Né cancerogeno, né mutageno, né tossico per la riproduzione. Glifosate piace alla scienza: la conferma di Echa

Gli esperti di Echa confermano i pareri di Efsa, Oms, Fao, Epa e di un’altra quindicina di Autorità di regolamentazione nel mondo

L’Agenzia europea per la chimica valuta migliaia di studi sull’erbicida e decreta quanto già si sapeva da anni: non va messo negli occhi e non va buttato a secchiate nei fiumi

Glifosate continua a occupare centinaia di scienziati ed esperti in ogni continente del Globo. Soprattutto in Europa il lavoro è divenuto frenetico, poiché a fine 2022 inizierà il processo di valutazione sul rinnovo dell’erbicida a livello continentale. Quindi le truppe cammellate dell’associazionismo chemofobico stanno già muovendo da tempo le proprie postazioni di artiglieria per demolire l’obiettivo che si sono ormai date da anni: fare bandire glifosate dal Vecchio Continente, senza se e senza ma.

Peccato che tutti gli organi preposti alla valutazione degli agrofarmaci concordino nel dire che non sussistano prove esaurienti a sostegno delle accuse mossegli, ovvero di essere cancerogeno, tossico per la riproduzione, mutageno e nocivo per gli organi interni. Tutte accuse, queste, nate dall’impegno sistematico di discutibili gruppi di ricerca, sedicenti indipendenti, che hanno profuso sforzi per dimostrare a tavolino certi effetti, quando di tali effetti nella vita reale non v’è traccia.

Leggi l’approfondimento:

Glifosate: primo ok (scientifico) al rinnovo

Purtroppo, a fronte di migliaia di studi accumulatisi nel tempo, non solo prodotti dalle industrie, bensì anche da ricercatori anch’essi indipendenti, bastano poche ricerche sviluppate ad hoc per tenere acceso il dubbio che glifosate sia un mostro in Terra, sperando che grazie a tale fuoco di sbarramento l’erbicida venga bandito dalla politica europea.

Dalla politica, si badi bene, non dalla scienza. Poiché quest’ultima l’ha già promosso più e più volte a livello europeo, tramite le nostre maggiori autorità scientifiche di valutazione (Echa, Efsa, Bfr, Anses… etc). Pure è stato promosso da ogni altra agenzia di regolamentazione mondiale, dal Canada al Giappone, dall’Australia al Brasile, dalla Nuova Zelanda agli Stati Uniti. A queste si sono aggiunte Oms e Fao, per giunta.

Solo la Iarc, si ostina a classificare cancerogeno l’erbicida, in base a studi epidemiologici che definire fragili è già esser molto buoni. A questi sono stati aggiunti studi su modello animale (cavie di laboratorio) che hanno solo dimostrato che di erbicida ne occorre una montagna perché in qualche ratto si sviluppi un tumore. Il tutto, dopo mesi e mesi di abboffate di glifosate con la dieta. Prove che per come sono state impostate dimostrano semmai l’estrema sicurezza di questa sostanza attiva per la salute umana.

Leggi l’approfondimento:

Iarc contro il resto del mondo

Oggi arriva l’ennesimo parere positivo dell’ennesima agenzia di valutazione scientifica europea, l’Echa, ovvero l’Agenzia europea per la chimica. Là dentro ci lavorano centinaia di esperti di più nazioni. Gente che ha fatto della scienza la propria professione e che lavora da sempre sotto i riflettori dei media e dell’associazionismo più becero. Quindi se e quando parla lo fa dopo aver valutato ogni prova a disposizione fino all’ultimo capello.

Il suo giudizio è che no, glifosate non ha alcun bisogno di rivedere l’attuale classificazione tossicologica: provoca lesioni agli occhi (per forza, ha reazione acida…) come pure ha dimostrato di essere nocivo per alcuni organismi acquatici in diversi test di laboratorio. Due caratteristiche comuni a centinaia di altri formulati fitosanitari, di cui svariate decine autorizzati pure in agricoltura biologica.

Quindi glifosate non è, si ripete, non è cancerogeno, né mutageno, né tossico per i processi riproduttivi, né intacca specifici organi.

Leggi l’approfondimento:

Echa su glifosate: attenzione a occhi e acque, ma non è cancerogeno

No: glifosate non va bevuto, né ci si condisce l’insalata

Non appena è circolata la notizia sui social si è ovviamente scatenata la ridda di analfabeti funzionali e di “furbetti del biologichino” che hanno sbeffeggiato Echa e le documentazioni utilizzate per la sua valutazione.

Niente di nuovo: puntuale, arriva l’esercito di imbecilli che crede di essere originale e spiritoso scrivendo che allora ce ne si può anche bere un cicchetto, di glifosate. Oppure che ci si può condire l’insalata. Gente strana, questa. Gente che forse beve la candeggina con cui disinfetta il water, o che insaporisce l’insalata con lo shampoo antiforfora. Personaggi tendenzialmente rozzi nei contenuti e ignoranti nel modo di esprimersi, spesso usando un italiano men che approssimativo e ricorrendo come unica arma dialettica al discredito e al dileggio delle multinazionali (spesso sono anche no-vax mica per caso) e delle Autorità di regolamentazione (spesso sono anche no-vax mica per caso, repetita juvant).

Personaggi che ritengono più attendibili gli svagelli psichedelici di soggetti come Stephanie Seneff, bizzarra ricercatrice informatica del Mit di Boston che ha elaborato teorie anti-glifosate perfino in tema di covid-19 (spesso sono anche no-vax mica per caso, repetita juvant – bis).

Gente che, gratta gratta, propugna forme di agricoltura che somigliano più agli scenari di quando eravamo cacciatori-raccoglitori e vivevamo dei pochi frutti che la Natura ci metteva a disposizione. Nel senso che mica ce li regalava magnanimamente: dovevamo sudare e rischiare molto per strappare qualche bacca e una bistecca di mammut. E vivevamo trent’anni. Gente che quindi è pure socialmente pericolosa, poiché se giungesse al potere si avrebbero conseguenze devastanti, come accaduto per esempio in Sri-Lanka:

Agricoltura biologica, disastri annunciati e utili idioti

Purtroppo, di tali soggetti ne sono già arrivati perfino in Parlamento, il più delle volte grazie all’idiozia dell’uno che varrebbe uno. Folle approccio demagogico che ha permesso di approdare a Camera e Senato a decine di bifolchi sfaccendati e di mezzi matti che non sanno fare una “O” col bicchiere, ma che hanno il potere di promuovere ogni idiozia giunga loro sulla scrivania, o di bocciare qualunque proposta razionale per raddrizzare questo sciagurato Paese.

Ergo non vi resta che scegliere: o stare con chi la scienza la padroneggia e lavora per il bene comune, o per l’esercito di zombie pseudo-ecologisti che per mestiere o per hobby sbadilano quintali di merda nel ventilatore. Sotto, un ultimo link: a un articolo che contiene molteplici informazioni sull’erbicida. Capisco che studiare sia difficile, ma per lo meno evita di continuare a dire idiozie tipo “E allora beviteloooo!1!1!1!!

Glifosate: quel che dovreste sapere, ma che i media omettono (o distorcono)

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Agricoltura biologica, disastri annunciati e utili idioti

Come la stampa generalista tende a glissare sugli aspetti negativi del Bio

Scoppiano rivolte in Sri Lanka e la tensione sociale è alle stelle. Fallite le recenti politiche economiche e agricole del Paese, i nodi vengono al pettine anche sul tema Bio, ma la stampa pare non voler toccare l’argomento

Un articolo sul Corriere della Sera tocca il tema Sri Lanka, viste le recenti turbolenze anti governative dovute alla profonda crisi economica e alimentare del Paese. Nel pezzo si toccano molti punti salienti alla base di tale crisi, tutti corretti, ma c’è una parola che proprio non pare debba comparire nella pur ampia disamina, ovvero “biologico“.

Va infatti da sé che buona parte della rabbia popolare derivi soprattutto dalla penuria di risorse alimentari e dei prezzi che queste hanno toccato negli ultimi mesi. Di certo, il tentativo di convertire a bio tutta l’agricoltura dell’isola non è stata una genialata, come già dimostrato nel seguente approfondimento:

La dura legge della fame

Quindi, pur considerando le macro dinamiche socio-economiche e politiche dello Sri Lanka, non pare corretto omettere che gran parte della presente crisi, e della conseguente rivolta, dipende dalle scelte ottuse e anti scientifiche del Presidente e del suo governo.

Il tutto, dovrebbe insegnare che a dare retta a guru come Vandana Shiva si rischia molto. Perché alla base di certe derive politiche e agricole c’è spesso lei, la pseudo-ambientalista indiana. Non paga di quanto causato nel Sikkhim, cioè in patria, Vandana Shiva ha infatti convinto anche la politica cingalese a sposare l’agricoltura 100% Bio.

Di certo, l’eco-santona si guarderà bene dal farsi vedere nello Sri Lanka oggi. E per la sua incolumità le si sconsiglia vivamente di recarvisi. Resta da chiarire come anche qui, in Europa e in Italia, le sirene del Bio abbiano sedotto ampie porzioni della politica, vedesi le recenti trovate del Farm2Fork. Del resto, la stampa generalista, incluse certe trasmissioni sedicenti di inchiesta sempre bene ne parlano, dell’agricoltura biologica, presentando l’agricoltura moderna come “intensiva“, usando l’aggettivo in modo dispregiativo. E per chi fosse interessato a capire dove sta l’inghippo, prego:

Agricoltura intensiva: sinonimo del Male o solo agricoltura moderna?

Il dramma è che sui social e nei media generalisti imperversano anche utili idioti che ben lungi dal guadagnare dalle marchette che fanno a favore dei prodotti biologici (almeno fatevi pagare…), continuano a spargere disinformazione e fake news, rendendosi complici e partecipi di una propaganda a confronto della quale impallidisce perfino quella di Putin e Lavrov, suo ministro dall’impudenza fuori scala.

Non ci sono molti consigli da dare, salvo quello di stare alla larga da chi incensi il biologico “senza se e senza ma“, presentandolo come la panacea di tutti i mali: agricoli, alimentari, sanitari, economici e perfino ambientali.

Vi stanno raccontando una manica di baggianate e molti di loro manco capiscono l’entità delle medesime, divenendo a loro volta altri utili idioti che le moltiplicano sui social. Quindi, se proprio volete capire come stanno davvero le cose, andate a farvi un giro in Sri Lanka: quando tornerete tutto potrete diventare tranne che utili idioti al servizio della propaganda bio.

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Pesticidi, viticoltura e troppa disinformazione

Tutti addosso alla viticoltura. Ma i numeri danno loro torto

In aree viticole come il Trevigiano, patria del Prosecco, infuriano da molti anni proteste contro i cosiddetti “pesticidi”, reclamando contro un loro uso supposto “indiscriminato” e premendo a favore della viticoltura biologica, supposta meno impattante. Vediamo cosa dicono i numeri

Crociate mediatiche a tutto spiano, oggi con le fiaccolate, domani con i cortei, hanno dipinto la viticoltura come fonte di malattie inenarrabili, attribuite soprattutto ai “pesticidi di sintesi“. Una rabbia particolarmente furiosa si è poi manifestata soprattutto a danno di glifosate. Tali proteste, evidentemente, funzionano, visto che hanno di fatto portato all’esclusione di questo erbicida dai disciplinari di produzione del Prosecco Docg, facendo praticamente sparire questo prodotto dai vigneti trevigiani. Meno male? Ma neanche per idea: solo una facciata di cartapesta in ossequio al “marketing del senza“.

Che infatti le cose non stiano come paventato, per lo meno sul tema “tumori“, se n’è già fornita ampia disamina, dimostrando come in Veneto vi sia una correlazione inversa tra superfici a vigneto, usi di agrofarmaci e mortalità per tumori.

Leggi l’approfondimento:

Vigneti, pesticidi e cancri? Ma anche no…

Vediamo ora qualche dato sul tema “usi indiscriminati dei pesticidi“, perché anche su questo punto vi sono alcune sorprese. Circa gli “usi sempre più massicci di pesticidi” si è invece già fornita una specifica disamina numerica, dimostrando come tale affermazione sia di fatto una vera e propria bufala, visto che in trent’anni le tonnellate impiegate in Italia si sarebbero praticamente dimezzate.

Leggi l’approfondimento:

Più bocche, meno terre, meno “pesticidi”: la tempesta perfetta

Gli impieghi di formulati fitosanitari in viticoltura

Ai dati riportati al link sopra indicato, relativi al totale nazionale, contribuisce significativamente la viticoltura, ma solo per quanto riguarda i fungicidi. Le tabelle presenti sul sito di Istat riportano infatti anche la suddivisione degli impieghi per tipologia di prodotto e per coltura. Questa informazione di tipo settoriale è però ferma al 2016, riportando per quell’anno una superficie viticola trattata di 644.583 ettari, pari al 98,8% del totale vitato nazionale. Il numero medio di trattamenti nel 2016 è quindi stato pari a 13,59. Un dato ovviamente alquanto variabile in funzione della stagione e dell’area considerata.

Sempre per l’anno 2016 è possibile confrontare anche i dati nazionali con quelli specifici della viticoltura. Complessivamente, in tale anno la vite avrebbe rappresentato il 12,9% delle tonnellate di formulati fitosanitari applicati in Italia, segnando un valore medio di 24,8 chilogrammi per ettaro, di cui 24,3 sarebbero imputabili ai soli fungicidi. Relativamente a questi ultimi, su vite sarebbero state impiegate 15.640 tonnellate delle oltre 61mila applicate a livello nazionale.

Detta in altri termini, il 25,6% dei fungicidi utilizzati in Italia nel 2016 sarebbe stato applicato su vite. Al contrario, erbicidi e insetticidi avrebbero rappresentato meno dell’1% ciascuno. Gli erbicidi avrebbero infatti contabilizzato impieghi pari a 192 tonnellate (0,8% del relativo dato nazionale). Di queste, 159 sarebbero dovute al solo glifosate, erbicida il cui uso su vite rappresenta quindi solo lo 0,7% degli usi agricoli complessivi nazionali.

Analogamente, di insetticidi se ne impiegavano su vite solo 171 tonnellate, ovvero lo 0,8% del dato italiano complessivo. In sostanza, se per i fungicidi la vite rappresenta una quota altamente significativa delle tonnellate di formulati utilizzate in Italia, ciò non avviene per le altre tipologie di prodotto, qualificando la vite fra le colture a minor impiego a livello nazionale. Un’evidenza che dovrebbe quindi far riflettere sulle pressioni esercitate proprio sugli erbicidi, uno su tutti glifosate. I diserbi in viticoltura rappresentano infatti una quota estremamente ridotta rispetto al totale, sia a livello colturale, sia a livello agricolo generale, inducendo quindi a rivedere l’attuale percezione circa i suoi usi, decisamente sovradimensionata.

Ripartizione su vite per famiglia di prodotti

La quantità complessiva di agrofarmaci impiegati su vite nel 2016 è stata pari a 16.036 tonnellate. Su vite, come detto, sono i fungicidi a rappresentare la quota ampiamente maggioritaria degli impieghi, con 15.640 tonnellate, pari al 97,5% dell’ammontare complessivo dei fitosanitari impiegate sulla coltura.

Gli inorganici in base zolfo rappresentano la quota maggiore con 11.054 tonnellate, pari al 68,9% del totale. Nello specifico segmento di prodotti, i trattamenti con lo zolfo rappresentano quindi il 70,1% dei fungicidi impiegati in viticoltura. Da parte loro i rameici rappresentano la seconda voce di impiego, pari al 10,6% del totale con 1.703 tonnellate. Percentuale che sale al 10,9% sul totale dei fungicidi. In sostanza, rame e zolfo messi insieme rappresentano il 79,5% dei quantitativi di agrofarmaci impiegati nei vigneti e l’81% dei fungicidi.

In questa specifica categoria di prodotti, gli agrofarmaci di sintesi compongono quindi meno del 20% dei quantitativi impiegati su vite. Gli azoto-organici, esclusi i triazoli, rappresentano infatti il 14,8% del totale con 2.378 tonnellate (15,2% sul totale fungicidi). I triazoli, da parte loro, date le loro basse dosi di impiego, ammontano a sole 71 tonnellate: 0,44% sul totale di agrofarmaci impiegati e lo 0,45% sul segmento dei soli fungicidi.

Dei 24,8 chilogrammi per ettaro di agrofarmaci impiegati su vite, quindi, ben 17 chili sarebbero di solo zolfo, mentre i rameici apporterebbero 2,63 chilogrammi. In totale, rame e zolfo rappresentano su vite 19,7 chilogrammi dei 24,8 utilizzati. Quattro quinti dei chilogrammi mediamente applicati su vite sarebbero quindi dovuti a prodotti autorizzati anche in viticoltura biologica.

Conclusioni

  1. Scandalizzarsi per i chili di agrofarmaci impiegati in viticoltura, supposti eccessivi, ha senso dallo scarso al nullo, visto che se si vuole raccogliere l’uva sana si deve trattare mediamente 13-14 volte l’anno.
  2. Il 70% di quei chili è peraltro di banalissimo zolfo, sommando al quale il “romantico” rame si arriva all’81% del totale. Entrambe le tipologie di fungicidi sono ammessi in viticoltura biologica.
  3. Da quanto sopra, appare decisamente sciocco reclamare per la conversione a biologico della viticoltura, illudendosi in tal modo di diminuire l’impiego di chilogrammi per ettaro. Eliminando gli agrofarmaci di sintesi, che hanno dosi molto basse, i viticoltori sarebbero obbligati a utilizzare ancor più zolfo e rame, gonfiando ulteriormente il dato relativo agli usi per ettaro.
  4. Considerando che nei vigneti l’uso di glifosate non arriva all’1% del totale impiegato, chiederne l’estromissione dai disciplinari è stata quindi campagna meramente mediatica, figlia di una demonizzazione gonfiata ad arte da una molteplicità di portatori di interesse, sostenuti per le strade e sui social dalle usuali masse di utili idioti. Una demonizzazione cui purtroppo non sono stati in grado di opporsi né le autorità locali, incluse quelle sanitarie, né i consorzi dei produttori, del tutto proni agli umori sballati che giravano e tuttora girano per ogni dove.
  5. Infine: la modifica genetica delle viti potrebbe apportare resistenze endogene alle principali patologie fungine. Il Genome editing si mostra in tal senso la via più consigliabile, visto che è in grado di modificare velocemente e in modo chirurgico il DNA della coltura, realizzandovi all’interno i geni per diverse resistenze. Va infatti ricordato che i funghi patogeni mutano e che ciò che gli è oggi resistente potrebbe non esserlo più domani. Visto però che la vite è coltura pluridecennale, va parimenti accettato che le applicazioni di fungicidi in vigna siano fattore comprimibile, ma non eliminabile. Anche perché vi sono patologie secondarie che senza agrofarmaci diverrebbero in fretta primarie. Ergo, se proprio non volete i “pesticidi”, almeno non opponetevi alle tecniche di modifica genetica, del tutto sicure per l’ambiente e per i consumatori.

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Più bocche, meno terre, meno “pesticidi”: la tempesta perfetta

Da un lato lo storytellig, dall’altro i numeri

Mentre aumentava la popolazione, diminuivano gli ettari coltivati e i mezzi di difesa necessari per proteggere le colture. Un avvitamento molto pericoloso che continua tuttora, promettendo il collasso della già scarsa autosufficienza alimentare italiana

L’uso sempre più massiccio dei pesticidi” è uno dei tormentoni più in voga da diversi anni. Come pure c’è chi da altrettanti anni abbaia, bava alla bocca, contro l’agricoltura cosiddetta “intensiva“, esortando a cambiare indirizzo e a dare sempre più spazio a forme di agricoltura supposte meno impattanti, come il biologico, ma sicuramente meno produttive.

Leggi l’approfondimento sui perché l’agricoltura biologica non è la panacea di tutti i mali:

L’agricoltura biologica: storia di un disastro annunciato

C’è quindi un problema: le forme di agricoltura proposte come alternative a quella moderna e tecnologica sono solo illusoriamente meno impattanti, poiché per unità di cibo prodotto comportano impatti superiori. Inoltre, la popolazione italiana è cresciuta nel tempo, concentrandosi per giunta nelle città. Le campagne, di conseguenza, si sono progressivamente ridotte a causa di abbandoni e cementificazione. Come fare quindi a soddisfare una domanda alimentare cresciuta per decenni, mentre calavano le superfici coltivabili pro-capite e quasi scomparivano le braccia per coltivarle? Si può: con la meccanizzazione, la genetica e la chimica. Peccato che solo la prima sia in qualche modo tollerata, mentre la seconda e la terza vengono demonizzate come supposti agenti di morte, anziché esser viste come alleate indispensabili.

Un bel dilemma, questo, anche considerando che nel frattempo, sempre sotto le spinte chemofobiche, agli agricoltori sono rimasti sempre meno prodotti da utilizzare a difesa delle colture (il 70% delle sostanze attive utilizzate fino alla fine degli Anni 80 non ci sono più), come pure sono diminuiti gli usi in assoluto.

Nel grafico sottostante, i trend inversi dei terreni coltivabili e della popolazione italiana.

Come si vede, mentre la popolazione aumentava del 19,4% fra il 1961 e il 2019, le superfici agricole diminuivano del 36,6%. La divergenza fra le due variabili ha fatto sì che ormai restino solo 2.175 mq a testa di terre coltivabili contro i 4.093 dei primi Anni 60. Un calo di disponibilità pro capite pari al 46,8%. In sostanza, ciascun Italiano ha sempre meno metri quadri per produrre cibo. Reclamare quindi cibo italiano è più che altro una bizzarria mediatica, un obiettivo irraggiungibile a meno di accettare che da quei pochi metri quadri rimasti si estragga quanto più cibo possibile. Cioè il contrario di quello che si otterrebbe con l’aumento delle superfici a biologico.

Sotto, il calo negli usi degli agrofarmaci (alias “pesticidi”), sia espressi come formulati commerciali, sia come sostanze attive.

L’andamento irregolare è dovuto alle condizioni fitosanitarie e metereologiche di ogni annata. Il trend in calo è comunque percepibile chiaramente fra il 1990 e i 2020, con un minimo del -41,5% per i formulati, toccato nel 2019, parallelo al -51,7% delle sostanze attive, sempre nello stesso anno. Ci si chiede quindi in che modo il Farm2Fork previsto dal Green Deal pensi di poter eliminare la metà degli attuali agrofarmaci di sintesi nell’arco di pochi anni, senza lasciare sguarniti i campi contro malerbe, parassiti e malattie fungine. Il tutto, considerando pure che se vi sono meno molecole e meno modi d’azione, a sviluppare resistenze ci vuole un attimo, costringendo gli agricoltori a impiegare sempre e solo le poche sostanze attive rimaste.

Concludendo: il cosiddetto “uso sempre più massiccio dei pesticidi” è una fola maramalda, come pure lo è quella de “l’uso indiscriminato dei pesticidi“. Peraltro, l’agricoltura intensiva non è causa, bensì effetto, avendo ridotto progressivamente le superfici coltivabili. Ciò ha reso indispensabile produrre sempre di più da ogni metro quadro di terra rimasta. Ogni altra forma di agricoltura può quindi solo indurre cali produttivi a due cifre percentuali, gonfiando ulteriormente la già imbarazzante dipendenza dall’estero dell’agroalimentare italiano ed europeo.

Poi arriva una guerra in Ucraina e all’improvviso ci si accorge che chi, come chi scrive, ammoniva da tempo su questi temi, proprio scemo non era.

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Glifosate nelle urine: i furbetti del pannolino

Numeri stratosferici, grancassa mediatica, ma dietro c’è il nulla cosmico

Da alcuni anni si sono moltiplicati i gruppi di attivisti, giornalisti e di sedicenti ricercatori scatenati nell’analisi di glifosate nelle urine delle persone. Risultati ovviamente “eclatanti” sparsi poi a mezzo stampa. Gli Anglosassoni per certa stampa e certe ricerche usano il termine “junk science”, ovvero scienza spazzatura. Vediamo perché

Ve la ricordate la “famosa” ricerca in cui il 99,8% dei Francesi avrebbe avuto le urine contaminate da glifosate? Ecco, per passare da famosa a famigerata basta la lettura di qualche articolo scritto da persone esperte, anziché da giornalisti ideologicamente schierati contro cose di cui dimostrano spesso (quasi sempre) di capire dal poco al nulla. Felice quindi che uno scienziato come Geoffrey Kabat sia giunto alle mie stesse conclusioni, scendendo ulteriormente in alcuni risvolti da me non approfonditi.

Leggi l’articolo sul caso “glifosate nelle urine dei Francesi” (in Italiano):

Glifosate nelle urine: l’ennesimo studio

Leggi l’articolo di Geoffrey Kabat su Genetic Literacy Project (in inglese):

Dangerous levels of glyphosate in urine? Junk science paper based upon a large-scale anti-GMO testing campaign

Di fatto, tali ricerche dimostrano il contrario di ciò che si prefiggono, cioè spaventare la popolazione. A conferma, da spaventarsi non v’è proprio nulla, dato che i livelli riscontrati nelle urine, anche dandoli per buoni, lasciano stimare dosi assunte col cibo che stallano dalle migliaia ai milioni di volte al di sotto di quelle che la tossicologia ritiene sicure per la salute umana. Quindi di rischi non ce n’è. Urine o non urine, glifosate o non glifosate.

Però, dei lettori digiuni di tale materia si spaventano lo stesso e quando interrogati sul destino della molecola v’è da pensare si esprimeranno in modo contrario, inducendo la politica a prendere decisioni tanto opportunistiche quanto irrazionali. La paura è infatti tutta pancia, mentre le spiegazioni scientifiche sono tutte testa. Ecco perché spesso i ciarlatani vincono. Il caso Covid-Vaccini insegna. Però, dall’articolo scritto da Geoffrey Kabat si possono evincere anche alcuni dettagli che poco c’entrano con la tossicologia e molto con l’onestà e la deontologia di chi tali paure diffonda, talvolta lucrandoci pure.

A parte i conflitti di interessi non dichiarati da parte di alcuni degli autori dello studio, ci sono altri punti interessanti che fanno comprendere come l’attacco a glifosate sia basato su vere e proprie azioni di guerriglia pianificate a tavolino da attivisti che poi si camuffano da scienziati.

Partiamo da chi ha raccolto i campioni di urine (traduzione dal testo originale):

Chi è questo gruppo? Sono famigerati attivisti anti-biotecnologie. Sono stati accusati di ‘distruzione di gruppo di proprietà’ dopo aver invaso tre garden center nel settembre 2016 e nel marzo 2017, dipingendo dozzine di lattine di glifosate per renderle inadatte alla vendita. Uno degli scopi della campagna [francese, nda] dei test delle urine era quello di esercitare pressioni sulla Corte che segue il loro caso, con una mossa simile alle campagne mediatiche organizzate a sostegno delle class action in California contro glifosate e Monsanto“.

Paladini della salute pubblica? Parliamone: quanto ci hanno guadagnato spillando quattrini ai volontari per l’analisi?

I campioni di urina raccolti sono stati sottoposti a un test ELISA (Enzyme-Linked Immuno Assay), addebitato ai volontari a un prezzo piuttosto elevato (85 euro ed eventualmente un supplemento di 50 euro per la denuncia).”

Moltiplicando 85 € per 6.848 individui, si ottiene una cifra superiore ai 580mila euro. Un business niente male per cercare il nulla.

E il laboratorio che ha svolto le analisi (che peraltro ha preso buona parte dei quattrini)?

Innanzitutto va chiarito che il laboratorio di analisi, BioCheck, non è un laboratorio di scienze mediche umane; piuttosto è un laboratorio veterinario con sede a Lipsia, ovviamente non accreditato dal Comitato di accreditamento francese (COFRAC per eseguire analisi mediche), non è accreditato per eseguire test ELISA per glifosate“.

Peraltro, i risultati che sfiorano il 100% di positività pare vengano fuori solo a loro:

In ‘BioCheck, un laboratoire aux curieuses analyses’ (Trad: BioCheck, un laboratorio con analisi curiose), ha scritto Gil Rivière-Wekstein nel febbraio 2019, un mese dopo un indicibile servizio speciale dedicato a glifosate, mandato in onda dall’emittente televisiva pubblica France 2, con una piccola tabella a corredo: il dato del 100% [100% delle persone risultate positive] sembra essere una costante infallibile in queste analisi, almeno quando i campioni vengono analizzati dal laboratorio BioCheck, che è sistematicamente responsabile di tutti questi risultati spettacolari“.

In effetti, altre analisi similari danno percentuali di positività molto inferiori, aprendo la strada a molteplici sospetti circa gli esiti “choc” di tali ricerche di parte.

Sotto, la tabella tratta dall’articolo su GLP. Che si consumi Bio o meno, le concentrazioni urinarie sono pressoché identiche. Anzi, parrebbe quasi che i consumatori abituali di cibi bio abbiano un filo più glifosate nelle urine dei non-consumatori bio. I casi sono quindi due: o consumare bio serve a niente, per lo meno sull’assunzione di glifosate con la dieta, oppure le analisi vanno prese con le pinze a causa della possibilità che i test Elisa diano falsi positivi, soprattutto quando applicati da centri non autorizzati per tali analisi.

Sopra: concentrazioni di glifosate nelle urine espresse come nanogrammi per millilitro, cioè microgrammi per litro. Da tali valori, assumendoli validi, si evince un’assunzione media di 2,6 milligrammi annui di glifosate. La soglia ritenuta sicura per la salute umana è di 0,5 milligrammi al giorno per chilo di peso. Una persona di 60 chilogrammi può cioè assumere in totale sicurezza fino a 30 milligrammi al giorno, cioè quasi 11mila milligrammi l’anno. Ergo, l’esposizione media annua, calcolabile dalle concentrazioni rilevate, sarebbe circa 4.200 volte inferiore alla dose che la tossicologia ci dice essere ininfluente sulla salute umana. Tradotto: il nulla.

Conclusioni

Da tempo si sa che con l’allarmismo i ciarlatani ci guadagnano sempre. Bene quindi diffidare dagli articoli “choc” sui media generalisti che rilanciano ricerche “choc” fatte contro pesticidi oggi, ogm domani e chissà cos’altro dopodomani.

Purtroppo, c’è perfino chi, fra agronomi e agrotecnici, si beve queste panzane in quanto funzionali al proprio profilo ideologico, oppure perché funzionali al loro interesse specifico, tipo fare assistenza ad aziende Bio. Quindi inzuppano volentieri il biscotto in tali ricerche e articoli del menga, a tutto svantaggio dell’agricoltura nel suo insieme, contribuendo a spargerne un’immagine fuorviante e dannosa.

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I conti salati dell’opportunismo

La penuria di commodities ha scoperchiato le fragilità agricole dell’Italia (Fonte foto: Claas Italia)

Prezzi dei mangimi fuori controllo e bestiame a rischio abbattimento. Italia ed Europa sono oggi vittime di pluridecennali errori strategici, esponendosi entrambe al rischio di severe lezioni sull’agroalimentare

Talvolta anche le più raffinate analisi degli economisti possono nascondere trappole con cui si rischia di fare i conti in futuro. Ciò perché le dinamiche globali non sono esclusivamente economiche, bensì anche politiche, sociali, culturali e talvolta belliche. Gli indirizzi di business consigliabili oggi potrebbero cioè rivelarsi degli harakiri domani.

A conferma, una ventina di anni fa alcuni economisti nostrani ipotizzavano enormi potenzialità di crescita se gli Italiani avessero adottato la predisposizione americana all’acquisto rateale. L’Italiano, più sparagnino, tendeva infatti a comprare quando aveva i soldi per farlo, in tutto o almeno in parte. L’Americano dell’epoca no: rateizzava e acquistava. L’economia d’Oltreoceano pareva quindi florida ed espansiva, a partire dal mercato immobiliare.

Solo pochi economisti, fra cui l’Italiano Luigi Zingales, avvertirono dei rischi di quelle bolle speculative. Pochi anni dopo, nel 2007, in molti dovettero dare ragione al professore padovano, poiché fu in quell’anno che iniziò la più catastrofica crisi finanziaria del Dopoguerra. Fare debiti è infatti una leva interessante per alimentare l’economia solo se nell’immediato futuro si hanno i soldi per tapparli, quei debiti. E molti Americani quei soldi non li avevano, cadendo nella trappola micidiale di avere più rate da pagare che soldi con cui pagarle.

In Italia ciò impattò meno, grazie proprio a quella natura risparmiatrice che fece sì che a fronte di un grande debito pubblico esistesse un discreto risparmio privato.

Quella lezione, però, non sembra aver reso più saggi i decisori politici nostrani su molteplici faccende, agricoltura in primis, né pare che la pessima esperienza americana abbia indotto a maggiore prudenza alcuni economisti del settore primario. Nel corso dell’ultimo ventennio si sono infatti moltiplicati articoli che spingevano l’agricoltura nazionale verso attività più redditizie, anche se di nicchia, abbandonando le colture meno remunerative come per esempio mais e cereali. E fin qui parrebbe pure consiglio logico e razionale. Peccato che per far ciò si sia finiti con l’importare sempre più commodities da altri Paesi. Abbiamo cioè gonfiato nel tempo un pericoloso debito in termini di autosufficienza alimentare, a fronte di profitti tanto appetitosi quanto momentanei.

Coerenti con questo storytelling, anche i sussidi pubblici all’agricoltura sono cambiati negli anni, passando dal premiare le produzioni a incentivarne la riduzione. Il set-aside, per esempio, prevedeva specifici contributi a chi lasciasse incolti i terreni, salvo essere abolito, guarda caso, nel 2008 a crisi finanziaria ormai deflagrata. Nel frattempo si erano moltiplicate le normative europee, sempre più restrittive, che insieme ai disciplinari di produzione hanno drasticamente ridotto l’arsenale fitosanitario e i fertilizzanti a disposizione degli agricoltori.

Basti pensare che la Lombardia è la prima regione agricola italiana e il 60% circa delle sue superfici coltivabili sono soggette a qualche vincolo di tipo ambientale che ne strozza la produttività.

Infine il Greening, con sussidi specifici che premiano l’ecologia a ulteriore scapito della produttività. Ottime quindi le intenzioni verso l’ambiente, sebbene i risultati non siano stati all’altezza dei sacrifici chiesti in cambio. Disastrose infatti le conseguenze per la produttività agricola, tanto che sono andati moltiplicandosi i terreni abbandonati. In pratica, un set-aside definitivo causa disperazione.

Notevoli si sono infine rivelati anche gli adempimenti burocratici, lievitati senza pietà a carico di agricoltori e allevatori. Questi si sono perciò trovati di fronte a una scelta opprimente: abbandonare o adeguarsi, moltiplicando la caccia ai sussidi e al taglio dei costi fino a divenire strettamente dipendenti dai sussidi stessi. Ed è proprio in questi scenari che si è realizzata anche la crescita del biologico e dei prodotti cosiddetti “tipici”, quelli cioè venduti a caro prezzo sui mercati, riconoscendo però agli agricoltori poche briciole in più.

Poi vennero i grani antichi, le varietà autoctone dimenticate, le razze animali pressoché estinte da recuperare, nonché molteplici colture alla moda. Tutto con il fine di vendere magari poca merce, ma a prezzi più alti, tappando con le importazioni i crescenti buchi agroalimentari. E a chi manifestava preoccupazione per tale rischioso sbilanciamento veniva risposto “È il mercato, bellezza!”. Infatti, perché produrre mais da insilare, quando conviene coltivare altro, dando al proprio bestiame granturco importato? Perché mai continuare a spingere le rese delle commodities, quando il mercato non ripaga i costi e si ricava più denaro correndo dietro a qualche coltura-capriccio?

Esempio di ciò la Regione Lazio che per il 2022 avrebbe concesso 600 euro all’ettaro di contributi a chi coltivi quinoa biologica. Peccato che stando ai dati Fao la resa media della quinoa sia intorno ai nove quintali per ettaro, spaziando da un minimo di 2-3 quintali fino a picchi, rari, di venti se coltivata in modo moderno e intensivo. Di grano duro si possono invece toccare in Italia rese di 50 quintali per ettaro (34 di media) e di grano tenero perfino i 90 (media 62). Di certo, la moda della quinoa, specie se bio, ne ha fatto lievitare i prezzi oltre che i contributi. Nel 2005 veniva infatti prezzata 400 dollari la tonnellata, contro i 2.500 dollari del 2018 dopo aver toccato addirittura i seimila nel 2013.

Forti di tali numeri, sulla stampa di settore impazzarono quindi gli articoli che ne incentivavano la semina, spacciandola come ghiotta opportunità di mercato. Questo fino a un paio di anni fa. Oggi, con le bombe che fischiano in Ucraina e le navi di grano, mais e olio di girasole che non arrivano più nei porti, i contenuti degli articoli sono di tutt’altro tenore, lanciando grida di dolore per la mancanza di approvvigionamenti di materie prime e di mangimi per le stalle, con la minaccia di dover abbattere il bestiame entro poche settimane se non arriveranno in fretta forniture sostitutive dall’estero. Ma non di quinoa biologica, bensì di cereali e soia.

Soprattutto il mais, pilastro degli allevamenti nostrani, è calato vistosamente negli ultimi anni. Secondo Istat, in Italia se ne produceva poco meno di cento milioni di quintali fra il 2006 e il 2008, contro i 61 milioni del 2021. Troppe restrizioni, troppi costi e pochi ritorni economici. Meglio quindi correre dietro ai trend del momento, spesso opportunistici, che tener duro e salvare le fondamenta dell’agricoltura e della zootecnia italiana.

La crisi ucraina ha poi usato come sveglia grandi secchiate di acqua gelida, spazzando via in un lampo gli innumerevoli storytelling delle produzioni scarse, sì, ma furbe, poiché più remunerative. Purtroppo, a suon di tarlare le travi portanti del Paese, incalzando gli agricoltori verso imprudenti obiettivi modaioli, oggi la realtà suona alla porta e presenta il conto, con un mais il cui costo sarebbe aumentato del 60-70% rispetto al 2020 (fonte Federalimentare), seguito dappresso dalla soia usata per l’alimentazione degli animali e quindi per la produzione di formaggi e salumi. Peccato che l’Italia ne debba importare oltre il 70% e che oggi il suo prezzo sia aumentato del 30-40% in un solo anno.

Senza peraltro dimenticare le speculazioni: in soli tre giorni il prezzo del mais per nutrire il bestiame sarebbe passato da 35 a 60 euro al quintale, prezzo rilevato il 10 marzo (fonte Cia). Non va certo meglio per il farinaccio, altro prodotto utilizzato negli allevamenti, salito da 12 a 30 euro in pochi giorni. Quasi raddoppiati anche i mangimi a base di favino e pisello proteico. A queste condizioni, stando agli stessi allevatori, il rischio è appunto di chiudere e di portare al macello il bestiame prima che deperisca per mancanza di nutrimento.

Sono bastate cioè poche settimane di guerra per mettere definitivamente in ginocchio le già fragili potenzialità produttive di un’Italia troppo dipendente dall’estero per non ricevere la fatidica spallata finale, cioè quella variabile extra-economica cui mai si pensa finché non arriva come un meteorite, spazzando via ogni spicciolo opportunismo.

Ora si cerca di correre ai ripari in extremis, con Stefano Patuanelli, Ministro delle politiche agricole, che ha sollecitato lo sblocco delle importazioni di ibridi di mais ogm anche se non ancora autorizzati dalla Ue per il consumo. Peccato che di poterli coltivare in Italia ancora non se ne parli. Nel frattempo in diverse aree italiane si cambia orientamento produttivo, sconfinando talvolta nella fantascienza. Per esempio, in provincia di Foggia, regina del pomodoro da industria, molti agricoltori si starebbero orientando alla semina del mais. Un’eventualità da ritenersi impossibile solo un mese fa.

Non che la storia non abbia dato in passato lezioni in tal senso. Dai porti del Mar Nero arrivò infatti quel grano russo e ucraino che nel 1861 contribuì a sedare le rivolte popolari che presero vita nel Meridione post-unificazione italiana. All’epoca avevamo sì tanta terra, ma raccoglievamo di grano un po’ meno di quanto oggi si raccolga di quinoa. Invece, usando le moderne tecnologie potremmo raccogliere molto di più, di tutto, ammorbidendo quindi l’inevitabile dipendenza dall’estero su livelli meno impattanti per l’economia italiana.

Quella stessa economia drogata per decenni dalle troppe euforie supposte furbe, salvo poi scoprire che senza alcuni ben precisi pilastri viene giù il palazzo interno. Sarebbe cioè giunto il momento di guardare ancora alla produttività interna come a un bene sacro da promuovere a ogni costo, anziché correre dietro a molteplici gatti e volpi che promettono di raccogliere zecchini d’oro semplicemente seppellendone un po’ nel campo. Il loro, di campo, ovviamente.

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Più dei trattori poterono i carri armati

La Russia invade l’Ucraina ed emergono le prevedibili fragilità italiane per l’agroalimentare

L’invasione dell’Ucraina mette a repentaglio la pace nel senso più tragico del termine, minando già nell’immediato le dinamiche agroalimentari mondiali. L’Italia è uno dei più fragili ostaggi degli eventi, soprattutto a causa di pluridecennali miopie politiche

Spesso si comprende il valore di ciò che si aveva solo dopo averlo perso. Oppure, quando una grave crisi mette a nudo quelle fragilità che in condizioni di pace (apparente) restavano invisibili agli occhi dei più.

Oggi l’Italia ha paura: Mosca ha invaso l’Ucraina e sono guai per tutti. Bellici, innanzi tutto, ma non solo. Anche se il Belpaese restasse fortunosamente ai margini di un eventuale conflitto mondiale, le conseguenze sarebbero devastanti dal punto di vista economico, soprattutto sul fronte energetico e agroalimentare.

Per essere vincente un Paese deve contare infatti su tre punti fermi irrinunciabili: l’autosufficienza energetica, quella agroalimentare e la potenza militare. In tal senso l’Italia è ostaggio da sempre degli approvvigionamenti energetici dall’estero, condizione ad alto rischio che affonda le radici in scelte autolesioniste del passato accompagnate da una sconsolante penuria di investimenti in infrastrutture e fonti diversificate di produzione interna, come pure è mancata una saggia diversificazione dei fornitori stranieri. Scelte la cui gravità emerge prepotentemente oggi nelle bollette delle famiglie. Meglio poi calare un velo sulle potenzialità belliche nostrane, tutto tranne che temibili agli occhi di colossi come Usa, Cina e Russia. Infine l’autosufficienza agroalimentare, terzo punto dolente.

Le superfici agricole italiane si mostrano infatti in continuo calo, causa abbandoni e cementificazione. Pure le rese per ettaro risultano stagnanti da tempo, mentre i redditi agricoli devono essere pesantemente integrati da sussidi pubblici al fine di scongiurare il definitivo abbandono delle campagne. Perché lavorare in perdita non è impegno sostenibile da alcuno.

Al contrario, l’Ucraina è il primo Paese del continente europeo per superficie a seminativo, grazie anche a una superficie agricola complessiva intorno ai 32 milioni di ettari, pari a due volte e mezza quella italiana che si ferma infatti a circa 12,5 milioni. Solo di cereali, nelle pianure ucraine verrebbero coltivati oltre 15 milioni di ettari. Questi sarebbero per giunta cresciuti in vent’anni di 1,7 milioni, ovvero la somma delle superfici italiane a grano duro e tenero per l’anno 2000 (Fonte: Istat).

Le prime 20 produzioni ucraine

Ma non solo di cereali si tratta, parlando di Kiev, visto che il grande Paese dell’est europeo occupa il primo posto al mondo nelle esportazioni di girasole e olio di girasole, grazie a produzioni di oltre 15 milioni di tonnellate. Secondo posto invece per la produzione mondiale di orzo (8,9 milioni di tonnellate), fatto che pone Kiev al quarto posto anche per quanto riguarda le esportazioni di questo cereale. Locomotiva anche per il mais, occupando il terzo posto nel ranking globale per produzioni (35,9 milioni di tonnellate) e il quarto per le esportazioni. Quarta piazza invece per la produzione di patate (20,3 milioni di tonnellate), quinta per la segale, ottava per il summenzionato grano, e nona per le uova di gallina.

Ranking mondiale dell’Ucraina

In totale, si stima che le produzioni agroalimentari di Kiev potrebbero soddisfare il fabbisogno di circa 600 milioni di persone. Un’enormità, pensando che la popolazione ucraina ammonta a poco più di 40 milioni di individui.


Perfettamente comprensibili quindi le preoccupazioni italiane per la guerra in corso, viste le ingenti importazioni di varie commodities di primaria importanza per l’agroindustria nazionale. A conferma, nel 2020, secondo Ismea, l’Italia avrebbe importato soprattutto oli grezzi di girasole, mais e frumento tenero. Stando inoltre a Coldiretti, nei primi dieci mesi del 2021, dall’Ucraina sarebbero state importate 107mila tonnellate di grano tenero, quello necessario alla produzione di pane e biscotti, pari a circa il 5% dell’import nazionale. Anche dalla Russia è stato importato grano tenero nello stesso lasso temporale in ragione di circa 44mila tonnellate. Cioè meno della metà.

A seguito dell’attacco russo all’Ucraina i prezzi globali del grano sono quindi saliti in un colpo solo del 5,7%, toccando una quotazione internazionale di 9,34 dollari al bushel, corrispondenti a 306 euro alla tonnellata. Guardando ai mercati nostrani al 25/02/22, sulla piazza di Bologna il grano tenero è salito del 2,7-2,8% rispetto alla quotazione della settimana precedente, toccando i 293,5 €/ton per il “buono mercantile” e i 305,5 €/ton per il “fino”. Analogo incremento percentuale per l’orzo, i cui prezzi hanno mostrato un incremento del 2,7% in una settimana toccando i 265,5 €/ton.

Minori gli incrementi per il mais, fra un minimo di +0,4% (piazza di Mantova) a un massimo di +2,2% (piazza di Cuneo), con prezzi compresi fra 224,5 €/ton (Firenze) e 285 €/ton (Cuneo). Un’altra nota dolente, il mais, dato che è la coltura foraggera su cui si basa buona parte delle produzioni zootecniche italiane. Purtroppo, la superficie nazionale a mais si è dimezzata nel volgere di una quindicina di anni, scendendo da circa 1,2 milioni di ettari a poco più di 600mila.

Se quindi l’Italia era pressoché autosufficiente per il mais all’inizio del Terzo millennio, oggi dipende dall’estero per quasi il 50% dei propri fabbisogni. In tal senso, l’Ucraina è il secondo fornitore dell’Italia dopo l’Ungheria, rappresentando circa il 20% delle importazioni totali. Nei primi dieci mesi del 2021 sarebbe però calato del 15% l’import da Kiev, scesa a “sole” 446mila tonnellate.

Tale dipendenza dall’estero per il granturco è dovuta essenzialmente al continuo calo di redditività per i maiscoltori italiani, i quali si sono visti contemporaneamente aumentare i costi di produzione e stagnare le rese. Ciò perché le normative europee e nazionali hanno minato nel tempo la possibilità di nutrire e proteggere adeguatamente la coltura, come pure ha impedito di adottare genetiche innovative come quelle coltivate, per esempio, negli Stati Uniti. Non a caso, è americano il record di produzione di granella di mais, con circa 40 tonnellate per ettaro. Un’enormità, pensando che in Italia si fatica assai a toccare le 15. Quello americano è un record, è vero, ma se le genetiche e le tecniche agronomiche utilizzate negli Usa fossero accettate e disponibili anche in Italia, si potrebbe tornare alle produzioni complessive dei primi anni 2000 senza aggiungere un solo ettaro coltivato a mais.

In sostanza, gli allevamenti italiani vedrebbero raddoppiare la propria autosufficienza negli approvvigionamenti di mais senza dare un colpo di aratro in più. Un valore, quello dell’autosufficienza, di cui purtroppo si comprende appieno la dimensione solo quando una grave crisi bellica prende a schiaffi i sogni fatali di una politica agricola miope. Una politica che negli ultimi decenni ha sistematicamente umiliato la produttività agricola nazionale, seguendo degli storytelling di marketing funzionali solo a costose produzioni di nicchia. Cioè quelle di scarsa quantità ma di alto prezzo. Esattamente il contrario di ciò che deve cercare un Paese moderno se non vuole trovarsi in braghe di tela allo scoppio di una guerra.

Infatti, non solo di mais e di grano si parla, purtroppo: secondo le informazioni condivise dall’Istituto per il commercio estero (ICE), l’Ucraina sarebbe il più grande produttore mondiale di olio di girasole, con una quota pari al 31% del totale globale. Quota che sale al 37% in termini di esportazioni. In sostanza, l’Ucraina esporta più del 90% del proprio olio di girasole, per un volume di circa 6,9 milioni di tonnellate, dato cresciuto nel 2020 del 12% rispetto al 2019. Non stupisce quindi nemmeno che Kiev sia anche fra le prime produttrici di miele, occupando il quinto posto al mondo e il primo se si guarda alle sole esportazioni nei Paesi Ue. Non a caso, oscillano fra le 65mila e le 75mila tonnellate annue le produzioni di miele ucraino, per metà derivante proprio dal girasole.

Purtroppo i problemi per l’Italia non sarebbero legati solo alle dinamiche delle produzioni e delle esportazioni agricole, bensì soffriamo anche sul fronte dei fertilizzanti. Dalla Russia arriverebbe in Italia il 23% dell’ammoniaca, necessaria anche alla produzione di concimi azotati. Circa il 17% dei prodotti a base di potassio arriva nel Belpaese da Mosca, come pure il 14% di urea, altro fertilizzante azotato, nonché il 10% dei fosfati. Oltre alle tensioni sulle commodities, quindi, ci sono anche quelle sui mezzi di produzione. Questi non solo rischiano di scarseggiare, ma anche di veder lievitare i prezzi degli stock attualmente disponibili con un significativo aggravio dei costi per gli agricoltori italiani.

Si spera quindi che la grave crisi internazionale rientri presto nei binari e che la pace torni stabilmente padrona degli scenari globali. In primis per le vite umane a rischio, prima e più grave tragedia di ogni conflitto, ma anche dal punto di vista economico e politico. Bene sarebbe infatti che l’Europa e l’Italia rivedessero gli orientamenti mostrati negli ultimi decenni, sia dal punto di vista energetico, sia da quello agricolo. La paura agroalimentare di oggi, più che giustificata, poggia infatti i piedi su trent’anni di demagogie maramalde che hanno sbarrato la strada alle biotecnologie più evolute, falcidiando al contempo fertilizzanti e mezzi di difesa nell’illusione di poterli sostituire con soluzioni naturali sicuramente più gradite ai media, ma del tutto inadeguate a reggere il peso della domanda interna di cibo.

Forse oggi, con i carri armati che solcano i campi al posto dei trattori, si comprenderà la follia di aver paralizzato il Parlamento italiano su una bizzarria come il DDL 988, quello che si proponeva di sdoganare a livello politico gli esoterismi della biodinamica, una forma di agricoltura che rappresenta una frazione per mille delle superfici agricole mondiali.

Magari, i lampi dei cannoni suggeriranno una maggior lucidità anche a livello europeo, ove sono stati realizzati dei veri e propri cappi a cui impiccarsi come il Farm2Fork del Green Deal, quello che si propone di tagliare di un ulteriore 50% l’uso di mezzi per la difesa delle colture, di triplicare le superfici a biologico e di convertire il 10% delle attuali superfici agricole a un ruolo ambiental-paesaggistico anziché produttivo.

Quanto siano scellerate tali decisioni, condannando la Ue a una crescente dipendenza alimentare dall’estero, lo hanno già dimostrato a chiare lettere il Dipartimento americano per l’agricoltura (USDA) e gli studi europei dell’Università olandese di Wageningen, in cui si stima fra il 10 e il 20% la perdita di produzioni agricole europee, toccando il 30% per alcuni tipi di frutta, come le mele.

Perché se già è alquanto grave restare a corto di energia, ancor più grave sarebbe restare a corto di cibo, dovendosi piegare ai ricatti di un dittatore laqualunque che un giorno si alza e fa tremare il mondo.

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La dura legge della fame

Raccolti da favola che possono diventare solo un lontano ricordo, seguendo le follie pseudo ecologiste di personaggi come Vandana Shiva

Lo storytelling del Bio sbatte contro il muro della realtà. Nel Sikkim indiano e nello Sri Lanka, le conversioni 100% Bio hanno creato e stanno creando disastri in termini di sicurezza alimentare e di povertà fra gli agricoltori

Le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni, si sa. A volte sono per giunta lastricate di mera demagogia e di interessi lobbisti, con tutte le aggravanti morali che tale ingresso negli inferi porta quindi con sé, come accaduto per esempio in alcune aree del Pianeta già di per sé alquanto povere.

Per assurdo, infatti, non sono stati i ricchi Paesi occidentali a testare sulla propria pelle i rischi dello storytelling biologico, bensì a fare da cavie sono stati Sikkim indiano e Sri Lanka, aree orientali in cui la povertà è da sempre diffusa e dove gli agricoltori facevano già fatica a sopravvivere anche prima.

Intuizione “geniale”: convertiamo tutto a bio, così gli agricoltori staranno benone e la popolazione potrà contare su cibi “più sani”. Altra facezia della narrazione di marketing del biologico. In più, pensavano forse i governanti locali, il vantaggio di apparire agli occhi del mondo come Paesi all’avanguardia, capaci di dare lezioni invece di doverle prendere.

Purtroppo per loro, la lezione se la sono data da sé, andando a sbattere contro il muro della realtà. Nel Sikkim indiano, portato sugli allori dal mondo pseudo ecologista quale esempio di vittoria sulla chimica agraria, la situazione è divenuta presto insostenibile dopo la conversione a Bio iniziata nei primi Anni 2000. Il manicheismo del Governo locale non si era infatti limitato a proibire le importazioni e l’uso di fertilizzanti e di agrofarmaci di sintesi, bensì aveva proibito persino l’importazione di derrate alimentari che fossero state prodotte utilizzandoli. Le partite intercettate nei controlli venivano quindi sequestrate e distrutte.

Poi, nel giro di poco tempo, realizzarono come l’agricoltura del posto stesse andando a rotoli e che i prezzi folli imposti per i cibi bio tagliassero fuori ampie porzioni di popolazione, le più povere. Peraltro, nemmeno gli agricoltori se la passavano bene come ipotizzato, poiché l’aumento dei prezzi non compensava i costi maggiori di produzione né la perdita di rese. Infestanti, malattie fungine e insetti parassiti massacravano infatti le colture rimaste sguarnite di mezzi di difesa, come pure le piante stesse producevano meno a causa della scarsità di nutrimento.

Chi coltivava mais e legumi si è vista calare la resa del 70% in soli quattro anni. I produttori di agrumi e di cardamomo hanno registrato cali compresi fra il 25 e il 50%. Più o meno come i coltivatori di pomodori, le cui rese si sono dimezzate. Un po’ meglio è andata ai produttori di zenzero, i quali hanno perso “solo” un terzo dei raccolti. I cereali molto peggio: il riso soddisfa ormai solo il 20% della domanda interna e la produzione locale di grano è crollata da 21.600 tonnellate a sole 350. Una vera e propria disfatta. Solo a fronte di feroci proteste popolari il Governo ha quindi annullato i sequestri di cibo convenzionale, il cui commercio è tornato legale.

Tale debacle impatta peraltro un altro cavallo di battaglia del Bio, ovvero quello che vorrebbe le aree marginali e meno produttive come le più interessate a convertirsi, nel tentativo di correggere coi prezzi più alti le rese già di per sé basse. Il Sikkim era proprio in una situazione del genere, con un’agricoltura poco produttiva e marginale, purtroppo priva anche di infrastrutture di trasporto e di stoccaggio. Solo un Governo di pazzi avrebbe potuto quindi seguire i progetti “tutto-Bio” di personaggi come Vandana Shiva, attivista indiana pseudo-ecologista che non paga del disastro in patria, di cui si era resa primaria complice, ha indotto pure il Presidente dello Sri Lanka a intraprendere le medesime, disastrose scelte.

Prima sono stati proibiti i prodotti definiti “tossici”, poi hanno realizzato che senza agrofarmaci e fertilizzanti di sintesi le rese precipitavano. Per esempio, nel 2015 il cieco furore anti-glifosate (che tutto è tranne che “tossico”) ne aveva fatto proibire l’uso nella coltivazione del tea, salvo togliere la proibizione solo tre anni dopo a causa delle erbe infestanti che soffocavano le piantagioni senza che le alternative “bucoliche” riuscissero ad arginarle. Il tutto, dopo aver causato una perdita di 100 milioni di euro alle esportazioni del pregiato tea di Ceylon. E questo solo nel 2017. Non male come impatto, in un Paese che ha un Pil di poco più di 80 miliardi di dollari.

Eh no: non iniziate nemmeno col dire che i benefici di tali scelte si possono vedere solo nel lungo periodo. Primo, perché si deve mangiare tutti i giorni. Secondo, nemmeno nel lungo periodo le rese potranno mai tornare a quelle originali, checché ne dica quella parte di pseudo accademia che inzuppa il biscotto da anni nello storytelling del Bio e del “lasciar fare alla natura”. A conferma, ci sono anche persone che hanno perso la vita per l’ostinazione a non volersi curare con antibiotici o con anti tumorali, aborrendo la chimica e rivolgendosi con fede a cure farlocche spacciate per naturali. Che tali nefasti esempi siano magari portati a mente anche in agricoltura.

Ora, la vera domanda è: perché Vandana Shiva continua a colpire le popolazioni più povere dell’Asia, inducendo scelte demenziali ai locali governi? E perché questi ultimi continuano a dare credito all’attivista indiana, la quale ormai va considerata a pieno diritto la novella Trofim Denisovich Lysenko, il ciarlatano russo che con le sue bizzarre posizioni antiscientifiche causò disastri all’agricoltura russa fra gli Anni 30 e 60, vedendo finalmente abbandonare le sue strampalate teorie solo nel 1964. L’anno di nascita del sottoscritto. Un piccolo segno del destino, forse.

Peccato che quel ciarlatano sia stato a capo della prestigiosa Accademia pansovietica Lenin delle scienze agrarie, come pure abbia fatto finire in galera o al muro tutti i colleghi che ne contestavano le teorie. Complice uno stalinismo sedotto dalle vane promesse di un pazzo super egoico come Lysenko.

Ora, non ci sono più i Gulag, né uno scienziato degno di questo nome rischia più di finire in prigione o fucilato per ordine di un bieco stregone. Ciò non di meno, le pseudo-scienze continuano a dilagare colpendo anche il settore agricolo, con le persone di scienza che vengono derise, accusate di corruzione, isolate e messe alla pubblica gogna dai molti, troppi, novelli Lysenko, nonché dai vari proseliti che sono riusciti a raccattare per strada. Basti pensare alla presenza di tali soggetti persino nelle pagine social dedicate all’agronomia, giusto per rendersi conto di quanto siano maligne certe metastasi ideologiche.

Per liberarsi di Lysenko ci vollero decenni. Si spera che per mettere nel dimenticatoio gente come Vandana Shiva e i suoi numerosi fans ci voglia un po’ meno. Per il bene di tutti.

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Non esistono bugie a fin di bene

Chiarezza senza fittizi allarmismi: unica via per spiegarsi correttamente

Sul riscaldamento globale vi sono diverse certezze: la prima è che esiste, la seconda è che l’uomo ne è responsabile per la gran parte, la terza è che la comunicazione mediatica e politica è stata disastrosa

Che l’anidride carbonica sia una forzante climatica lo si sa da oltre un secolo, ovvero dai tempi di Arrhenius. Che il picco attuale superiore alle 400 ppm (parti per milione) sia il più alto dell’ultimo milione di anni è pure questo un fatto: senza alcuna perturbazione aggiuntiva, nell’attuale fase interglaciale dovremmo stare al massimo intorno alle 300 ppm, fossimo in linea con i precedenti picchi che si sono susseguiti con cadenza di 80-90mila anni. Ergo, quelle 100 e passa parti per milione in più ce le abbiamo messe noi, molte delle quali nel volgere di pochi decenni per giunta. Del resto, se carbone, gas e petrolio ci hanno messo milioni di anni per formarsi nel sottosuolo e noi li estraiamo e li bruciamo a rotta di collo per un paio di secoli, il pulse di CO2 in atmosfera non poteva certo essere diverso da quello osservato.

La persistenza pluridecennale dell’anidride carbonica in atmosfera fa poi sì che sulle nostre teste ci sia ancora della CO2 emessa dai nostri nonni e bisnonni quando ancora di Global Warming non se ne parlava affatto. Il problema è che quella che emettiamo noi resterà altrettanto sulle teste dei nostri nipoti e bisnipoti, con l’aggravante che ne abbiamo prodotta molta ma molta di più.

Chiarito quindi che questo post non intende discutere dei cambiamenti climatici, innegabili, e delle sue origini prettamente antropiche, altrettanto innegabili, vediamo cosa non ha funzionato nella comunicazione del problema, come pure negli orientamenti da seguire per trovare soluzioni anziché spingere solo inconcludenti piagnistei pseudo-ecologisti.

Per esempio, nei propri report periodici l’Ipcc (intergovernamental panel for climate changes) indica sì le cause e le entità delle emissioni, ma parimenti ricorda come il nucleare sia un rimedio di altissima importanza per mitigare il fenomeno. Peccato gli ambientalisti puntino sempre e solo il dito sui problemi elencati, spesso deformandone persino l’entità, salvo poi sostenere che l’Ipcc vada preso con le pinze quando si parli di centrali atomiche. Il trionfo del cherry picking.

Ma veniamo appunto alla comunicazione, a partire dall’ormai frusto tormentone che alla Terra mancherebbero solo dieci anni prima della catastrofe climatica irreversibile. Classico caso di come urlando “Al lupo! al lupo!” alla fine la gente non ci crede più e magari non vede più il lupo quando arriva davvero. Per esempio, risale al 1989 il primo articolo di cui sono venuto a conoscenza che stabiliva in dieci anni la scadenza per la salvezza. Era un pezzo comparso l’11 febbraio 1989 su La Repubblica dal titolo “Dieci anni per salvare la Terra”, a firma Arnaldo D’Amico. In quel frangente era il World Watch Institute a lanciare l’allarme, definito all’epoca “senza dubbio il più drammatico” dei sei pubblicati fino a quel momento. Contrariamente a quanto ormai accertato oggi, si affermava anche che l’energia nucleare non fosse una valida alternativa poiché troppo costosa (Cvd).

Sempre su La Repubblica, nel settembre 2013, quindi quasi 25 anni dopo, altro articolo pressoché fotocopia dal titolo “Dieci anni per salvare il Pianeta”, a firma Antonio Cianciullo. Cambiava in tal caso l’istituto di riferimento: al rapporto del World Watch Institute si era infatti sostituito quello del citato Ipcc.

Si spera quindi che altri redattori di La Repubblica non titolino “Dieci anni per salvare il Mondo” nel 2038 e “Dieci anni per salvare il Globo” nel 2063. (Prego i lettori di incaricare i propri figli e nipoti di verificare, perché io per l’epoca non ci sarò di certo più). Perfino i film di fantascienza hanno spostato la collocazione temporale delle loro trame molti secoli in là nel futuro, poiché hanno capito che pochi decenni servivano solo a farsi prendere in giro quando fosse divenuto possibile verificare l’inesistenza dei fatti ipotizzati. Esempio classico “1999 Odissea nello spazio”. Meglio sarebbe stato collocare la serie tv nel 2999, a scanso di equivoci.

Proseguendo sul tema “decennio e poi Armageddon”, nel 2019 Greta Thumberg citava le posizioni di alcuni climatologi, suoi rifermenti scientifici, secondo i quali si doveva invertire la tendenza entro il 2030 o i cambiamenti climatici sarebbero stati drammatici e irreversibili. Altri dieci anni, quindi.

Nel 2021 è stato poi il turno di Luca Mercalli, il noto climatologo in farfallino spesso presente in televisione e sui media in genere. Secondo Mercalli al Pianeta mancherebbero solo, indovinate, dieci anni per salvarsi.

Insomma, è per lo meno da 32 anni (probabilmente di più, ma non ne ho memoria) che si afferma che alla Terra ne restino solo dieci. E i negazionisti dei cambiamenti climatici ringraziano, trovando ogni volta un rafforzamento in più delle proprie tesi. Del resto, i profeti di sventura hanno da sempre terrorizzato la popolazione con Armageddon che mai sono arrivati. Quindi, perché mai dare credito a quelli di oggi? Del resto, sono rappresentanti dei medesimi orientamenti ideologici che vaticinavano l’imminente fine del petrolio già nei lontani anni ’60. E lo scetticismo ingrassa.

Che credito dare poi ad Al Gore, ex vicepresidente americano, quando sostenne nel 2007 che le calotte polari si sarebbero sciolte entro il 2013? Un’affermazione tratta, secondo i media, dagli scienziati. Sì, ma ni. Lo scenario di Gore per il 2013 era solo uno dei tanti fra quelli tratteggiati da un gruppo di ricercatori che avevano sviluppato diverse simulazioni giocando con molteplici variabili che potevano influire sul clima. Quella presa da Al Gore era il worst case, il caso peggiore, con un incremento di 4°C della temperatura media globale in soli sei anni.

Un’eventualità che non era di per sé impossibile, ma che aveva una probabilità di verificarsi ampiamente sotto lo zero virgola per mille. Infatti non si è verificata. A nulla valsero le puntualizzazioni di uno degli scienziati chiamati in causa, un climatologo dal cognome polacco immemorizzabile (infatti me lo sono scordato). E così, mentre la voce della scienza venne fatta passare in secondo piano, prendendone solo la parte che più interessava, la profezia di Al Gore andò ad aggiungersi alle molte altre svanite nel nulla negli anni precedenti. E vai col negazionismo a tutta birra, sempre più ricco di argomenti in tasca.

Non possono nemmeno mancare critiche circa i testimonial scelti per la campagna di sensibilizzazione sul tema, come per esempio Leonardo di Caprio. La star americana intervenne alle Nazioni Unite con un discorso toccante, pieno di espressioni facciali e mimica coerenti con le parole (è un attore, del resto), sollecitando un profondo cambiamento negli stili di vita delle persone o per il Pianeta sarebbero stati disastri tanto gravi quanto imminenti. Peccato Di Caprio ami passare le proprie vacanze su yatch giganteschi che in un solo giorno di navigazione brucino tanto combustibile quanto io ne potrò consumare in tutta la vita con la mia utilitaria 1.6 diesel Euro 6. Far quindi sentire la gente comune presa per i fondelli da ricchi e viziati testimonial non è che sia il viatico migliore per trasferire il messaggio desiderato. Anzi, la reazione rischia di essere quella opposta per pura ribellione da classe sociale.

Non parliamo poi della traversata atlantica fatta da Greta Thunberg quando doveva andare a New York per parlare anch’ella alle Nazioni Unite. Non volendo usare l’aereo, perché inquina, e non trovando sufficiente un collegamento via Zoom o Skype, ci andò con un’imbarcazione milionaria messa a disposizione e gestita da Pierre Casiraghi, figlio di Stefano Casiraghi e Carolina di Monaco. Ovvero il rampollo di una delle famiglie regnanti europee, quella di Montecarlo, che è nota per lo più per il lusso, lo sfarzo e i miliardi accumulati grazie alle tasse agevolate a favore dei ricconi di mezzo mondo che abbiano spostato lì la propria residenza. In pratica, il simbolo di quel mondo capitalistico e sprecone che la giovane svedesina afferma di contrastare. Chi non ha percepito la stortura comunicativa dell’evento, sostenendo che l’importante è il messaggio (!), è quindi parte del problema, a partire da giornali e tv.

Per giorni i media si focalizzarono infatti sul vasino in cui Greta avrebbe fatto la pipì in mare, con una morbosità imbarazzante. Nessuno si premurò invece di specificare che Casiraghi sarebbe tornato indietro mica sulla barca, bensì in aereo. A recuperare l’imbarcazione e a riportarla nel Principato ci avrebbe pensato un equipaggio privato appositamente volato a New York. Più i voli aerei di chi Greta segua passo passo, essendo ormai un fenomeno mediatico che si muove con diverse persone perennemente al seguito. Ovviamente anche loro in aereo. In pratica, per non prendere l’aereo lei ha fatto volare una mezza dozzina di persone al posto suo. E questo la gente comune la fa incazzare, piantatevelo nella testa, soprattutto dopo il discorso a vene gonfie che la ragazza fece all’Onu intimando agli adulti di vergognarsi.

Certi messaggi, condivisibili per lo meno negli intenti, si avvantaggiano infatti della simpatia, della coerenza e quindi della credibilità che i testimonial sono in grado di offrire al pubblico. Ergo, non ci siamo affatto se si ottiene il risultato opposto a causa proprio della mancanza di simpatia, coerenza e credibilità.

A soffiare ulteriormente nelle vele al negazionismo climatico sono state poi altre campagne stampa abbastanza deformanti, come quelle che seguono sistematicamente ogni evento catastrofico, dall’alluvione agli incendi. Che i cambiamenti climatici abbiano un peso sui trend di questi fenomeni è palese. Magari meglio sarebbe però evitare di presentarli tutti come fatti inauditi, mai accaduti prima: tutta colpa dei cambiamenti climatici. Accadde per esempio dopo che Zermatt venne invasa da un’alluvione nel 2019. Mai accaduto prima? Mica tanto: secondo uno studio sviluppato sulla Val D’Aosta dal citato Luca Mercalli eventi similari si sarebbero abbattuti sulla valle sin dalla fine dell’ottavo secolo, cioè circa 1.200 anni fa. Più volte Aosta venne alluvionata nei secoli passati, come pure diversi eventi simili a quello di Zermatt hanno provocato morte e distruzione in epoche in cui eravamo meno di un miliardo sul Pianeta e andavamo al massimo a cavallo. Quindi anche no: serietà impone di cambiare toni e parole dando ad esse il giusto peso e significato.

Gli incendi in Canada del 2020? Mai visti prima? No: secondo il National Forest Database canadese il picco per l’area boschiva andata distrutta fu nel 1988 e il numero massimo di incendi spettò al 1989 (oggi purtroppo fuori scala temporale che attualmente parte dal 1990). Quindi il clamore mediatico improntato al “mai visto prima” si trasformò anche in quel caso in una meravigliosa leva nelle mani dei negazionisti. Su Siberia e Australia non so, non ho serie temporali a portata di mano, quindi non mi esprimo. Cosa che se i giornalisti facessero di sistema sarebbe meglio per tutti.

E poi, dai, mostrare foto di ghiacciai scattate nel 2017, comparandole con quelle dei primi anni 50’, ha senso? Sì, lì per lì, ma poi il ghiacciaio durante l’estate arretra ancora un po’ e scopre un rifugio costruito dagli Alpini nel 1917 in piena Prima Guerra mondiale. Questo perché gli ultimi anni ’40 sono stati fra i più freddi del secolo scorso, mentre quelli a cavallo del Primo Conflitto furono decisamente più temperati. Significa quindi che il cambiamento climatico non esiste? Niente affatto, ma in tal guisa può essere spacciato da chi si sia legata al dito la precedente comparazione fotografica, gongolando di gusto.

Il global warming non va infatti sostenuto o negato in base a eventi puntuali e locali, poiché l’analisi del clima va sviluppata in chiave temporale di medio e lungo periodo e, appunto, su scala globale. La nevicata a marzo sui monti abruzzesi con temperature sotto zero non può essere usata di per sé come prova che il riscaldamento globale non esiste, perché siamo in Abruzzo a marzo. Punto. Analogamente, le alluvioni in Germania dell’estate 2021 hanno numerosi precedenti nei secoli passati, debitamente documentati dai livelli idrometrici segnati sugli angoli delle case che erano già presenti per lo meno dal XVII secolo. Stupisce quindi che addirittura dei ricercatori di istituti pubblici affermino che tali fenomeni non avrebbero mai potuto verificarsi prima dell’era industriale. Ma tant’è…

Anche affermare che oggi gli eventi disastrosi siano addirittura raddoppiati è un “filino” forzata come informazione. Se si prendono infatti la popolazione e il Pil medio del ventennio 1980-1999 e li si compara con le medesime medie del ventennio 2000-2019, si evince come entrambi siano raddoppiati numericamente. Ergo, se un tornado abbattutosi nell’area “X” faceva un milione di dollari di danni e 10 morti nel 1990, non è che è raddoppiato di intensità perché nel 2010 distrugge beni per due milioni di dollari e uccide 20 persone. Perché nel frattempo in quell’area si sono moltiplicate le cose da distruggere e le persone da uccidere. Anche in questo caso il global warming non esiste? No, esiste, poiché le rilevazioni annue stanno aumentando, anche grazie all’intensificazione delle reti di rilevamento e dell’attenzione ai fenomeni. Ma parlare di raddoppio in base ai danni economici e ai morti, magari anche no: approccio interessante, ma fuorviante.

Ecco, il senso di questo approfondimento non è perciò quello di verificare o negare il global warming. Solo un cieco potrebbe negarlo. Semmai è quello di ricordare che non esistono bugie a fin di bene. La verità fattuale va trasmessa infatti così com’è, senza scandalismi giornalistici, senza cavalcate ideologiche di qualche politico o di qualche associazione in cerca di visibilità (e quattrini). Soprattutto, bisognerebbe comunicare senza fare alcunché che poi possa essere strumentalizzato dai negazionisti per portare acqua al proprio mulino. Perché in tal caso meglio sarebbe stato tacere, anziché porgere i sassi a chi vorrebbe usare la fionda.

Molto più utile sarebbe invece spiegare alla popolazione perché le risposte al problema non sono la dieta vegana, né i pannelli solari oggi adorati come divinità. Né sarà il biologico a salvare la Terra, né tantomeno l’avversione a diesel, nucleare, ogm, concimi e “pesticidi”. Le tecnologie per produrre più energia a basso impatto ci sono, basterebbe usarle invece di cavalcare e sobillare paure. Idem per le tecnologie da impiegare nei processi industriali e agricoli, atti a massimizzare le rese minimizzando le emissioni per unità di cibo prodotta.

Poi, va da sé, se ognuno sprecasse meno risorse, andrebbe meglio per tutti. Ma si teme che nessuno gradisca spegnere il riscaldamento in inverno o andare al lavoro in bicicletta in primavera, magari accontentandosi di una settimana di ferie in Romagna anziché volare per 12 ore verso paradisi tropicali lontani. Perché sempre tardi sarà quando le emissioni verranno soppesate anche in base alla loro priorità e indispensabilità, anziché solo per settore produttivo: un chilo di CO2 emesso per produrre cibo non può essere infatti equiparato a un chilo di CO2 emesso per farsi un giro domenicale al lago solo perché a casa ci si annoia, oppure per illuminare a giorno un casinò di Las Vegas consumando una quantità di energia pari a quella utilizzata da certi Paesi africani. Una maggiore equità di valutazione, questa, che servirebbe magari anche per intaccare quella rugginosità comportamentale e sociale che è forse la più subdola complice del cambiamento climatico stesso.

Perché parlare e denunciare è sempre facile, modificare le macrodinamiche globali un po’ meno. Prova ne è lo scellerato Green Deal europeo, quello che con il suo Farm2Fork aumenterà al 25% la superficie continentale a biologico (triplicandola) e si propone di convertire il 10% delle attuali superfici agricole dando loro più finalità ambientali e paesaggistiche che produttive.

Ergo, compreremo più cibo da quei Paesi che hanno emissioni più alte per unità prodotta, aggiungendo a queste anche quelle necessarie per il trasporto intercontinentale delle merci. Quando nel vostro piatto ci sarà pasta fatta con grano uzbeko anziché italiano, sappiatelo: state inquinando più di prima, non meno. Anche e soprattutto se quel grano è dato per biologico o “antico”. Se infatti devo coltivare il doppio o il triplo della terra per produrre la stessa quantità di cibo, le emissioni salgono, mica scendono. Un conto semplice e immediato che però non compare praticamente mai sui media italiani ed europei, da tempo proni ai proclami pseudo-ecologisti dell’ineffabile Ursula Von Der Leyen. Il tutto, ignorando bellamente le posizioni di scienziati ai cui occhi i nuovi orientamenti appariamo giustamente ipocriti se non addirittura folli.

Noi Europei potremo quindi vantarci col mondo di essere divenuti più Green, salvo aver causato un innalzamento globale delle emissioni solo per soddisfare quello spocchioso atteggiamento pseudo ecologista che anziché aiutare a risolvere i problemi li sta aggravando sempre più, raccontando favole, vendendo illusioni e moltiplicando bugie, supposte a fin di bene quando invece sono tutt’altro.

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Agricoltura intensiva: sinonimo del Male o solo agricoltura moderna?

Viene chiamata con disprezzo “intensiva”, quando è invece il baluardo della nostra sicurezza alimentare

L’agricoltura intensiva è brutta e cattiva a prescindere, come sostengono ambientalisti, biologici e altre associazioni a questi affini, come per esempio Slow Food? Oppure è la forma di agricoltura più sostenibile attualmente possibile?

Non c’è verso: quando qualcuno vuole denigrare l’agricoltura parte affibbiando un’accezione dispregiativa al termine “intensiva“. Quasi che nell’intensità di qualcosa vi debba per forza essere qualcosa di brutto. Certo, se si parla di un terremoto magari è così, ma ci sono anche altre situazioni ove il ribaltamento della percezione “positivo-negativo” appare figlio unicamente di preconcetti ideologici o di interessi di parte. Interessi pecuniari neanche tanto invisibili che spesso abbondano in quelle lobby che considerano bieco l’aspetto economico solo quando il profitto sia quello degli altri.

Intanto, cosa si intende per intensivo? Di certo non quello che diffonde Carlo Petrini di Slow Food, quando intervenendo nel dibattito sull’agricoltura biodinamica dispensa alcune delle sue molteplici perle ideologiche, ovvero quella per la quale i biologici (supposti buoni) sarebbero soggetti a una molteplicità di controlli, mentre invece quelli che “usano i pesticidi a manetta” (gli “intensivi”) non soggiacerebbero a controllo alcuno.

Trattasi di Petrini, quello che da decenni propina chicche del genere, oggi contro la chimica, domani contro gli ogm, dopodomani contro gli allevamenti che non siano quelli che piacciono a lui. Non dovrebbe quindi stupire più di tanto: Slow Food è diventato una potenza esaltando le piccole produzioni di nicchia e le varie forme di agricoltura che di fatto sono decisamente poco produttive, spacciando poi questa improduttività per sostenibilità. Ovvio che anche nel caso dei “pesticidi a manetta” affermi cose che non corrispondono al vero. E vedremo presto perché, partendo da una disamina dei due differenti approcci colturali, bio e non.

I Bio sono davvero quelli “buoni”?

In primis, i biologici non sono affatto i “buoni” a prescindere che vengono presentati. Tranne pochi sognatori intimamente convinti di ciò che fanno, per lo più sono imprenditori che ben lungi dall’essere angeli della salute e dell’ambiente hanno aderito ai disciplinari bio solo per spuntare qualcosa di meglio alla vendita dei prodotti.

Poi, però, di fronte alle tante difficoltà oggettive di mantenere le promesse fatte ai consumatori, in molti mollano, come per esempio certi viticoltori veneti bio che stanno lasciando il protocollo soprattutto a causa dell’impossibilità di controllare la Flavescenza dorata. Una patologia letale per la vite, questa, che si può al momento controllare solo sterminando il suo vettore, lo Scafoideo, un insetto. E di insetticidi sufficientemente efficaci in tal senso il bio non ne ha, dal momento che non basta ammazzarne parecchi: bisogna ammazzarli tutti, o qualcuno di essi il fitoplasma lo trasmette comunque rendendo pressoché inutili i trattamenti, per giunta costosi.

Inoltre, attenzione: per la Xylella degli olivi, veicolata anch’essa da una cicalina parente dello Scafoideo, i bio stanno pure peggio, visto che vi sono solo due prodotti al momento autorizzati: uno contiene estratto di piretro (consulta l’etichetta per vedere il profilo del prodotto), l’altro è a base di olio essenziale di arancio dolce (consulta l’etichetta per vedere il profilo del prodotto). Giudicate voi come siamo messi.

Ecco alcuni dei (vari) motivi per i quali molte aziende stanno abbandonando la certificazione bio, non solo nelle aree viticole citate, bensì un po’ in tutta Italia (Leggi l’analisi di Sinab). Un fenomeno che cozza quindi con gli obiettivi del Green Deal di portare le superfici agricole europee al 25% a biologico, praticamente triplicando i valori attuali. Forse perché la sostenibilità del bio è molto presunta, ma poco reale? Chissà.

E quelli che abbandonano sono quelli onesti, che pur di non fare porcate mollano e tornano all’agricoltura integrata, cioè quella che se fatta con scrupolo bagna il naso al biologico nella quasi totalità dei casi, presentando gli impatti minori per unità di cibo prodotta.

Molti altri, decisamente orientati più alla furbizia che alla coerenza, sfruttano invece – e sapientemente – le molteplici eccezioni che il protocollo prevede, come per esempio la possibilità di seminare semente non certificata bio in caso di una certa varietà non se ne trovi di certificata. E se la semina, primo atto vitale del processo produttivo, deve contare sulla semente prodotta dai “biechi intensivi“, già si dovrebbe comprendere quanto l’intero impianto crolli agli occhi di chiunque sia dotato di un minimo senso critico. Perché per produrre quella semente sono stati utilizzati “pesticidi” e concimi chimici, quindi esattamente quello che i bio si vantano di osteggiare, salvo poi utilizzarli anche loro per interposta persona.

Ipocriti.

Stesso discorso per i concimi: molti di questi, organici, provengono in gran parte da materie di partenza derivanti da agricoltura “intensiva”, divenendo però utilizzabili in bio grazie a una sibillina frase che include le parole “allevamenti industriali” come peste da evitare. Cosa di preciso voglia dire la parola “industriale” non si sa. Un basso livello di benessere animale? Allora siamo a posto, perché la maggior parte degli allevamenti “intensivi” rispetta le attuali leggi sul tema, sfuggendo in tal modo dal concetto di “industriale”. E ciò permette quindi a un sacco di coltivatori bio di utilizzare concimi organici provenienti da agricoltura “intensiva”, direttamente o indirettamente, in tutto o in parte.

Ipocriti.

Terzo: la certificazione bio avviene a pagamento. Cioè è una compravendita dove il controllore è pagato dal controllato. Gli enti di certificazione sono infatti fornitori e gli agricoltori clienti. Un po’ difficile pensare che il vigile multi volentieri l’automobilista che gli paga direttamente lo stipendio, da privato a privato. Brutte sorprese potrebbero infatti giungere in caso i controlli dovessero passare a terzi indipendenti, come avviene a carico degli agricoltori che seguono invece i protocolli di difesa integrata (si dice così ormai da un pezzo, cari i miei cultori delle terminologie vintage).

Ipocriti.

Quarto: ogni due per tre si scopre qualche malghino, tipo utilizzare agrofarmaci e fertilizzanti non ammessi in bio, oppure comprare sul mercato aumma-aumma prodotti non bio, farli entrare dalla porta di dietro come tali, salvo poi farli uscire il giorno dopo da quella davanti col bollino bio sopra. Tutti esempi tratti non a caso, in quanto la cronaca periodicamente se n’è occupata in passato e continua a occuparsene nel presente, pur dovendo ammettere che a cadere sotto le verifiche è ovviamente la punta dell’iceberg, esattamente come per ogni altra azione illegale del Mondo. Ciò dovrebbe fare anche meditare sui reali livelli di produttività del biologico, probabilmente molto inferiori a quelli ufficiali dichiarati. Per non parlare poi delle certificazioni farlocche emerse più volte ai controlli nei porti su intere navi in ingresso in Italia, cariche di merci ufficialmente bio ma in realtà ben altro.

Alcuni comodi esempi di cronaca qui, qui, qui, qui, qui, qui e qui. E mi fermo perché son stufo.

Ipocriti.

Quinto: usare fiumi di gasolio pur di non utilizzare un diserbante non è il Bene che sconfigge il Male, è solo un male necessario che si propone come alternativa di un altro male necessario.

Ipocriti.

Sesto: da luglio 2018 oltre 3.300 varietà coltivate sono state classificate ogm dalla Corte di Giustizia europea. Cioè quelle varietà ampiamente utilizzate, anche dal biologico, che sono state ottenute per mutagenesi tramite radiazioni o sostanze mutagene (una sintesi qui). Quindi, continuare a sostenere di non utilizzare ogm è ormai una bugia insopportabile.

Ipocriti.

Ergo, con quanto sopra elencato, appare difficile sdoganare l’immagine di agricoltori buoni, quelli bio, a confronto con una manica di amanti dei “pesticidi”, ovvero i non bio. Ma andiamo a vedere questi ultimi cosa fanno, perché esistono e perché non sono affatto il male perennemente descritto.

Il physique du rôle del cattivo. Ma che davèro?

Io non sono cattiva, mi disegnano così…” diceva Jessica Rabbit, la fatalona del film misto d’animazione “Chi ha incastrato Roger Rabbit?“. Infatti era innocente, sebbene ogni indizio gravasse su di lei. Quindi, gli agricoltori che seguono protocolli di agricoltura integrata, bollata spregiativamente per “intensiva”, sono davvero cattivi, o solo li disegnano così?

In primis, spieghiamo il perché si è passati da un’agricoltura fondamentalmente di sussistenza a una altamente specializzata e produttiva.

Nell’ultimo secolo in Italia si è dimezzata la superficie coltivabile e la popolazione è salita da 38 a 60 milioni. In sostanza, abbiamo ormai poco più di 2.000 mq di superficie coltivabile a testa contro gli oltre 6.300 di un secolo fa. Una riduzione di quasi il 70% dei terreni coltivabili che dovrebbe spaventare molto i cittadini, specialmente quelli che reclamano cibo italiano. Ergo, calando le superfici disponibili e aumentando la domanda alimentare, ogni metro quadro di terra deve produrre la quantità maggiore possibile di cibo. Ogni altra soluzione è pertanto sbagliata a prescindere, in quanto obbliga a gonfiare le già abbondanti importazioni dall’estero, con le conseguenze tipo quella dell’ossido di etilene contenuto in partite di alimenti provenienti dall’India e che hanno contaminato diversi prodotti, bio inclusi. Uniche eccezioni, il vino e alcuni specifici prodotti tipici: lì la quantità è comunque subordinata a una qualità obbligatoriamente superiore. Ma diciamocelo: se dalle tavole dovessero scomparire pane e verdura sarebbe molto peggio che se scomparissero vino e formaggi Dop. Buoni eh? Redditizi eh? Ma non certo indispensabili. E a me non è che aggradi molto bere un italico vino Docg, dovendolo però accompagnare a del cibo importato per tre quarti dall’estero perché di quello italiano non siamo più in grado di produrne abbastanza.

Come dite? Sprechiamo cibo quindi è inutile produrne così tanto? Eccovi serviti con una spiegazione facile facile sulla fallacia di tale approccio.

Altro punto: mentre un secolo fa eravamo in buona parte contadini, a coltivare i campi oggi sono rimasti quattro gatti. Sebbene questi abbiano la metà della terra da coltivare rispetto ai loro bisnonni, agli attuali agricoltori se venissero tolti concimi chimici, sementi selezionate, agrofarmaci e macchinari evoluti, non resterebbe altro da fare che cambiare mestiere, lasciando gli Italiani a contendersi a colpi d’ascia i pochi presidi Slow Food ancora rimasti nei negozi con le ragnatele al soffitto. Perché a chiedere di abolire si fa presto, a comprenderne le disastrose conseguenze molto meno. Oppure basta decidere di importare quasi tutto dall’estero, bio incluso, e lasciare andare a ramengo l’agricoltura italiana. Son scelte…

Ma proseguiamo con un’altra stupidaggine caduta fuori dalla bocca di Petrini: i controlli per gli agricoltori “intensivi” non ci sarebbero? Ma quando mai. Ormai anche gli agricoltori non bio sono soggetti da anni a una mole burocratica asfissiante, con gli acquisti di prodotti chimici legati a uno specifico patentino, registri di carico scarico, magazzino, quaderni di campagna, registri dei trattamenti, documenti di acquisto e di vendita, come pure protocolli rigidissimi (spesso demenziali) imposti loro dalle industrie alimentari e dalla grande distribuzione organizzata. Se li rispettano, bene, prendono i quattro soldi che gli offrono e tirano a campare. Se non li rispettano… ciao. Quindi no: i controlli ci sono e anche severi, altro che.

Dal punto di cui sopra vien da sé come tali agricoltori non usino affatto i pesticidi “a manetta”, espressione che personalmente trovo disgustosa e maramalda. Dal 1990 a oggi l’uso dei “pesticidi” è infatti diminuito del 43,7%, con il 70% delle sostanze attive utilizzate fino alla fine degli Anni 80 che sono state eliminate tramite il processo della Revisione Europea, causando anche seri problemi ai produttori da tanto severo e frettoloso è stato questo processo. Oggi gli agricoltori italiani usano circa un chilo di sostanze attive per ogni abitante. In sostanza, con solo un chilo di agrofarmaci, distribuito da Bressanone a Ragusa, si sfama un Italiano per un anno. Chi quindi vi vuole far credere che gli agricoltori italiani usino “pesticidi a manetta” vi sta raccontando una balla. (Qui la spiegazione)

Inoltre, le campagne di monitoraggio dei residui sugli alimenti confermano anno dopo anno che la quasi totalità dei prodotti sono nei limiti di Legge, valori questi da ritenersi del tutto sicuri per la salute. (Qui la spiegazione). Chi però non concordasse su tale affermazione, prego, vada pure a Parma e protesti con gli esperti di Efsa che sostengono tale posizione.

Come dite? I “pesticidi” sono presenti nelle acque? Certo, cari i miei sedanoni, come sono presenti i “vostri” idrocarburi, le “vostre” microplastiche, i “vostri” metalli pesanti e perfino i “vostri” medicinali. Quelli che assumete con estrema disinvoltura (alcuni sì a “manetta”) salvo poi pisciarli nel water e farli finire in tal modo nei fiumi.

Cioè nelle acque finisce tutto quello che serve per farvi lavorare e vivere in modo confortevole, incluso permettervi di comprare cibo bio convinti di salvare il Mondo. E nel frattempo, in acqua ci finisce tanta di quella roba al cui confronto i “pesticidi” diventano solo una delle tante e neanche la principale, visto che le concentrazioni rinvenute sono quasi tutte al di sotto delle soglie alle quali potrebbero essere nocive per gli organismi acquatici. Nell’acqua potabile manco a parlarne: se pensate che dai vostri rubinetti esca veleno fluorescente, potete stare sereni e mandare a stendere tutti quei terroristi di mestiere che vi hanno fatto credere una scempiaggine del genere.

Vero: anche tra gli agricoltori non bio ci sono dei veri e propri delinquenti. Tipo quelli che smaltiscono fanghi illegali nei propri campi. Ma i delinquenti sono ovunque e se i bio si ammazzano di spiegazioni nel tentativo di far passare i propri di manigoldi come rarissime pecore nere, non si vede perché ciò non debba valere anche per tutti gli altri. E in tal caso sì che sono davvero poche, le pecore nere.

Ergo: l’agricoltura definita spregiativamente “intensiva” è quella che vi dà da mangiare cibo sicuro e a prezzi accessibili per 12 mesi l’anno. Non usa la chimica a “manetta”, segue anch’essa protocolli rigidi ed è pesantemente sobbarcata da burocrazie e controlli sfinenti.

In più, è mica colpa dei pochi agricoltori rimasti se la gente si è trasferita in città, lasciando a coltivare la terra un manipolo di vituperati soggetti, i quali per stare dietro alle dinamiche della domanda e dell’offerta di cibo hanno dovuto in fretta abbandonare molte delle pratiche antiche, come le trasemine, alcune rotazioni, l’allevamento di animali per procurarsi cibo e letame, etc.

Si chiama specializzazione colturale, perché se a coltivare 300 ettari siamo rimasti in due, dobbiamo fare delle scelte ben precise, altrimenti non ci stiamo dietro e dai nostri campi esce meno cibo di quello che potremmo produrre. E in tal caso voi ne comprate di importato, senza forse nemmeno comprendere il danno fatto al vostro stesso Paese.

Ergo, state alla larga da boriosi guru laureati in lettere, storia, architettura o scienze politiche (o aspiranti tali), ma che si piccano di parlare di agricoltura. Come pure diffidate dei sedicenti studiosi che raccontano bucoliche panzane dalle loro cattedre decisamente immeritate. L’agricoltura per andare avanti non può certo voltarsi indietro. Gli “antichi saperi contadini”, tanto romantici quanto anacronistici, non servono ormai più a mezzo tubo, visti la drammatica metamorfosi degli scenari agrari dell’ultimo secolo. A meno di declinarli in chiave moderna, magari utilizzando quelle biotecnologie che, ipocritamente, il bio ancora osteggia.

Se lo si capisce, bene. Altrimenti c’è sempre il resto del Mondo intorno a fregarsi le mani per tutto il cibo che, loro, manderanno a noi. Ossido di etilene incluso.

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