindi cibo italiano è più che altro una bizzarria mediatica, un obiettivo irraggiungibile a meno di accettare che da quei pochi metri quadri rimasti si estragga quanto più cibo possibile. Cioè il contrario di quello che si otterrebbe con l’aumento delle superfici a biologico.

Sotto, il calo negli usi degli agrofarmaci (alias “pesticidi”), sia espressi come formulati commerciali, sia come sostanze attive.

L’andamento irregolare è dovuto alle condizioni fitosanitarie e metereologiche di ogni annata. Il trend in calo è comunque percepibile chiaramente fra il 1990 e i 2020, con un minimo del -41,5% per i formulati, toccato nel 2019, parallelo al -51,7% delle sostanze attive, sempre nello stesso anno. Ci si chiede quindi in che modo il Farm2Fork previsto dal Green Deal pensi di poter eliminare la metà degli attuali agrofarmaci di sintesi nell’arco di pochi anni, senza lasciare sguarniti i campi contro malerbe, parassiti e malattie fungine. Il tutto, considerando pure che se vi sono meno molecole e meno modi d’azione, a sviluppare resistenze ci vuole un attimo, costringendo gli agricoltori a impiegare sempre e solo le poche sostanze attive rimaste.

Concludendo: il cosiddetto “uso sempre più massiccio dei pesticidi” è una fola maramalda, come pure lo è quella de “l’uso indiscriminato dei pesticidi“. Peraltro, l’agricoltura intensiva non è causa, bensì effetto, avendo ridotto progressivamente le superfici coltivabili. Ciò ha reso indispensabile produrre sempre di più da ogni metro quadro di terra rimasta. Ogni altra forma di agricoltura può quindi solo indurre cali produttivi a due cifre percentuali, gonfiando ulteriormente la già imbarazzante dipendenza dall’estero dell’agroalimentare italiano ed europeo.

Poi arriva una guerra in Ucraina e all’improvviso ci si accorge che chi, come chi scrive, ammoniva da tempo su questi temi, proprio scemo non era.

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Vigneti, pesticidi e cancri? Ma anche no…

Dati ufficiali, regionali e provinciali, contro illazioni da ciarlatani. Chi vincerà?

Analizzando i dati oncologici del Veneto, prima Regione italiana per impiego di prodotti fitosanitari, appare netto lo scollamento fra tumori e chimica agraria, come pure fra cancro e viticoltura

Capillari nel territorio veneto, soprattutto trevigiano, e insistenti nei modi, molteplici ciarlatani terrorizzano da anni le popolazioni locali tramite specifiche serate a tema, quelle in cui alla fine sembra che vigneti e pesticidi siano mostri a sette teste responsabili d’ogni maleficio. Ovviamente, essendo ciarlatani, se ne guardano bene dal mostrare dati ufficiali relativi alle tre variabili correlate: vigneti, pesticidi e cancri. Dati che invece sono stati raccolti nei paragrafi che seguono.

Ben si comprende, però, come ai suddetti ciarlatani basti citare la morte per tumore dello zio Peppino Laqualunque (“Ma sì, il marito della Siòra Clotilde de Trebaseleghe! Quello che viveva vicino a un vigneto!”), per aizzarmi contro i vari comitati no-pesticidi. Ma pazienza. Il Covid-19 ha purtroppo dimostrato come l’aneddotica personale possa travalicare ogni statistica ufficiale, anche la più solida. Quindi, non mi resta che accettare che tale deriva (in)culturale si palesi anche parlando dei rapporti agricoltura-salute. Per lo meno, avrò creato un contenuto utile a chi lo saprà usare al meglio.

I morti per tumore in Veneto

Iniziamo con l’analizzare gli andamenti dei morti per tumore in Veneto. I dati sono tratti da Health for All di Istat, sistema informativo territoriale su sanità e salute. Uno strumento di sicuro interesse per chiunque voglia contare su una fonte affidabile e ben organizzata di dati.

Nel grafico sotto riportato sono espressi gli andamenti delle medie triennali di morti per tumore (tasso cumulato maschi+femmine) ripartite per provincia. Come si vede, le sette province venete sono chiaramente suddivise in due raggruppamenti ben separati fra loro: sopra si posiziona un terzetto composto da Belluno, per sua sfortuna prima in classifica, seguita dappresso da Rovigo e, poco sotto, Venezia. Queste prime tre province staccano nettamente un quartetto che parte da Padova, scendendo poi a Verona, Treviso e, ultima per sua fortuna, Vicenza.

La domanda quindi è: tali differenze sono forse dovute ai vigneti, all’agricoltura in genere, ai pesticidi?

I vigneti in Veneto

Le superfici vitate nelle diverse province venete sono alquanto diverse, concentrandosi soprattutto in due di esse: Treviso e Verona. Stando ai dati Avepa (Agenzia veneta per i pagamenti) per l’anno 2016, gli ettari a vigneto sarebbero stati pari a 32.065 per la provincia di Treviso e 27.630 per Verona. Molto più staccate Vicenza, Venezia e Padova con, rispettivamente, 7.233, 6.866 e 5.874 ettari. Quasi inesistenti Belluno e Rovigo.

In sostanza, appare una correlazione inversa tra superfici vitate e mortalità per tumore: le province a maggior tasso di mortalità tumorale, Belluno e Rovigo, sono anche le più scarse quanto a vigneti. Al contrario, le tre province con la maggior viticoltura, Treviso, Verona e Vicenza, sono al capo opposto del grafico, mostrando le mortalità oncologiche più basse. La viticoltura veneta, peraltro, è diminuita molto a partire dagli Anni 70, quando era sopra ai 100mila ettari complessivi. Quindi si sta parlando di un’attività particolarmente radicata nel territorio veneto. Nonostante ciò, la storia pluriennale presa in considerazione conferma che su scala provinciale tra vigneti e cancri non esiste alcun legame identificabile.

I “pesticidi” in Veneto

Ma di non solo vigneto vive l’agricoltura veneta. Quindi è bene andare anche a valutare l’uso di agrofarmaci in generale, sempre provincia per provincia. Secondo i dati di Arpav 2008-2016, riportati nel grafico sottostante, Verona impiega mediamente il 46-47% dei fitosanitari applicati in Veneto, a sua volta, come detto, prima regione in Italia per impieghi di “pesticidi”. A Verona segue Treviso, con il 23-24% circa. Poi Venezia, Rovigo e Padova si posizionano sul 6-7%, mentre Vicenza chiude la classifica con poco più del 5%. Praticamente non classificabile Belluno: rasoterra.

Analogamente a quanto visto per le superfici vitate, anche per gli agrofarmaci non appare alcuna correlazione fra mortalità per tumore su scala provinciale e uso di “pesticidi”. Basti pensare che la prima provincia per tumori, Belluno, si conferma ultima non solo per la viticoltura bensì anche per gli agrofarmaci in generale. A conferma, Verona e Treviso sono sì le prime due province per impiego di agrofarmaci, ma anche fra le ultime per tasso di mortalità oncologica.

Forse, invece di sgonnellare fra mille riunioni serali coi cittadini, spaventandoli a morte contro i “pesticidi”, meglio sarebbe consigliarli sugli stili di vita più adeguati da adottare. I Bellunesi, per esempio, come sono messi a fumo e alcol, visto che sono i due primi fattori di rischio quanto a tumori?

Grave appare quindi la stortura comportamentale degli attivisti pro-allarmismo, soprattutto pensando che a battere compulsivamente quei territori sono proprio dei medici. Cioè persone che tali tendenze statistiche dovrebbero insegnarle loro a me. Ben lungi da ciò, essi preferiscono sobillare la popolazione cavalcando casi singoli, come appunto quello dello zio Peppino Laqualunque. Ovvero il contrario del metodo scientifico. Più dell’ignoranza, si teme, poté la disonestà.

Concludendo…

Dall’analisi dei trend statistici veneti per tassi di morti oncologiche, ettari di vigneto e utilizzo di “pesticidi”, sembrerebbe quasi che alla salute faccia bene vivere nelle province a maggior intensità viticola e agrochimica.

Ovviamente, queste correlazioni inverse non possono far concludere che vigne e “pesticidi” siano elisir di lunga vita. Però, questo sì appare chiaro, non possono nemmeno essere accusati, loro, degli inesistenti Armageddon sanitari che i summenzionati ciarlatani continuano a millantare in ogni paesino in cui poggino la propria funerea ala. Che i vari comitati del No-Tutto se ne facciano una ragione.

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Genetiche antifungine all’orizzonte

La scienza avanza: Europa e Italia saranno pronte a coglierne i frutti?

Il controllo dei patogeni potrebbe essere integrato in futuro da nuove soluzioni basate su piccoli peptidi ed RNA a doppio filamento: lo afferma uno studio internazionale (con molta Italia dentro)

Non fosse per le irrazionali (e spregiudicate) lobby anti-Ogm, le biotecnologie potrebbero essere già da tempo al servizio dell’agricoltura nazionale. Non solo apportando benefici in termini gestionali ed economici, bensì anche ambientali, sostituendosi ad alcuni specifici trattamenti con agrofarmaci. Inoltre, gli Ogm da tempo noti, resistenti per lo più a insetti e glifosate, potrebbero is a sto essere affiancati e finanche superati da nuove genetiche frutto di Genome editing, ovvero figlie delle tecniche note come Crispr-Cas9.

In tal caso, i target di tali migliorie potrebbero essere soprattutto i funghi patogeni, magari partendo dalle molteplici specie di oidio, dalle anch’esse molteplici peronospore e, perché no, dalla ticchiolatura, ovvero le patologie che più richiedo impiego di fungicidi. Non che Alternaria, Monilia, Sclerotinia e altre varie ed eventuali vadano riposte nel dimenticatoio, ovviamente. Anche perché le coperte corte durano poco: rendere una coltura resistente a un patogeno, al fine di eliminare gli specifici trattamenti fitosanitari, può aprire il varco ad altre malattie che erano controllate dai medesimi agrofarmaci usati sul patogeno target: sospesi i trattamenti, tempo 2-3 anni emergerebbero altre avversità fin lì poco considerate.

La gara a inseguimento non finirebbe quindi mai, anche perché è ben nota la capacità di mutare che i patogeni hanno. Basti pensare alle precedenti resistenze sviluppate nei confronti delle Ruggini dei cereali, aggirate all’improvviso da un ceppo particolarmente virulento capace di farsi beffa di quei meccanismi di resistenza.

Se un fenomeno del genere si palesasse in un vigneto o in un frutteto, supposti vivere anche per decenni, per tutta la durata residua del ciclo vitale della coltura si dovrebbero riesumare i precedenti agrofarmaci, da usarsi esattamente come si usavano prima che tali transitorie resistenze venissero messe a punto. 

Quindi la ricerca di soluzioni differenti non deve mai fermarsi, con buona pace delle facili illusioni che ogni nuova proposta genera in chi creda semplicisticamente che la guerra sia finita. Ciò perché le guerre a patogeni e parassiti sono sequenze di infinite battaglie, terminata una delle quali si deve fronteggiare subito quelle successive. Banalmente per l’arrivo di un’avversità aliena.

In linea proprio con la volontà di differenziare il più possibile gli strumenti a difesa delle colture, è giunto uno studio in cui l’Italia ha avuto un ruolo fondamentale. A far parte del team internazionale di scienziati sono state anche l’Università Statale di Milano, l’Università Politecnica delle Marche e l’Università di Bologna. A queste hanno fornito il proprio contributo l’Università di Adelaide, in Australia, e il Kth Royal Institute of Technology svedese. Tale ricerca è stata focalizzata sulla messa a punto di nuove molecole organiche utilizzabili come alternative ai fungicidi tradizionali. Tradotto: piccoli peptidi ed RNA a doppio filamento.

I risultati, pubblicati sulla rivista Trends in Biotechnology, confermerebbero le potenzialità di tali molecole nel controllo di alcune avversità grazie alla loro elevata specificità per l’organismo bersaglio. Ampia la panoramica fornita dallo studio sulle molecole identificate, indicando al contempo le necessarie e ulteriori indagini da realizzare, anche per mettere a punto le più opportune strategie da adottare per il loro ottimale utilizzo in campo.

Si attendono quindi gli auspicabili sviluppi, sperando però che tali nuove soluzioni non cerchino di farsi largo tramite l’usuale criminalizzazione, spesso farlocca, delle soluzioni pre-esistenti. Ben si comprende che la caccia ai finanziamenti sia una jungla senza esclusione di colpi, quindi possa essere forte la tentazione di demonizzare gli attuali “pesticidi” per tirare l’acqua al proprio specifico mulino. Si auspica però che ciò non accada, perché alimentare ulteriormente la già insopportabile (e dannosa) chemofobia sarebbe solo l’ennesimo danno per l’agricoltura, non un vantaggio.

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Non esistono bugie a fin di bene

Chiarezza senza fittizi allarmismi: unica via per spiegarsi correttamente

Sul riscaldamento globale vi sono diverse certezze: la prima è che esiste, la seconda è che l’uomo ne è responsabile per la gran parte, la terza è che la comunicazione mediatica e politica è stata disastrosa

Che l’anidride carbonica sia una forzante climatica lo si sa da oltre un secolo, ovvero dai tempi di Arrhenius. Che il picco attuale superiore alle 400 ppm (parti per milione) sia il più alto dell’ultimo milione di anni è pure questo un fatto: senza alcuna perturbazione aggiuntiva, nell’attuale fase interglaciale dovremmo stare al massimo intorno alle 300 ppm, fossimo in linea con i precedenti picchi che si sono susseguiti con cadenza di 80-90mila anni. Ergo, quelle 100 e passa parti per milione in più ce le abbiamo messe noi, molte delle quali nel volgere di pochi decenni per giunta. Del resto, se carbone, gas e petrolio ci hanno messo milioni di anni per formarsi nel sottosuolo e noi li estraiamo e li bruciamo a rotta di collo per un paio di secoli, il pulse di CO2 in atmosfera non poteva certo essere diverso da quello osservato.

La persistenza pluridecennale dell’anidride carbonica in atmosfera fa poi sì che sulle nostre teste ci sia ancora della CO2 emessa dai nostri nonni e bisnonni quando ancora di Global Warming non se ne parlava affatto. Il problema è che quella che emettiamo noi resterà altrettanto sulle teste dei nostri nipoti e bisnipoti, con l’aggravante che ne abbiamo prodotta molta ma molta di più.

Chiarito quindi che questo post non intende discutere dei cambiamenti climatici, innegabili, e delle sue origini prettamente antropiche, altrettanto innegabili, vediamo cosa non ha funzionato nella comunicazione del problema, come pure negli orientamenti da seguire per trovare soluzioni anziché spingere solo inconcludenti piagnistei pseudo-ecologisti.

Per esempio, nei propri report periodici l’Ipcc (intergovernamental panel for climate changes) indica sì le cause e le entità delle emissioni, ma parimenti ricorda come il nucleare sia un rimedio di altissima importanza per mitigare il fenomeno. Peccato gli ambientalisti puntino sempre e solo il dito sui problemi elencati, spesso deformandone persino l’entità, salvo poi sostenere che l’Ipcc vada preso con le pinze quando si parli di centrali atomiche. Il trionfo del cherry picking.

Ma veniamo appunto alla comunicazione, a partire dall’ormai frusto tormentone che alla Terra mancherebbero solo dieci anni prima della catastrofe climatica irreversibile. Classico caso di come urlando “Al lupo! al lupo!” alla fine la gente non ci crede più e magari non vede più il lupo quando arriva davvero. Per esempio, risale al 1989 il primo articolo di cui sono venuto a conoscenza che stabiliva in dieci anni la scadenza per la salvezza. Era un pezzo comparso l’11 febbraio 1989 su La Repubblica dal titolo “Dieci anni per salvare la Terra”, a firma Arnaldo D’Amico. In quel frangente era il World Watch Institute a lanciare l’allarme, definito all’epoca “senza dubbio il più drammatico” dei sei pubblicati fino a quel momento. Contrariamente a quanto ormai accertato oggi, si affermava anche che l’energia nucleare non fosse una valida alternativa poiché troppo costosa (Cvd).

Sempre su La Repubblica, nel settembre 2013, quindi quasi 25 anni dopo, altro articolo pressoché fotocopia dal titolo “Dieci anni per salvare il Pianeta”, a firma Antonio Cianciullo. Cambiava in tal caso l’istituto di riferimento: al rapporto del World Watch Institute si era infatti sostituito quello del citato Ipcc.

Si spera quindi che altri redattori di La Repubblica non titolino “Dieci anni per salvare il Mondo” nel 2038 e “Dieci anni per salvare il Globo” nel 2063. (Prego i lettori di incaricare i propri figli e nipoti di verificare, perché io per l’epoca non ci sarò di certo più). Perfino i film di fantascienza hanno spostato la collocazione temporale delle loro trame molti secoli in là nel futuro, poiché hanno capito che pochi decenni servivano solo a farsi prendere in giro quando fosse divenuto possibile verificare l’inesistenza dei fatti ipotizzati. Esempio classico “1999 Odissea nello spazio”. Meglio sarebbe stato collocare la serie tv nel 2999, a scanso di equivoci.

Proseguendo sul tema “decennio e poi Armageddon”, nel 2019 Greta Thumberg citava le posizioni di alcuni climatologi, suoi rifermenti scientifici, secondo i quali si doveva invertire la tendenza entro il 2030 o i cambiamenti climatici sarebbero stati drammatici e irreversibili. Altri dieci anni, quindi.

Nel 2021 è stato poi il turno di Luca Mercalli, il noto climatologo in farfallino spesso presente in televisione e sui media in genere. Secondo Mercalli al Pianeta mancherebbero solo, indovinate, dieci anni per salvarsi.

Insomma, è per lo meno da 32 anni (probabilmente di più, ma non ne ho memoria) che si afferma che alla Terra ne restino solo dieci. E i negazionisti dei cambiamenti climatici ringraziano, trovando ogni volta un rafforzamento in più delle proprie tesi. Del resto, i profeti di sventura hanno da sempre terrorizzato la popolazione con Armageddon che mai sono arrivati. Quindi, perché mai dare credito a quelli di oggi? Del resto, sono rappresentanti dei medesimi orientamenti ideologici che vaticinavano l’imminente fine del petrolio già nei lontani anni ’60. E lo scetticismo ingrassa.

Che credito dare poi ad Al Gore, ex vicepresidente americano, quando sostenne nel 2007 che le calotte polari si sarebbero sciolte entro il 2013? Un’affermazione tratta, secondo i media, dagli scienziati. Sì, ma ni. Lo scenario di Gore per il 2013 era solo uno dei tanti fra quelli tratteggiati da un gruppo di ricercatori che avevano sviluppato diverse simulazioni giocando con molteplici variabili che potevano influire sul clima. Quella presa da Al Gore era il worst case, il caso peggiore, con un incremento di 4°C della temperatura media globale in soli sei anni.

Un’eventualità che non era di per sé impossibile, ma che aveva una probabilità di verificarsi ampiamente sotto lo zero virgola per mille. Infatti non si è verificata. A nulla valsero le puntualizzazioni di uno degli scienziati chiamati in causa, un climatologo dal cognome polacco immemorizzabile (infatti me lo sono scordato). E così, mentre la voce della scienza venne fatta passare in secondo piano, prendendone solo la parte che più interessava, la profezia di Al Gore andò ad aggiungersi alle molte altre svanite nel nulla negli anni precedenti. E vai col negazionismo a tutta birra, sempre più ricco di argomenti in tasca.

Non possono nemmeno mancare critiche circa i testimonial scelti per la campagna di sensibilizzazione sul tema, come per esempio Leonardo di Caprio. La star americana intervenne alle Nazioni Unite con un discorso toccante, pieno di espressioni facciali e mimica coerenti con le parole (è un attore, del resto), sollecitando un profondo cambiamento negli stili di vita delle persone o per il Pianeta sarebbero stati disastri tanto gravi quanto imminenti. Peccato Di Caprio ami passare le proprie vacanze su yatch giganteschi che in un solo giorno di navigazione brucino tanto combustibile quanto io ne potrò consumare in tutta la vita con la mia utilitaria 1.6 diesel Euro 6. Far quindi sentire la gente comune presa per i fondelli da ricchi e viziati testimonial non è che sia il viatico migliore per trasferire il messaggio desiderato. Anzi, la reazione rischia di essere quella opposta per pura ribellione da classe sociale.

Non parliamo poi della traversata atlantica fatta da Greta Thunberg quando doveva andare a New York per parlare anch’ella alle Nazioni Unite. Non volendo usare l’aereo, perché inquina, e non trovando sufficiente un collegamento via Zoom o Skype, ci andò con un’imbarcazione milionaria messa a disposizione e gestita da Pierre Casiraghi, figlio di Stefano Casiraghi e Carolina di Monaco. Ovvero il rampollo di una delle famiglie regnanti europee, quella di Montecarlo, che è nota per lo più per il lusso, lo sfarzo e i miliardi accumulati grazie alle tasse agevolate a favore dei ricconi di mezzo mondo che abbiano spostato lì la propria residenza. In pratica, il simbolo di quel mondo capitalistico e sprecone che la giovane svedesina afferma di contrastare. Chi non ha percepito la stortura comunicativa dell’evento, sostenendo che l’importante è il messaggio (!), è quindi parte del problema, a partire da giornali e tv.

Per giorni i media si focalizzarono infatti sul vasino in cui Greta avrebbe fatto la pipì in mare, con una morbosità imbarazzante. Nessuno si premurò invece di specificare che Casiraghi sarebbe tornato indietro mica sulla barca, bensì in aereo. A recuperare l’imbarcazione e a riportarla nel Principato ci avrebbe pensato un equipaggio privato appositamente volato a New York. Più i voli aerei di chi Greta segua passo passo, essendo ormai un fenomeno mediatico che si muove con diverse persone perennemente al seguito. Ovviamente anche loro in aereo. In pratica, per non prendere l’aereo lei ha fatto volare una mezza dozzina di persone al posto suo. E questo la gente comune la fa incazzare, piantatevelo nella testa, soprattutto dopo il discorso a vene gonfie che la ragazza fece all’Onu intimando agli adulti di vergognarsi.

Certi messaggi, condivisibili per lo meno negli intenti, si avvantaggiano infatti della simpatia, della coerenza e quindi della credibilità che i testimonial sono in grado di offrire al pubblico. Ergo, non ci siamo affatto se si ottiene il risultato opposto a causa proprio della mancanza di simpatia, coerenza e credibilità.

A soffiare ulteriormente nelle vele al negazionismo climatico sono state poi altre campagne stampa abbastanza deformanti, come quelle che seguono sistematicamente ogni evento catastrofico, dall’alluvione agli incendi. Che i cambiamenti climatici abbiano un peso sui trend di questi fenomeni è palese. Magari meglio sarebbe però evitare di presentarli tutti come fatti inauditi, mai accaduti prima: tutta colpa dei cambiamenti climatici. Accadde per esempio dopo che Zermatt venne invasa da un’alluvione nel 2019. Mai accaduto prima? Mica tanto: secondo uno studio sviluppato sulla Val D’Aosta dal citato Luca Mercalli eventi similari si sarebbero abbattuti sulla valle sin dalla fine dell’ottavo secolo, cioè circa 1.200 anni fa. Più volte Aosta venne alluvionata nei secoli passati, come pure diversi eventi simili a quello di Zermatt hanno provocato morte e distruzione in epoche in cui eravamo meno di un miliardo sul Pianeta e andavamo al massimo a cavallo. Quindi anche no: serietà impone di cambiare toni e parole dando ad esse il giusto peso e significato.

Gli incendi in Canada del 2020? Mai visti prima? No: secondo il National Forest Database canadese il picco per l’area boschiva andata distrutta fu nel 1988 e il numero massimo di incendi spettò al 1989 (oggi purtroppo fuori scala temporale che attualmente parte dal 1990). Quindi il clamore mediatico improntato al “mai visto prima” si trasformò anche in quel caso in una meravigliosa leva nelle mani dei negazionisti. Su Siberia e Australia non so, non ho serie temporali a portata di mano, quindi non mi esprimo. Cosa che se i giornalisti facessero di sistema sarebbe meglio per tutti.

E poi, dai, mostrare foto di ghiacciai scattate nel 2017, comparandole con quelle dei primi anni 50’, ha senso? Sì, lì per lì, ma poi il ghiacciaio durante l’estate arretra ancora un po’ e scopre un rifugio costruito dagli Alpini nel 1917 in piena Prima Guerra mondiale. Questo perché gli ultimi anni ’40 sono stati fra i più freddi del secolo scorso, mentre quelli a cavallo del Primo Conflitto furono decisamente più temperati. Significa quindi che il cambiamento climatico non esiste? Niente affatto, ma in tal guisa può essere spacciato da chi si sia legata al dito la precedente comparazione fotografica, gongolando di gusto.

Il global warming non va infatti sostenuto o negato in base a eventi puntuali e locali, poiché l’analisi del clima va sviluppata in chiave temporale di medio e lungo periodo e, appunto, su scala globale. La nevicata a marzo sui monti abruzzesi con temperature sotto zero non può essere usata di per sé come prova che il riscaldamento globale non esiste, perché siamo in Abruzzo a marzo. Punto. Analogamente, le alluvioni in Germania dell’estate 2021 hanno numerosi precedenti nei secoli passati, debitamente documentati dai livelli idrometrici segnati sugli angoli delle case che erano già presenti per lo meno dal XVII secolo. Stupisce quindi che addirittura dei ricercatori di istituti pubblici affermino che tali fenomeni non avrebbero mai potuto verificarsi prima dell’era industriale. Ma tant’è…

Anche affermare che oggi gli eventi disastrosi siano addirittura raddoppiati è un “filino” forzata come informazione. Se si prendono infatti la popolazione e il Pil medio del ventennio 1980-1999 e li si compara con le medesime medie del ventennio 2000-2019, si evince come entrambi siano raddoppiati numericamente. Ergo, se un tornado abbattutosi nell’area “X” faceva un milione di dollari di danni e 10 morti nel 1990, non è che è raddoppiato di intensità perché nel 2010 distrugge beni per due milioni di dollari e uccide 20 persone. Perché nel frattempo in quell’area si sono moltiplicate le cose da distruggere e le persone da uccidere. Anche in questo caso il global warming non esiste? No, esiste, poiché le rilevazioni annue stanno aumentando, anche grazie all’intensificazione delle reti di rilevamento e dell’attenzione ai fenomeni. Ma parlare di raddoppio in base ai danni economici e ai morti, magari anche no: approccio interessante, ma fuorviante.

Ecco, il senso di questo approfondimento non è perciò quello di verificare o negare il global warming. Solo un cieco potrebbe negarlo. Semmai è quello di ricordare che non esistono bugie a fin di bene. La verità fattuale va trasmessa infatti così com’è, senza scandalismi giornalistici, senza cavalcate ideologiche di qualche politico o di qualche associazione in cerca di visibilità (e quattrini). Soprattutto, bisognerebbe comunicare senza fare alcunché che poi possa essere strumentalizzato dai negazionisti per portare acqua al proprio mulino. Perché in tal caso meglio sarebbe stato tacere, anziché porgere i sassi a chi vorrebbe usare la fionda.

Molto più utile sarebbe invece spiegare alla popolazione perché le risposte al problema non sono la dieta vegana, né i pannelli solari oggi adorati come divinità. Né sarà il biologico a salvare la Terra, né tantomeno l’avversione a diesel, nucleare, ogm, concimi e “pesticidi”. Le tecnologie per produrre più energia a basso impatto ci sono, basterebbe usarle invece di cavalcare e sobillare paure. Idem per le tecnologie da impiegare nei processi industriali e agricoli, atti a massimizzare le rese minimizzando le emissioni per unità di cibo prodotta.

Poi, va da sé, se ognuno sprecasse meno risorse, andrebbe meglio per tutti. Ma si teme che nessuno gradisca spegnere il riscaldamento in inverno o andare al lavoro in bicicletta in primavera, magari accontentandosi di una settimana di ferie in Romagna anziché volare per 12 ore verso paradisi tropicali lontani. Perché sempre tardi sarà quando le emissioni verranno soppesate anche in base alla loro priorità e indispensabilità, anziché solo per settore produttivo: un chilo di CO2 emesso per produrre cibo non può essere infatti equiparato a un chilo di CO2 emesso per farsi un giro domenicale al lago solo perché a casa ci si annoia, oppure per illuminare a giorno un casinò di Las Vegas consumando una quantità di energia pari a quella utilizzata da certi Paesi africani. Una maggiore equità di valutazione, questa, che servirebbe magari anche per intaccare quella rugginosità comportamentale e sociale che è forse la più subdola complice del cambiamento climatico stesso.

Perché parlare e denunciare è sempre facile, modificare le macrodinamiche globali un po’ meno. Prova ne è lo scellerato Green Deal europeo, quello che con il suo Farm2Fork aumenterà al 25% la superficie continentale a biologico (triplicandola) e si propone di convertire il 10% delle attuali superfici agricole dando loro più finalità ambientali e paesaggistiche che produttive.

Ergo, compreremo più cibo da quei Paesi che hanno emissioni più alte per unità prodotta, aggiungendo a queste anche quelle necessarie per il trasporto intercontinentale delle merci. Quando nel vostro piatto ci sarà pasta fatta con grano uzbeko anziché italiano, sappiatelo: state inquinando più di prima, non meno. Anche e soprattutto se quel grano è dato per biologico o “antico”. Se infatti devo coltivare il doppio o il triplo della terra per produrre la stessa quantità di cibo, le emissioni salgono, mica scendono. Un conto semplice e immediato che però non compare praticamente mai sui media italiani ed europei, da tempo proni ai proclami pseudo-ecologisti dell’ineffabile Ursula Von Der Leyen. Il tutto, ignorando bellamente le posizioni di scienziati ai cui occhi i nuovi orientamenti appariamo giustamente ipocriti se non addirittura folli.

Noi Europei potremo quindi vantarci col mondo di essere divenuti più Green, salvo aver causato un innalzamento globale delle emissioni solo per soddisfare quello spocchioso atteggiamento pseudo ecologista che anziché aiutare a risolvere i problemi li sta aggravando sempre più, raccontando favole, vendendo illusioni e moltiplicando bugie, supposte a fin di bene quando invece sono tutt’altro.

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Fiumi e laghi lombardi: gli inquinanti silenziosi

Molteplici gli inquinanti in fiumi e laghi lombardi, ma la stampa sa parlare solo di glifosate

Solventi, idrocarburi, ftalati, fluoruri, metalli pesanti e persino farmaci a uso umano nelle acque superficiali lombarde, ma i media generalisti sanno parlare solo di “pesticidi” e, soprattutto, dell’erbicida glifosate

Non c’è verso: escono dei dati ufficiali, prodotti da agenzie pubbliche, e la stampa generalista si scatena contro gli agrofarmaci utilizzati in agricoltura. Uno su tutti glifosate, eletto a totem maligno da abbattere in nome della salute pubblica e dell’ambiente.

A una lettura più attenta dei dati, nella fattispecie quelli di Arpa Lombardia riferiti al 2019 (un file xls di proporzioni bibliche: 305.726 righe), si apprende come gli scenari siano molti diversi da quelli narrati. Peraltro v’è una grossa differenza fra cioè che si cerca e ciò che si trova. Se alcune molecole le cercherò sempre e altre mai, non v’è da stupirsi che poi la percezione della popolazione venga polarizzata su alcune ben specifiche sostanze, ignorando l’esistenza di molte altre. Altre che, per somma ironia, sono prodotte soprattutto dalla cittadinanza stessa nelle loro case o nei luoghi dove lavorano, anziché dagli agricoltori nei propri campi.

Per esempio v’è una molecola particolarmente rinvenuta nelle acque, al pari di glifosate ma circa 20 volte più tossica dell’erbicida (Fonte: Emea), ma di cui non compare menzione sulle pagine dei giornali, troppo assorbiti dalle loro crociate anti-pesticidi. Trattasi di diclofenac, un antinfiammatorio di ampio utilizzo che nel 2019 è stato trovato in fiumi e laghi per 371 volte contro le 321 di glifosate, quindi 50 volte in più. Simili anche le concentrazioni, partendo per entrambi da un minimo di 0,03 microgrammi per litro (limite di rilevabilità analitica) fino a un massimo di 4,6 µg/L per diclofenac e 4,8 per glifosate. Simile anche la media, con circa 0,2 µg/L per l’antinfiammatorio e 0,23 per l’erbicida. Quindi un’impronta ambientale del tutto sovrapponibile, con tutto il peso degli insulti mediatici spostato però sul solo glifosate e un imbarazzante silenzio tombale sul farmaco.

C’è poi una soglia di Legge che spesso viene usata come discrimine per allarmare la popolazione e fare indignare l’opinione pubblica: lo 0,1 µg/L stabilito nel 1980 Direttiva 80/778/CEE per le acque potabili. Al di là di quanto sia fuori luogo utilizzare il limite per le potabili come riferimento per le superficiali, a meno vengano utilizzate per alimentare gli acquedotti, tale limite non ha alcun senso neppure dal punto di vista tossicologico. Per quanto possa sembrare assurdo (e lo è!) tale soglia non è frutto di alcuna valutazione scientifica, bensì è stato affibbiato agli agrofarmaci così, de botto, senza senso. Non a caso vi sono limiti molto superiori per inquinanti molto peggiori, tipo l’arsenico, con 50 µg/L (500 volte gli agrofarmaci), mentre cadmio e mercurio segnano rispettivamente 5 e 1 µg/L, cioè 50 e 10 volte tanto il limite per i cosiddetti “pesticidi”. Per gli idrocarburi il valore è pari a 10 µg/L: cento volte di più.

Oggi, per ironia della sorte, sarebbero anche disponibili nuovi indicatori per le acque potabili, individuati tramite apposite formule basate su dati tossicologici ufficiali, specifici molecola per molecola. Un approccio già utilizzato più volte dall’Oms, per esempio. Tali indicatori potrebbero benissimo essere utilizzati quali veri limiti di confidenza tossicologica, lasciando all’attuale soglia di Legge il ruolo di mero obiettivo di qualità cui tendere, anziché utilizzarlo come soglia oltre la quale si paventano danni sanitari quando così affatto non è.

Peccato si tema nessuno vorrà mai ammettere che per oltre 40 anni abbiamo penalizzato un intero comparto, quello dei prodotti per la difesa delle colture, terrorizzando per giunta la popolazione senza motivo. Quindi tali nuovi indicatori, “Risk & Science based” resteranno quasi sicuramente nel cassetto. Visto mai che qualche matto s’azzardi a utilizzarli…

Scarica il dossier sui limiti di confidenza tossicologica per gli agrofarmaci

Provate a pensare con quale faccia i normatori potrebbero infatti presentarsi oggi al pubblico e ammettere che in realtà le soglie da considerare sicure sono da centinaia a migliaia di volte quello sciagurato 0,1 µg/L assegnato a capocchia in illo tempore. Mi vedo già i titoli sui giornali: “I pesticidi resi potabili per Legge!”. I delinquenti della disinformazione, si sa, non si pongono mai confini deontologici.

Quindi dovremo ancora fare i conti con tale irrazionale valore, vedendolo utilizzare da ogni sciacallo mediatico come una scure contro l’agricoltura. Ok, va bene: allora guardiamo cos’altro supera quel limite senza che alcuno si prenda la briga di parlarne.

Acque: l’ospite che non ti aspetti

Il succitato parallelismo tra diclofenac e glifosate può toccare anche il suddetto limite, con l’antinfiammatorio che lo supera per 175 volte contro le 178 volte dell’erbicida. Ovviamente, diclofenac non è tenuto a rispettare alcun limite nelle acque. La normativa, cioè, non si preoccupa di fissare soglie specifiche per tali sostanze. Eppure, come detto, una sostanza attiva come diclofenac risulta avere una LD50 su ratto (tossicità acuta) circa 20 volte più alta di glifosate, per non parlare di altri antinfiammatori comunemente usati che mostrano anch’essi valori di alcune decine di volte più alti dell’erbicida descritto sempre come “monstre”. Ovviamente, non si potrebbe parlare di pericolo per la salute umana, visto che tali farmaci li assumiamo a dosi terapeutiche, cioè migliaia di volte più alte di quelle rinvenute nelle acque. Ma forse servirebbe inquadrarne la presenza in ottica ambientale, perché pesci, crostacei e altri organismi acquatici mica sono consumatori abituali di farmaci e sarebbe meglio restassero così.

A conferma, i farmaci umani nelle acque ci sono e spesso sono predominanti per numero e concentrazioni rispetto alla quasi totalità dei “pesticidi”. Basti pensare che in Spagna ben 43 differenti farmaci sarebbero stati rinvenuti nel fiume Ebro che scorre lungo la Catalogna(1). Sostanze giunte alle acque fluviali a seguito di escrezione fecale o urinaria da parte dei pazienti che li assumevano.

Una presenza confermata anche più di recente da alcune ricerche svoltesi in Inghilterra(2) dalle quali sarebbero emersi 56 differenti sostanze attive contenute in una specie di crostaceo d’acqua dolce, il Gammarus pulex. Al fianco delle tracce di alcune sostanze attive impiegate nella difesa delle colture, come oxamyl, propazina, acetamiprid e thiacloprid, sono state rinvenute per la quasi totalità molecole afferenti alla farmacopea umana.

Quasi il 90% delle sostanze presenti nei gamberetti erano infatti diuretici come l’idroclorotiazide, o antidepressivi come alprazolam, diazepam, citalopram, clorazepam, affiancati da un antidolorifico come il tramadol, un antistaminico come la difenidramina, o stimolanti come il 4-fluoromethcathinone e perfino la cocaina, sostanza da abuso. Non mancano molecole comunemente usate dagli asmatici come il salbutamolo, avente anche parziale effetto anabolizzante e pertanto iscritto nelle liste dell’antidoping, oppure la lidocaina e perfino la ketamina, anestetico dissociativo.

Sempre riguardo ad alcune pessime abitudine personali, come l’assunzione di sostanze stupefacenti, pure queste avrebbero ricadute sulle acque, come evidenziato dall’Istituto Mario Negri di Milano che avrebbe rinvenuto cocaina perfino nel fiume Po(3).

Ricerche come quella inglese o quella spagnola dimostrano che gli agrofarmaci sono solo una frazione minoritaria dell’ammontare complessivo delle contaminazioni delle acque. Bene sarebbe quindi realizzare specifici dossier anche per altre categoria di prodotti, in modo da informare la cittadinanza sulle conseguenze per l’ambiente delle loro cure sanitarie, per esempio. Forse in tal modo comprenderebbero che tra un antidepressivo assunto per curare se stessi e un antiperonosporico applicato per proteggere la vite, concettualmente, non v’è una grande differenza. E magari non si sentirebbe più, il cittadino, nell’arrogante posizione di pretendere il bando solo per le molecole usate dagli agricoltori, illudendosi in tal modo di salvare il Mondo. Sentirsi invece tutti sulla stessa barca, si spera, dovrebbe migliorare la percezione di sé e degli altri nei confronti dell’ecologia. Per lo meno acquatica.

Ampa: metabolita con più padroni

Glifosate è spesso attaccato anche per il fatto che produce un metabolita chiamato Ampa. Questo è stato rinvenuto nelle acque superficiali per ben 846 volte, con un picco di 40,9 µg/L e una media di 1,22. E per 700 volte Ampa è risultato superiore al fatidico 0,1 microgrammi.

Ciò dovrebbe aprire qualche perplessità circa l’origine di tale sostanza, visto che è stata rinvenuta 2,6 volte più spesso di glifosate. In sintesi, Ampa sarebbe stato rinvenuto nel 62% dei casi senza che insieme vi fosse anche glifosate. Peraltro, l’erbicida non ha mai mostrato concentrazioni comparabili a quelle di Ampa. Qualcosa non quadra quindi. E la spiegazione è semplice: Ampa deriva anche da detersivi di comune utilizzo civile e industriale, finendo nelle acque tramite gli scarichi anziché dai campi coltivati.

Peccato che tale evidenza non sia mai comunicata dai media, facendo ritenere glifosate l’unico responsabile della presenza di Ampa nelle acque. Per fare disinformazione, infatti, non basta raccontare alcuni aspetti per come ci pare, bensì serve anche omettere le informazioni che permetterebbero ai cittadini di comprendere come stiano davvero le cose.

Inquinanti: c’è di tutto un po’

Gli agrofarmaci, stando sempre alle tabelle di Arpa Lombardia per il 2019, sarebbero stati rinvenuti numerosi, vista l’estrema eterogeneità delle colture lombarde e, quindi, l’eterogeneità delle sostanze impiegate. Peccato, o per fortuna, siano stati trovati quasi tutti e quasi sempre in tracce modeste, restando per gran parte sotto il famigerato 0,1 µg/L e sforando raramente il singolo microgrammo per litro.

Al loro fianco, invece, nelle acque lombarde vi sarebbero molti altri inquinanti come per esempio solventi, ftalati, idrocarburi policiclici aromatici, bisfenolo A, fluoruri, vari metalli pesanti e arsenico, contenuti spesso a concentrazioni molto maggiori degli odiati “pesticidi”.

Nota bene: l’arsenico risulta sempre in tabella con un valore minimo di 1 µg/L. Cioè, anche il suo valore più basso riportato è 10 volte superiore al limite per gli agrofarmaci, pur essendo l’arsenico più tossico della quasi totalità dei “pesticidi”. Ma, come abbiamo visto, la Direttiva europea del 1980 lo ha graziato con un limite 500 volte più alto.

L’arsenico sarebbe stato trovato per ben 1.234 volte, toccando il picco di 54 microgrammi per una media di poco inferiore a 3. Si teme che se venisse applicato all’arsenico il medesimo limite dei “pesticidi” si perderebbe il conto degli acquedotti che andrebbero chiusi. Invece, essendo elemento naturale e ampiamente presente nelle acque, verso di esso è stato necessario adottare una politica morbida. Perché va bene la salute umana, ma senza acqua nelle case i cittadini potrebbero anche arrabbiarsi un filo. Inutilmente, peraltro, perché se hai la iella di avere in zona molto arsenico nelle acque, non te la puoi mica prendere con nessuno se non con la natura stessa, tranne particolari casi di inquinamento puntiforme.

Che i lettori di questo articolo traggano quindi le proprie conclusioni su certi titoli apparsi sui giornali, sia cartacei, sia nel web, con “pesticidi” e, soprattutto, glifosate sbattuti alla gogna basandosi sul nulla, quando va bene, e storpiando perfino i risultati di alcune ricerche scientifiche quando va male, come fatto da La Repubblica con uno studio dell’Università di Milano:

Avvelenamenti delle acque da glifosate? No: mero clickbait

Un comportamento che sempre più avvelena sì, ma solo l’opinione pubblica.

Bibliografia

1) Bianca Ferreira et Al. (2011): “Occurrence and distribution of pharmaceuticals in surface water, suspended solids and sediments of the Ebro river basin, Spain”. Chemosphere, Volume 85, Issue 8, November 2011, Pages 1331-1339; http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0045653511009040

2) T. Miller et al. (2019): “Biomonitoring of pesticides, pharmaceuticals and illicit drugs in a freshwater invertebrate to estimate toxic or effect pressure“. Environment International, Vol. 129, Aug. 2019, pag. 595-606. https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0160412019307160

3) Ettore Zuccato et Al. (2005): “Cocaine in surface waters: a new evidence-based tool to monitor community drug abuse”. Environmental Health 2005 4:14. https://ehjournal.biomedcentral.com/articles/10.1186/1476-069X-4-14

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Agricoltura intensiva: sinonimo del Male o solo agricoltura moderna?

Viene chiamata con disprezzo “intensiva”, quando è invece il baluardo della nostra sicurezza alimentare

L’agricoltura intensiva è brutta e cattiva a prescindere, come sostengono ambientalisti, biologici e altre associazioni a questi affini, come per esempio Slow Food? Oppure è la forma di agricoltura più sostenibile attualmente possibile?

Non c’è verso: quando qualcuno vuole denigrare l’agricoltura parte affibbiando un’accezione dispregiativa al termine “intensiva“. Quasi che nell’intensità di qualcosa vi debba per forza essere qualcosa di brutto. Certo, se si parla di un terremoto magari è così, ma ci sono anche altre situazioni ove il ribaltamento della percezione “positivo-negativo” appare figlio unicamente di preconcetti ideologici o di interessi di parte. Interessi pecuniari neanche tanto invisibili che spesso abbondano in quelle lobby che considerano bieco l’aspetto economico solo quando il profitto sia quello degli altri.

Intanto, cosa si intende per intensivo? Di certo non quello che diffonde Carlo Petrini di Slow Food, quando intervenendo nel dibattito sull’agricoltura biodinamica dispensa alcune delle sue molteplici perle ideologiche, ovvero quella per la quale i biologici (supposti buoni) sarebbero soggetti a una molteplicità di controlli, mentre invece quelli che “usano i pesticidi a manetta” (gli “intensivi”) non soggiacerebbero a controllo alcuno.

Trattasi di Petrini, quello che da decenni propina chicche del genere, oggi contro la chimica, domani contro gli ogm, dopodomani contro gli allevamenti che non siano quelli che piacciono a lui. Non dovrebbe quindi stupire più di tanto: Slow Food è diventato una potenza esaltando le piccole produzioni di nicchia e le varie forme di agricoltura che di fatto sono decisamente poco produttive, spacciando poi questa improduttività per sostenibilità. Ovvio che anche nel caso dei “pesticidi a manetta” affermi cose che non corrispondono al vero. E vedremo presto perché, partendo da una disamina dei due differenti approcci colturali, bio e non.

I Bio sono davvero quelli “buoni”?

In primis, i biologici non sono affatto i “buoni” a prescindere che vengono presentati. Tranne pochi sognatori intimamente convinti di ciò che fanno, per lo più sono imprenditori che ben lungi dall’essere angeli della salute e dell’ambiente hanno aderito ai disciplinari bio solo per spuntare qualcosa di meglio alla vendita dei prodotti.

Poi, però, di fronte alle tante difficoltà oggettive di mantenere le promesse fatte ai consumatori, in molti mollano, come per esempio certi viticoltori veneti bio che stanno lasciando il protocollo soprattutto a causa dell’impossibilità di controllare la Flavescenza dorata. Una patologia letale per la vite, questa, che si può al momento controllare solo sterminando il suo vettore, lo Scafoideo, un insetto. E di insetticidi sufficientemente efficaci in tal senso il bio non ne ha, dal momento che non basta ammazzarne parecchi: bisogna ammazzarli tutti, o qualcuno di essi il fitoplasma lo trasmette comunque rendendo pressoché inutili i trattamenti, per giunta costosi.

Inoltre, attenzione: per la Xylella degli olivi, veicolata anch’essa da una cicalina parente dello Scafoideo, i bio stanno pure peggio, visto che vi sono solo due prodotti al momento autorizzati: uno contiene estratto di piretro (consulta l’etichetta per vedere il profilo del prodotto), l’altro è a base di olio essenziale di arancio dolce (consulta l’etichetta per vedere il profilo del prodotto). Giudicate voi come siamo messi.

Ecco alcuni dei (vari) motivi per i quali molte aziende stanno abbandonando la certificazione bio, non solo nelle aree viticole citate, bensì un po’ in tutta Italia (Leggi l’analisi di Sinab). Un fenomeno che cozza quindi con gli obiettivi del Green Deal di portare le superfici agricole europee al 25% a biologico, praticamente triplicando i valori attuali. Forse perché la sostenibilità del bio è molto presunta, ma poco reale? Chissà.

E quelli che abbandonano sono quelli onesti, che pur di non fare porcate mollano e tornano all’agricoltura integrata, cioè quella che se fatta con scrupolo bagna il naso al biologico nella quasi totalità dei casi, presentando gli impatti minori per unità di cibo prodotta.

Molti altri, decisamente orientati più alla furbizia che alla coerenza, sfruttano invece – e sapientemente – le molteplici eccezioni che il protocollo prevede, come per esempio la possibilità di seminare semente non certificata bio in caso di una certa varietà non se ne trovi di certificata. E se la semina, primo atto vitale del processo produttivo, deve contare sulla semente prodotta dai “biechi intensivi“, già si dovrebbe comprendere quanto l’intero impianto crolli agli occhi di chiunque sia dotato di un minimo senso critico. Perché per produrre quella semente sono stati utilizzati “pesticidi” e concimi chimici, quindi esattamente quello che i bio si vantano di osteggiare, salvo poi utilizzarli anche loro per interposta persona.

Ipocriti.

Stesso discorso per i concimi: molti di questi, organici, provengono in gran parte da materie di partenza derivanti da agricoltura “intensiva”, divenendo però utilizzabili in bio grazie a una sibillina frase che include le parole “allevamenti industriali” come peste da evitare. Cosa di preciso voglia dire la parola “industriale” non si sa. Un basso livello di benessere animale? Allora siamo a posto, perché la maggior parte degli allevamenti “intensivi” rispetta le attuali leggi sul tema, sfuggendo in tal modo dal concetto di “industriale”. E ciò permette quindi a un sacco di coltivatori bio di utilizzare concimi organici provenienti da agricoltura “intensiva”, direttamente o indirettamente, in tutto o in parte.

Ipocriti.

Terzo: la certificazione bio avviene a pagamento. Cioè è una compravendita dove il controllore è pagato dal controllato. Gli enti di certificazione sono infatti fornitori e gli agricoltori clienti. Un po’ difficile pensare che il vigile multi volentieri l’automobilista che gli paga direttamente lo stipendio, da privato a privato. Brutte sorprese potrebbero infatti giungere in caso i controlli dovessero passare a terzi indipendenti, come avviene a carico degli agricoltori che seguono invece i protocolli di difesa integrata (si dice così ormai da un pezzo, cari i miei cultori delle terminologie vintage).

Ipocriti.

Quarto: ogni due per tre si scopre qualche malghino, tipo utilizzare agrofarmaci e fertilizzanti non ammessi in bio, oppure comprare sul mercato aumma-aumma prodotti non bio, farli entrare dalla porta di dietro come tali, salvo poi farli uscire il giorno dopo da quella davanti col bollino bio sopra. Tutti esempi tratti non a caso, in quanto la cronaca periodicamente se n’è occupata in passato e continua a occuparsene nel presente, pur dovendo ammettere che a cadere sotto le verifiche è ovviamente la punta dell’iceberg, esattamente come per ogni altra azione illegale del Mondo. Ciò dovrebbe fare anche meditare sui reali livelli di produttività del biologico, probabilmente molto inferiori a quelli ufficiali dichiarati. Per non parlare poi delle certificazioni farlocche emerse più volte ai controlli nei porti su intere navi in ingresso in Italia, cariche di merci ufficialmente bio ma in realtà ben altro.

Alcuni comodi esempi di cronaca qui, qui, qui, qui, qui, qui e qui. E mi fermo perché son stufo.

Ipocriti.

Quinto: usare fiumi di gasolio pur di non utilizzare un diserbante non è il Bene che sconfigge il Male, è solo un male necessario che si propone come alternativa di un altro male necessario.

Ipocriti.

Sesto: da luglio 2018 oltre 3.300 varietà coltivate sono state classificate ogm dalla Corte di Giustizia europea. Cioè quelle varietà ampiamente utilizzate, anche dal biologico, che sono state ottenute per mutagenesi tramite radiazioni o sostanze mutagene (una sintesi qui). Quindi, continuare a sostenere di non utilizzare ogm è ormai una bugia insopportabile.

Ipocriti.

Ergo, con quanto sopra elencato, appare difficile sdoganare l’immagine di agricoltori buoni, quelli bio, a confronto con una manica di amanti dei “pesticidi”, ovvero i non bio. Ma andiamo a vedere questi ultimi cosa fanno, perché esistono e perché non sono affatto il male perennemente descritto.

Il physique du rôle del cattivo. Ma che davèro?

Io non sono cattiva, mi disegnano così…” diceva Jessica Rabbit, la fatalona del film misto d’animazione “Chi ha incastrato Roger Rabbit?“. Infatti era innocente, sebbene ogni indizio gravasse su di lei. Quindi, gli agricoltori che seguono protocolli di agricoltura integrata, bollata spregiativamente per “intensiva”, sono davvero cattivi, o solo li disegnano così?

In primis, spieghiamo il perché si è passati da un’agricoltura fondamentalmente di sussistenza a una altamente specializzata e produttiva.

Nell’ultimo secolo in Italia si è dimezzata la superficie coltivabile e la popolazione è salita da 38 a 60 milioni. In sostanza, abbiamo ormai poco più di 2.000 mq di superficie coltivabile a testa contro gli oltre 6.300 di un secolo fa. Una riduzione di quasi il 70% dei terreni coltivabili che dovrebbe spaventare molto i cittadini, specialmente quelli che reclamano cibo italiano. Ergo, calando le superfici disponibili e aumentando la domanda alimentare, ogni metro quadro di terra deve produrre la quantità maggiore possibile di cibo. Ogni altra soluzione è pertanto sbagliata a prescindere, in quanto obbliga a gonfiare le già abbondanti importazioni dall’estero, con le conseguenze tipo quella dell’ossido di etilene contenuto in partite di alimenti provenienti dall’India e che hanno contaminato diversi prodotti, bio inclusi. Uniche eccezioni, il vino e alcuni specifici prodotti tipici: lì la quantità è comunque subordinata a una qualità obbligatoriamente superiore. Ma diciamocelo: se dalle tavole dovessero scomparire pane e verdura sarebbe molto peggio che se scomparissero vino e formaggi Dop. Buoni eh? Redditizi eh? Ma non certo indispensabili. E a me non è che aggradi molto bere un italico vino Docg, dovendolo però accompagnare a del cibo importato per tre quarti dall’estero perché di quello italiano non siamo più in grado di produrne abbastanza.

Come dite? Sprechiamo cibo quindi è inutile produrne così tanto? Eccovi serviti con una spiegazione facile facile sulla fallacia di tale approccio.

Altro punto: mentre un secolo fa eravamo in buona parte contadini, a coltivare i campi oggi sono rimasti quattro gatti. Sebbene questi abbiano la metà della terra da coltivare rispetto ai loro bisnonni, agli attuali agricoltori se venissero tolti concimi chimici, sementi selezionate, agrofarmaci e macchinari evoluti, non resterebbe altro da fare che cambiare mestiere, lasciando gli Italiani a contendersi a colpi d’ascia i pochi presidi Slow Food ancora rimasti nei negozi con le ragnatele al soffitto. Perché a chiedere di abolire si fa presto, a comprenderne le disastrose conseguenze molto meno. Oppure basta decidere di importare quasi tutto dall’estero, bio incluso, e lasciare andare a ramengo l’agricoltura italiana. Son scelte…

Ma proseguiamo con un’altra stupidaggine caduta fuori dalla bocca di Petrini: i controlli per gli agricoltori “intensivi” non ci sarebbero? Ma quando mai. Ormai anche gli agricoltori non bio sono soggetti da anni a una mole burocratica asfissiante, con gli acquisti di prodotti chimici legati a uno specifico patentino, registri di carico scarico, magazzino, quaderni di campagna, registri dei trattamenti, documenti di acquisto e di vendita, come pure protocolli rigidissimi (spesso demenziali) imposti loro dalle industrie alimentari e dalla grande distribuzione organizzata. Se li rispettano, bene, prendono i quattro soldi che gli offrono e tirano a campare. Se non li rispettano… ciao. Quindi no: i controlli ci sono e anche severi, altro che.

Dal punto di cui sopra vien da sé come tali agricoltori non usino affatto i pesticidi “a manetta”, espressione che personalmente trovo disgustosa e maramalda. Dal 1990 a oggi l’uso dei “pesticidi” è infatti diminuito del 43,7%, con il 70% delle sostanze attive utilizzate fino alla fine degli Anni 80 che sono state eliminate tramite il processo della Revisione Europea, causando anche seri problemi ai produttori da tanto severo e frettoloso è stato questo processo. Oggi gli agricoltori italiani usano circa un chilo di sostanze attive per ogni abitante. In sostanza, con solo un chilo di agrofarmaci, distribuito da Bressanone a Ragusa, si sfama un Italiano per un anno. Chi quindi vi vuole far credere che gli agricoltori italiani usino “pesticidi a manetta” vi sta raccontando una balla. (Qui la spiegazione)

Inoltre, le campagne di monitoraggio dei residui sugli alimenti confermano anno dopo anno che la quasi totalità dei prodotti sono nei limiti di Legge, valori questi da ritenersi del tutto sicuri per la salute. (Qui la spiegazione). Chi però non concordasse su tale affermazione, prego, vada pure a Parma e protesti con gli esperti di Efsa che sostengono tale posizione.

Come dite? I “pesticidi” sono presenti nelle acque? Certo, cari i miei sedanoni, come sono presenti i “vostri” idrocarburi, le “vostre” microplastiche, i “vostri” metalli pesanti e perfino i “vostri” medicinali. Quelli che assumete con estrema disinvoltura (alcuni sì a “manetta”) salvo poi pisciarli nel water e farli finire in tal modo nei fiumi.

Cioè nelle acque finisce tutto quello che serve per farvi lavorare e vivere in modo confortevole, incluso permettervi di comprare cibo bio convinti di salvare il Mondo. E nel frattempo, in acqua ci finisce tanta di quella roba al cui confronto i “pesticidi” diventano solo una delle tante e neanche la principale, visto che le concentrazioni rinvenute sono quasi tutte al di sotto delle soglie alle quali potrebbero essere nocive per gli organismi acquatici. Nell’acqua potabile manco a parlarne: se pensate che dai vostri rubinetti esca veleno fluorescente, potete stare sereni e mandare a stendere tutti quei terroristi di mestiere che vi hanno fatto credere una scempiaggine del genere.

Vero: anche tra gli agricoltori non bio ci sono dei veri e propri delinquenti. Tipo quelli che smaltiscono fanghi illegali nei propri campi. Ma i delinquenti sono ovunque e se i bio si ammazzano di spiegazioni nel tentativo di far passare i propri di manigoldi come rarissime pecore nere, non si vede perché ciò non debba valere anche per tutti gli altri. E in tal caso sì che sono davvero poche, le pecore nere.

Ergo: l’agricoltura definita spregiativamente “intensiva” è quella che vi dà da mangiare cibo sicuro e a prezzi accessibili per 12 mesi l’anno. Non usa la chimica a “manetta”, segue anch’essa protocolli rigidi ed è pesantemente sobbarcata da burocrazie e controlli sfinenti.

In più, è mica colpa dei pochi agricoltori rimasti se la gente si è trasferita in città, lasciando a coltivare la terra un manipolo di vituperati soggetti, i quali per stare dietro alle dinamiche della domanda e dell’offerta di cibo hanno dovuto in fretta abbandonare molte delle pratiche antiche, come le trasemine, alcune rotazioni, l’allevamento di animali per procurarsi cibo e letame, etc.

Si chiama specializzazione colturale, perché se a coltivare 300 ettari siamo rimasti in due, dobbiamo fare delle scelte ben precise, altrimenti non ci stiamo dietro e dai nostri campi esce meno cibo di quello che potremmo produrre. E in tal caso voi ne comprate di importato, senza forse nemmeno comprendere il danno fatto al vostro stesso Paese.

Ergo, state alla larga da boriosi guru laureati in lettere, storia, architettura o scienze politiche (o aspiranti tali), ma che si piccano di parlare di agricoltura. Come pure diffidate dei sedicenti studiosi che raccontano bucoliche panzane dalle loro cattedre decisamente immeritate. L’agricoltura per andare avanti non può certo voltarsi indietro. Gli “antichi saperi contadini”, tanto romantici quanto anacronistici, non servono ormai più a mezzo tubo, visti la drammatica metamorfosi degli scenari agrari dell’ultimo secolo. A meno di declinarli in chiave moderna, magari utilizzando quelle biotecnologie che, ipocritamente, il bio ancora osteggia.

Se lo si capisce, bene. Altrimenti c’è sempre il resto del Mondo intorno a fregarsi le mani per tutto il cibo che, loro, manderanno a noi. Ossido di etilene incluso.

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