Il falso mito dell’Uomo frugivoro

panino-onnivoroQuando i fatti non coincidono con la fede, spesso la fede li rigetta rifugiandosi nella fantasia. È quanto succede per esempio con il “fruttarismo”, movimento di tipo alimentare che non si accontenta di giustificare se stesso attraverso rispettabili scelte personali, bensì cercando di convincere il Mondo che l’Uomo sarebbe “geneticamente” frugivoro, in grado cioè di cibarsi solo di frutta e pochi altri ortaggi. Secondo questa teoria sarebbe quindi chi mangia cose diverse dalla frutta a seguire una dieta aberrante e deviata. Poco importa se per affermare quanto sopra si debbano negare anche le più elementari basi della biologia, dell’antropologia e dell’etologia

Pare ieri quando la scrivania era sommersa da libri e dispense di “Anatomia e fisiologia degli animali domestici”, accompagnati dai relativi atlanti anatomici utili a visualizzare ciò che i testi spiegavano solo a parole. Studi impegnativi, quelli: bovini, equini, ovini, cunidi, suini e volatili. Tutti accomunati fra loro da qualcosa e differenziati da qualcos’altro: una meravigliosa caccia al dettaglio che spaziava fra organi e apparati, fra enzimi e metabolismi vari.

Poi, un battito di ciglia dopo e ti ritrovi a navigare su web, fra siti e social, ove trovi filmati e testi da far rizzare i capelli. Macché anatomia! Macché fisiologia! Tutto ciò che credevi di sapere ti si dice essere falso, perché la verità “scientifica” dei fatti ti vorrebbe fruttariano, ovvero mangiatore di sola frutta e poco più.

I vegetariani, a confronto, sembrano roba da matusa: infatti anche loro mangiano alimenti di origine animale astenendosi solo dal consumare carni. I vegani invece, che vanno un passo oltre, rinunciano anche a uova, latte e derivati, ma almeno legumi e cereali li mangiano eccome. I fruttariani no: il loro è uno stile alimentare che prevede solo frutta cosiddetta “dolce”, pomacee, drupacee etc., alcuni ortaggi (prevalentemente cucurbitacee e solanacee) e frutti cosiddetti “grassi”, come per esempio le olive. Oltre a rinunciare a ogni cibo di origine animale, essi escludono quindi anche legumi e cereali, come pure radici, fusti e foglie.

Tra i fari ispiratori di questo movimento è probabile ricada anche un professore di disegno, nato a Friburgo ed emigrato poi negli Stati Uniti, chiamato Arnold Ehret, (1868-1923), colui che si rallegrava del fatto che alle donne sottoposte alla sua dieta “del muco” scomparissero le mestruazioni, ritenute forse da Ehret manifestazioni biologiche innaturali e pertanto insane. Il buffo personaggio morì però a soli 55 anni, causa una caduta al termine di una conferenza. Alcuni maligni sghignazzano ancora oggi un po’ sadicamente, asserendo che Ehret sarebbe caduto lungo disteso solo perché le gambe non erano più in grado di sostenerlo. Oltre ad alimentarsi esclusivamente di frutta e insalatine, negli anni precedenti la morte egli aveva infatti sostenuto digiuni di varia lunghezza: 21 giorni, poi 24, poi 32, infine 49. Praticamente un fachiro. In effetti, sacco vuoto non sta in piedi, come dicono le nonne più sagge ai nipoti un po’ inappetenti. Ma solo Ehret sa le ragioni della sua fatale caduta e quindi appare inutile speculare oggi sui suoi livelli di glicemia e di pressione arteriosa.

Sia come sia, la sua cosiddetta “dieta del muco” fece storia, diffondendo la credenza che l’Uomo doveva purgarsi del muco che andava a ricoprire le pareti interne dell’apparato digerente quando si ingerivano cibi alieni alla natura umana (secondo lui), come per esempio carni e latticini. Digiuni prolungati e dieta pressoché fruttariana vennero individuati da Ehret quale risposta più idonea a questo tipo di “avvelenamento”.

Circa le implicazioni nutrizionali e sanitarie di queste scelte – e magari anche dell’equilibrio psicologico di Arnold Ehret e dei suoi seguaci – se ne potrà parlare forse in un altro articolo appositamente dedicato. Oggi si approfondirà invece un unico punto, cioè quello su cui si basa principalmente questo tipo di scelta alimentare: la convinzione che l’Uomo sia frugivoro in accordo con i propri ancestrali ominidi.

Tale posizione parte da alcune considerazioni fatte in passato da uomini di scienza, ovvero Georges Cuvier e Alan Walker. Il primo (1769 – 1832), si convinse che per l’Uomo, dalla notte dei tempi, i cibi più naturali fossero solo la frutta e altri vegetali succulenti. Ciò anche perché, essendo dotati di mani con pollice opponibile, gli ominidi potevano raccoglierli facilmente. Inoltre, secondo Cuvier le nostre mascelle e i nostri denti non ci consentirebbero di masticare erba come gli erbivori, ma nemmeno carni come i carnivori. A Cuvier forse sfuggì un piccolo dettaglio: l’Uomo non è né erbivoro, né carnivoro. È infatti un onnivoro, come si vedrà meglio in seguito. Quindi le sue elucubrazioni risultano oggi un pochino farlocche.

Indugiando ancora per un attimo sulla dentatura risulta poi alquanto ridicola la traduzione dall’inglese di “tuberculated molar” che si trova in alcuni siti apologetici della dieta fruttariana. In tali pagine web, al confine fra umorismo e necessità di cure, i “molari tuberculati”, cioè quelli che presentano un profilo reso ondulato dalla presenza di cuspidi, diventano “molari a forma di tubero”. Praticamente, a forma di patata. In effetti, masticare con dei denti “a patata” non deve essere affatto facile. Per fortuna non è così e i nostri molari sono perfettamente in grado di triturare il cibo che in quanto onnivori introduciamo nel cavo orale.

A parziale discolpa delle teorie di Cuvier, va detto che esse vennero prima che Charles Darwin (1809 – 1882) comunicasse al Mondo le proprie teorie sull’evoluzione. Pure la paleontologia era all’epoca decisamente arcaica e le conoscenze su cui si basava il buon Cuvier vennero nel tempo superate e arricchite dal lavoro di migliaia di altri scienziati a lui successivi. Le sue ipotesi sulla “frugivorità” dell’Uomo restano quindi solo delle pure illazioni, smontate ormai da tempo dalle conoscenze più recenti.

Il secondo riferimento scientifico del Mondo fruttariano, ovvero Alan Walker, è invece un antropologo della John Hopkins University, in Maryland. Irruppe sulla scena pubblica nel 1979, quando il New York Times pubblicò un articolo nel quale si riportavano altre teorie sull’Uomo frugivoro. Secondo Walker, in estrema sintesi, la dentina che ricopriva i denti fossili di alcuni australopitechi di 12 milioni di anni fa era troppo sottile. Insomma, quelli per Walker non erano denti da onnivoro, né tanto meno da carnivoro. Quei denti, secondo lui, potevano appartenere solo a ominidi che si cibassero esclusivamente di frutta, dolce e soprattutto morbida. L’habitus onnivoro dell’Uomo moderno sarebbe quindi per Walker una “aberrazione” recente, avvenuta solo pochi millenni fa. Alcuni attribuiscono alle glaciazioni la scelta degli Uomini di cibarsi di altri animali data la scarsità, appunto, di frutta. Peccato che i ghiacci non siano certo arrivati in Africa, ove a dispetto della frutta presente in abbondanza in molte aree del Continente Nero gli ominidi continuarono a evolversi in chiave onnivora fino agli attuali assetti umani e animali.

Come facesse Walker a essere così certo che quelle simpatiche bestiole si nutrissero solo di frutta resta quindi un mistero, perché quei denti erano perfettamente in grado di masticare anche i corpi mollicci dei lombrichi e delle larve degli insetti, fonte importante di proteine animali anche oggi, nel Terzo Millennio dell’Era moderna. Peraltro, nulla impediva loro di succhiare uova crude di rettili e volatili, né di masticare carni tenere e digeribili come quelle di gasteropodi e pesci.

Sia come sia, le affermazioni di Cuvier e Walker hanno alimentato la pessima abitudine di tirare in ballo la Scienza per giustificare i contenuti del proprio piatto. Un malvezzo che sta ultimamente dilagando, mietendo vittime fra le persone più ingenue e meno preparate proprio dal punto di vista puramente scientifico. In alcuni siti si possono infatti trovare numerose argomentazioni “scientifiche” a supporto della dieta fruttariana. Peccato che le prove “inconfutabili” portate dagli autori siano decisamente risibili. Vediamo perché, analizzando le caratteristiche dei diversi animali – erbivori, monogastrici e poligastrici – e ponendoli a confronto con animali onnivori come Uomo e Scimpanzé.

 

Apparato buccale

Iniziamo intanto a capire perché onnivori ed erbivori sono così differenti, poi si chiarirà perché la dentatura dei primi è del tutto idonea a masticare anche cibi di origine animale mentre quella dei secondi non lo è affatto.

Già osservando la forma delle arcate dentali si notano spiccate differenze fra onnivori come Uomo e scimpanzé ed erbivori, siano essi mono o poligastrici. Come osservato anche da Cuvier, la struttura buccale in questi ultimi è molto allungata, con gli incisivi staccati dai premolari e orientati in avanti, al fine di tagliare e strappare al meglio l’erba dal terreno. I molari mostrano una superficie esposta al cibo caratterizzata da ondulazioni atte ad aumentare l’effetto triturante durante la masticazione, la quale avviene prevalentemente per via rotatoria e non verticale, come per esempio accade nell’Uomo, nel quale i moti rotatori durante la masticazione sono alquanto ridotti rispetto a quelli degli erbivori. Non a caso, agli adolescenti che masticano il chewing-gum in modo troppo vistoso li si richiama dicendo loro di non “ruminare”.

Anche la forma del cranio è differente, con gli erbivori caratterizzati da un apparato buccale molto allungato che protrude vistosamente in avanti rispetto alla scatola cranica. All’opposto, gli onnivori mostrano la dentatura molto compatta a disegnare quasi due semicerchi e posta praticamente sotto al cranio stesso.

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Tab. 1: differenze fra i diversi animali, Uomo incluso, nel numero e nella composizione delle dentatura. Come si vede, le differenze si intuiscono già a livello numerico

 

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Fig. 1 Nei ruminanti (es. bovini, ovi-caprini), mancano gli incisivi superiori. Nei bovini i molari appaiono robusti e atti alla triturazione dei materiali vegetali, operazione che avviene non solo all’atto della brucatura, bensì anche nella ruminazione vera e propria, quando il bolo vegetale viene rigurgitato per essere ulteriormente affinato

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Fig. 2 Dentatura della pecora: molari e premolari costituiscono una sorta di mola che opera su due piani adiacenti, ottimizzando ulteriormente l’efficienza nella ruminazione

 

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Fig. 3 Nei cavalli sono presenti anche gli incisivi superiori, ma resta comunque la tipica forma a erbivoro, con gli incisivi ben separati da premolari e molari

 

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Fig. 4 Conigli: oltre al caratteristico arco dentale allungato, i conigli mostrano la peculiarità degli incisivi ad accrescimento indefinito. Data la forte usura della masticazione, gli incisivi dei conigli continuano a crescere per compensare le parti usurate

 

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Fig. 5 Uomo e Scimpanzé: identico il numero, simile la forma e la funzione dei denti. Nei simpatici primati, con i quali condividiamo oltre il 96% del Dna, la dentatura appare però più robusta

 

Già alla prima osservazione, gli erbivori, mono o poligastrici che siano, si mostrano quindi “nati per brucare”. La Natura li ha infatti attrezzati con bocche idonee alla raccolta diretta del cibo. Negli onnivori, Umani o Primati che siano, l’uso delle mani con pollice opponibile e la postura eretta non hanno richiesto alcuna modifica del cranio a fini alimentari. Altra osservazione, questa, già prodotta perfino da Cuvier. Del resto, se la Montagna non va da Maometto è Maometto che va alla Montagna: se il cibo può arrivare alla bocca, non c’è infatti bisogno che la bocca si allunghi fino al cibo. Resta però da chiarire quali siano i tipi di cibo che le mani possono e devono portare alla bocca. Perché la frutta è solo una parte di ciò.

 

Enzimi e saliva

Anche su alcune affermazioni circa enzimi e saliva c’è molto da discutere. Certe pretese di equiparare l’Uomo agli erbivori partono infatti da un altro presupposto sbagliato: nella saliva umana vi sarebbe solo ptialina, ovvero un tipo di amilasi atto ad aggredire gli amidi posti in bocca. Peccato che gli amidi siano presenti soprattutto nei semi, come per esempio nei cereali e nei legumi, anche se possono essere rivelati nella frutta e in altri vegetali. Gli spaghetti per esempio contengono oltre il 60% di amidi e quasi zero di zuccheri liberi. Una mela, al contrario, contiene solo lo 0,05% di amido (se con la buccia) e oltre il 10% di fruttosio, lo zucchero semplice della frutta. Quindi resta per lo meno buffo affermare che l’Uomo debba mangiare solo frutta visto che proprio la Natura lo ha attrezzato di un enzima, la ptialina appunto, atto a digerire soprattutto l’amido. In tal senso, le alimentazioni più funzionali a questo aspetto restano quindi l’onnivora, la vegetariana e la vegana. Ai fruttariani l’amilasi della loro saliva serve infatti a poco se non a nulla.

Ma non vi è solo la ptialina su cui discutere. Nel nostro organismo vi sono per esempio anche le lipasi, ovvero gli enzimi che demoliscono i grassi. Sono enzimi differenti, capaci di demolire acidi grassi altrettanto differenti. Uno dei tipi di lipasi codificata dal Dna umano, quindi anche da quello dello Scimpanzé, è quella che permette di spacchettare i trigliceridi riducendoli a glicerolo. E i trigliceridi sono grassi di origine anche animale, mica solo vegetale. Del resto, se ti trovano i trigliceridi alti nel sangue, mica ti dicono di eliminare i fagioli dalla dieta, bensì formaggi, salumi e bistecche.

Nella mela, con buccia, vi è solo lo 0,17% di grassi, mentre nei fagioli borlotti ve n’è l’1,23%, nel frumento il 2,5%, nel filetto il 21,83%. Se quindi vi chiedete perché mai la Natura ci abbia attrezzati con delle lipasi atte a digerire trigliceridi, inclusi quelli di origine animale, la risposta dovrebbe venire da sé: siamo geneticamente progettati per digerire anche quelli. Quindi l’assunzione di alimenti di origine animale è perfettamente funzionale alle nostre capacità digestive anche per quanto concerne gli acidi grassi.

Infine la pepsina, la quale attacca le proteine e le scompone nei loro componenti base, ovvero gli aminoacidi. Questo enzima, prezioso per la digestione delle proteine, viene riversato nel lume gastrico in forma di pepsinogeno, ovvero il suo precursore. Per convertirsi in pepsina il pepsinogeno ha bisogno di un ambiente acido. Tanto più sarà acido lo stomaco, tanto più veloce e completa sarà la trasformazione da pepsinogeno a pepsina, come pure quest’ultima lavorerà meglio nel digerire le proteine. Il range ottimale di pH (ovvero il parametro che descrive l’acidità o la basicità di un mezzo) a cui lavorano pepsinogeno e pepsina è molto basso. L’optimum è fra 1,5 e 3 su una scala da zero a 14. A sette il pH si definisce infatti neutro. Se il pH gastrico è di norma fra 3 e 4 quando a riposo, esso scende velocemente fino a valori fra 1,5 e 2 quando siamo in fase di digestione, specialmente se nel cibo vi siano molte proteine da digerire. Gli ioni idrogeno necessari all’abbassamento del pH vengono infatti pompati nel lume gastrico grazie al meccanismo noto come “pompa protonica”. Non a caso, quando vi siano patologie a carico dell’apparato gastrico legate ad acidità eccessiva si assumono medicinali noti come “protettori gastrici”. Questi non fanno altro che inibire i meccanismi alla base della pompa protonica riducendo la secrezione gastrica di ioni idrogeno, responsabili dell’abbassamento del pH. Quindi, a dispetto di quanto sostenuto da certi svitati che infestano il web, tutto fa difetto all’Uomo tranne che gli enzimi atti a digerire le proteine, incluse quelle animali, come pure l’acidità gastrica che ci contraddistingue è esattamente quella che serve per farli funzionare al meglio.

Ovviamente, c’è chi furbescamente mette sul tavolo paragoni alquanto sciocchi fra Uomo e predatori carnivori. Uno squalo, in effetti, ha uno stomaco molto più efficiente del nostro a digerire cibi animali. Per forza… quando il predatore ingoia una foca lo fa per intero, mettendosi nello stomaco tutto: carne, ossa, pelle, pelliccia, legamenti e tendini. Il tutto, ovviamente, a crudo. Una situazione ben diversa da chi si ponga nel piatto una fesa di pollo fatta alla piastra, oppure uno spezzatino di manzo, o ancora una morbida salsiccia di maiale. In tal caso la digestione è alquanto più facile di quella di un predatore carnivoro stretto, con il quale non dobbiamo quindi essere comparati, esattamente come non dobbiamo essere comparati a erbivori come bovini o cavalli. Inoltre, a differenza dei predatori animali, l’Uomo ha messo a punto la tecnica della cottura, la quale non fa altro che rendere più morbido e digeribile il cibo, carne in primis. Per non parlare dell’invenzione delle posate: invece di strappare a morsi pezzi di carne dal corpo delle prede, possiamo sezionare sottili striscioline di carne grazie all’uso di forchette e coltelli. Tutto un altro vivere, non trovate?

Quindi, a chi in futuro cercherà di intortarvi con la storiella secondo la quale non abbiamo uno stomaco capace di digerire la carne, zigzagando fra esempi farlocchi, d’ora in poi fategli una bella risata in faccia e godetevi pure il panino con il prosciutto, se vi aggrada: la Natura vi ha perfettamente attrezzati per farlo e chi dice il contrario o è uno sprovveduto o è un disonesto.

 

Apparato digerente

Enzimi digestivi e pH a parte, fra Uomo e Primati da un lato ed erbivori dall’altro vi sono per giunta enormi differenze anatomo-fisiologiche anche quanto ad apparato digerente. Fra gli erbivori si deve innanzitutto distinguere far monograstrici e poligastrici. Ovvero fra animali con un solo sacco gastrico oppure più di uno. Nel primo caso si parla di cavalli e conigli, per esempio, ma anche di rinoceronti ed elefanti. Nel secondo di ruminanti, cioè bovini e ovi-caprini, principalmente, ma anche di altri artiodattili come cervi e antilopi. In questi animali, evolutisi per assimilare anche fibre vegetali per noi indigeribili, lo stomaco vero e proprio, o abomaso, è solo l’ultimo dei “sacchi” digestivi. Prima di esso vi sono infatti l’omaso e i sacchi ruminali, ove avviene la degradazione del cibo a opera soprattutto di microrganismi che demoliscono le fibre vegetali, come per esempio la cellulosa. Un polimero, questo, che l’Uomo non è affatto in grado di demolire. Non stupisce quindi che lo stomaco vero e proprio dei ruminanti abbia un pH intorno a 4, come quello dello stomaco umano a riposo. È semplicemente perché ciò che arriva all’abomaso è già stato ampiamente pre-digerito dai sacchi pre-gastrici. Ecco perché una capra può sopravvivere nel deserto mangiando ispide foglie di cespugli rinsecchiti, mentre noi no.

Cavalli, conigli, elefanti e rinoceronti invece, hanno un solo stomaco, come noi e come i Primati. Eppure sono erbivori stretti. Forse è una prova, questa, che noi Umani si debba imitare i loro stili alimentari? Niente affatto (leggi per approfondimenti).

Negli animali di cui sopra esiste un’apposita sacca digestiva posta fra intestino tenue e crasso, ovvero l’intestino cieco. Nell’Uomo è ciò che conosciamo anche come “appendice”, pressoché una porzione vestigiale di scarsa o nulla utilità ai fini digestivi. Negli erbivori monogastrici, invece, l’intestino cieco mostra dimensioni ragguardevoli e svolge un ruolo simile per molti versi a quello dei pre-stomaci dei ruminanti. Il cieco degli erbivori monogastrici aiuta infatti a frammentare ulteriormente le materie vegetali ed è sede di processi fermentativi analoghi a quelli del rumine dei bovini. Nei conigli, per esempio, il cieco è anche il luogo ove risiedono i batteri terricoli produttori della vitamina B12, del tutto assente in frutta e verdura. La dimensione e la conformazione del cieco migliorano quindi l’assorbimento delle componenti vegetali da parte dell’erbivoro monogastrico, arricchendoli per giunta con alcune vitamine che in essi non esistono all’origine. Un assorbimento che risulta imperfetto, comunque. Fra le feci di un bovino e quelle di un cavallo o di un coniglio vi sono infatti differenze notevoli. Non a caso, nei conigli esiste la coprofagia, ovvero l’abitudine dei piccoli di mangiare le feci della madre, ricche di sostanze residue assimilabili e di microrganismi utili alla digestione dei vegetali.

Le potenzialità digestive fra poli e monogastrici sono quindi notevoli: chi possiede un cavallo sa bene infatti come l’apparato digerente e le coliche che lo affliggono siano fra le prime cause di morte, come pure è noto che se a un coniglio si somministra erba ancora umida si rischia di trovarlo morto la mattina dopo, gonfio come un pallone. Il loro apparato digerente è infatti si vocato alla dieta erbivora, ma è per così dire un motore tirato “al limite”. Posizionare l’Uomo in prossimità di questi organismi è pertanto una baggianata, per giunta pericolosa visto che si parla di salute. Non possediamo infatti né il rumine, né un intestino cieco abbastanza sviluppato per potercelo permettere.

Fra i nostri “parenti” scimmieschi ve ne è però uno che può essere definito erbivoro in senso stretto, ovvero il gorilla. Un maschio adulto può infatti arrivare a mangiare 30 chilogrammi di vegetali al giorno, praticamente un sesto del suo peso. Prevalentemente mangia foglie, ma anche frutti quando la stagione lo consente. I suoi canini sono essenzialmente per combattimento, non per predare e le uniche fonti animali di cui si nutre il gorilla sono alcuni insetti, ma in percentuale inferiore all’1% del cibo ingerito. Già uno scimpanzè può arrivare intorno al 6% e, come si vedrà, non si tratta solo di insetti.

Un uomo della mia stazza, ovvero 85 kg, per alimentarsi come un gorilla dovrebbe ingerire 14 kg al giorno di vegetali. In pratica, dovrei iniziare a mangiare spinaci, bietole, zucchine e similari alla mattina presto e finire prima di coricarmi, tenendo una media di circa un chilo di vegetali crudi ogni ora. Chi vuole provare si accomodi pure: auguri…

Considerando poi che le foglie dei vari alberi – che rappresentano la maggior parte del volume ingerito dai gorilla – sono per noi di difficile digestione, pensare che un uomo possa alimentarsi come un gorilla appare tanto insensato quanto velleitario. Forse perché da alcuni milioni di anni l’Evoluzione ha fatto prendere strade diverse a noi e ai gorilla, con buona pace di chi ne nega le Leggi e perfino l’esistenza. Dell’Evoluzione eh? Mica dei gorilla…

 

Scimpanzé e stupidaggini frugivore

E veniamo infine al trionfo delle baggianate: secondo i mantra fruttariani l’Uomo dovrebbe essere frugivoro dal momento che anche i nostri parenti più stretti, ovvero gli scimpanzé, sarebbero tali. In verità, i nostri “cugini pelosi” hanno una dieta fortemente improntata sui vegetali. Da qui a definirli frugivori però ce ne corre. Gli scimpanzé si nutrono infatti di foglie e frutti, si, ma integrano la dieta con apprezzabili quantità di proteine animali ricavate soprattutto dagli insetti, ma non solo:

 

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Fig. 6: gli scimpanzé sono capaci di usare dei rametti come rudimentali attrezzi da pesca con i quali estraggono formiche e termiti dai loro nidi, facendosene delle sane scorpacciate

 

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Fig. 7: oltre agli insetti gli scimpanzé mangiano abitualmente carni di erbivori o di altri piccoli mammiferi catturati nella foresta. Hanno quindi un’alimentazione fortemente onnivora, con una robusta rappresentanza di alimenti vegetali, frutti e foglie, ma anche una sensibile percentuale di alimenti animali

Infine, fra gli scimpanzé sarebbero diffuse anche le pratiche dell’uccisione di cuccioli e del cannibalismo. Pratiche che decisamente hanno ben poco da condividere con la panzana del primate frugivoro.

 

Conclusioni

 

Quanto detto (e visto) demolisce la barzelletta dell’Uomo frugivoro. Nulla vieta però di diventarlo a chi per libera scelta lo voglia diventare. Ognuno è infatti libero di fare del proprio corpo ciò che meglio gli pare. Non è invece libero di diffondere falsità, informazioni farlocche o addirittura mendaci pur di convincere altri a diventare come lui. Il prezzo da pagare in questi casi è collezionare figure molto magre dal punto di vista scientifico e anche umano, perché mentire non è abitudine di cui andare fieri.

Disclaimer: nessun commento è ammesso. La spiegazione qui

 

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