Zootecnia e disinformazione (Parte 3/3: le emissioni)

Le emissioni dovute ad agricoltura e zootecnia sono uno dei temi più dibattuti. Per questo è meglio approfondire

Dopo i consumi di acqua e la competizione per il cibo, trattati nelle due puntate precedenti, anche il tema delle emissioni di gas serra è decisamente attuale nelle polemiche anti-zootech. Ma i conti, come al solito, bisogna farli tutti. E se ciò succede le sorprese non mancano

Fondata a Firenze nel 1753, l’Accademia dei Georgofili è la più antica istituzione scientifica al Mondo che si occupi di agricoltura, ambiente e alimenti. In Italia si è fatta recentemente amplificatore di uno studio presentato al “3rd Agriculture and Climate Change Conference 2019” di Budapest, dal quale si può evincere un interessante bilancio tra le emissioni totali di anidride carbonica derivante dalle attività zootecniche e la quantità sottratta all’atmosfera dai foraggi destinati all’alimentazione degli animali da reddito.

Esattamente come per l’acqua, di cui si è parlato nella prima puntata della mini-serie, anche l’anidride carbonica è essenziale per la crescita delle piante. Quindi appare interessante usare per la CO2 il medesimo approccio utilizzato per l’acqua proprio dagli attivisti anti-zootech, enfatizzando cioè quanta anidride carbonica serva alle colture per generare un chilo di alimenti animali. Perché se l’acqua cade dal cielo come pioggia, anche la CO2 arriva dal cielo come gas. Un aspetto che viene spesso trascurato, talvolta in modo deliberato e furbesco.

Se vogliamo quindi valutare gli impatti reali della zootecnia sull’ambiente, per lo meno in termini di emissioni, dobbiamo calcolare non solo ciò che emette lei come gas serra, bensì anche ciò che assorbe tramite le colture foraggere. In tal senso, basti pensare che nell’amido o nella cellulosa, polisaccaridi ottenuti tramite il processo di fotosintesi, il carbonio è presente mediamente in ragione del 44% del peso complessivo (formula chimica [C6H10O5]n). La lignina è molto più complessa come struttura, ma si può stimare un contenuto in carbonio che si aggira, altrettanto mediamente, intorno al 60%. Nell’anidride carbonica (formula chimica CO2) il carbonio rappresenta invece solo il 27% del peso. In sostanza, facendo un conto della serva, per biosintetizzare un chilo di amido o di cellulosa servono circa 1,6 chilogrammi di anidride carbonica, mentre per un chilo di lignina ne servono circa 2,2.

Capite perché le foreste che crescono sono importanti nell’assorbire anidride carbonica dall’aria? Ma parimenti lo sono le colture agrarie, sarà bene accettarlo, soprattutto considerando che mentre una foresta si ferma una volta raggiunto il suo equilibrio, le colture vengono continuamente asportate dai terreni e vengono rimpiazzate da quelle successive, realizzando un ciclo eterno di continua crescita e quindi di continuo assorbimento.

Tornando ai tre polimeri sopra citati, l’amido possiamo utilizzarlo per le nostre esigenze metaboliche, la cellulosa e la lignina no. Questione di legami fra monomeri che costituiscono i tre polimeri. Il primo, quello dell’amido, riusciamo a spaccarlo, gli altri due no. Nel rumine dei bovini invece vi sono microrganismi capaci di spaccare i legami che noi non siamo in grado di rompere. Ecco perché i ruminanti possono sfruttare cellulosa e lignina mentre noi non ci riusciamo. E da qui si dovrebbe capire l’importanza di poter contare su animali poligastrici per la nostra alimentazione, tema approfondito nella seconda puntata della mini-serie, cui si rimanda.

Mentre l’uomo è in grado di digerire solo una parte della pannocchia, i bovini possono utilizzare come cibo tutto ciò che si vede in fotografia

Ora, sapendo che l’efficienza di conversione da CO2 a vegetale e da vegetale ad animale è molto bassa (10-30%), significa che ci vuole una gran massa di vegetali per ottenere un’unità di cibo di origine animale. Ergo, serve tantissima anidride carbonica che si trasformi i polimeri vegetali per ottenere una piccola quantità di alimenti animali. Come però visto per l’acqua, la bassa efficienza del processo non deve scoraggiare, visto che la maggior parte degli input è per così dire “gratis”. Come ricorda Giuseppe Bertoni, Professore Emerito dell’Università del Sacro Cuore di Piacenza, anche i pannelli solari, tanto per dire, hanno un’efficienza bassissima nella conversione della luce solare in energia. Ma il Sole, appunto, è gratis.

La stessa cosa vale per il vento che alimenta le pale eoliche. Ciò non sembra però spaventare né indignare i medesimi ecologisti che invece fanno crociate sulle basse efficienze del sistema zootecnico. Eppure panelli e pale, pesantemente inefficienti in vita, un loro impatto ambientale pur ce l’hanno, sia per costruirli, sia per manutenerli, sia per smaltirli a fine ciclo. Misteri della fede.

Torniamo quindi ai numeri, quelli che tanto piacciono a me e tanto dispiacciono allo schieramento opposto. Se vogliamo capire il bilancio complessivo delle attività zootecniche dobbiamo farlo considerando tutto, ma proprio tutto. E se è piaciuto sbandierare i 15mila litri di acqua necessari alla produzione di un chilo di carne, guardiamo parimenti quanta anidride carbonica serve per alimentare le filiere zootecniche. Perché in questo caso più gliene serve e meglio è.

La ricerca citata dall’Accademia dei Georgofili all’incipit di questo articolo è basata su dati 2016. Secondo i calcoli dei ricercatori le colture foraggere avrebbero sottratto dall’atmosfera circa 23,7 Gigatons di anidride carbonica, contro 5,6 Gigatons emesse.

Le emissioni sarebbero dovute per 1,9 Gigatons ai processi di lavorazione, alla produzione di fertilizzanti e agrofarmaci, ai carburanti e all’energia elettrica utilizzati. Ancora, 1,4 Gigatons deriverebbe dallo stoccaggio e dalla gestione del letame, mentre 2,3 Gigatons deriverebbero dalle emissioni ruminali, tipo il metano dei rutti bovini.

Una piccola parentesi la merita quindi l’agricoltura biologica, secondo la quale la fertilizzazione dei campi dovrebbe essere effettuata solo tramite letame o altri concimi di base organica. Ecco: pensate a quante mandrie in più e a quante superfici coltivate in più servirebbero per stare dietro a queste ambizioni se venissero applicate su scala globale come da più parti auspicato. Nonché pensate ai rutti metaniferi in più che verrebbero emessi… Quindi i sostenitori dell’agricoltura eco-bio inizino magari a farsi quattro conti, perché potrebbero scoprire di essere loro – e non l’agricoltura intensiva – a rappresentare un grave rischio per il futuro del Pianeta.

Quanto emesso e quanto assorbito

Quello della ricerca citata è un valore di emissioni leggermente superiore a quello riportato nell’ultimo report IPCC (2019) secondo il quale l’insieme dei processi di allevamento degli animali da reddito emetterebbe 5,1 Gigatons di CO2 equivalenti, pari quindi al 10% delle emissioni totali (l’agricoltura nel suo insieme starebbe intorno al 15%). Questo è un dato ovviamente medio, dal momento che non tutte le parti del Mondo emettono allo stesso modo. Nei Paesi maggiormente sviluppati sarebbero industria, riscaldamenti e trasporti a giocare la parte del leone, scalando le emissioni degli allevamenti a percentuali più basse.

Per esempio l’Epa, l’agenzia americana per la protezione ambientale, ha stimato nel 9% le emissioni complessive dovute all’agricoltura statunitense nel suo insieme, contro il 29% dei trasporti, civili e commerciali, il 28% derivante dalla produzione di energia elettrica e il 22% generato dalle industrie. Anche considerando una percentuale di emissioni dovute alla zootecnia fra i 2/3 e i 3/4 delle emissioni complessive agricole, si scende circa sul 5-6% del totale. Ciò grazie agli elevati livelli tecnologici su cui si può contare nei Paesi sviluppati. Basti pensare che sempre negli Usa le emissioni di anidride carbonica per litro di latte sono scese del 63% in circa 60 anni, dai 3,66 kg del 1944 a 1,35 kg nel 2007(1). In sostanza, pur avendo più che quadruplicato la produzioni pro-capo di latte rispetto agli scenari – supposti bucolici – del 1944, l’intero comparto lattifero americano avrebbe ridotto il proprio carbon footprint del 41%.

La produttività delle bovine da latte ha portato con sé alcuni problemi di tipo zootecnico e veterinaio, ma ha anche permesso di aumentare le quantità di latte disponibile diminuendo il carbon footprint del comparto

Se nel 1944 vi erano infatti 25,6 milioni di lattifere, per 53 milioni di tonnellate di latte (circa 2 tons/capo/anno), nel 2007 vi erano solo 9,2 milioni di vacche per 84,2 milioni di tonnellate di latte (9,15 tons/capo/anno). Se quindi rispetto al 1944 vi è stato un incremento del 59% nella produzione complessiva di latte americano, la produzione pro-capo è salita di 4,5 volte. Cioè, come fare molto di più, inquinando molto meno.

Tornando quindi alle valutazioni In-Out della ricerca citata, si deve ammettere come le filiere zootecniche emettano sì 5,6 Gigatons di CO2 equivalente (prendiamo il dato peggiore), ma ne assorbirebbero 23,7. Cioè circa il quadruplo: un rapporto pari a 4,23 volte che diventa 4,65 adottando il valore di emissioni proposto da IPCC.

Ciò significa che gli allevamenti facciano bene al Pianeta? Assolutamente no. Come ogni altra attività umana anche gli allevamenti hanno impatti che non sono solo di tipo emissivo, comportando per esempio la colonizzazione di nuove terre per produrre cibo e mangimi. Ma anche in questo caso, le colpe non possono essere scaricate sull’agricoltura, dato che questa altro non fa che assecondare la crescente domanda di cibo mondiale. Se a metà dell’800 eravamo solo un miliardo, oggi stiamo puntando decisi verso gli otto miliardi. E tutti vogliono mangiare, tanto e bene. Pure voi…

Quindi, se non vi sconfinfera come l’agricoltura opera, cambiate i vostri stili di vita e l’agricoltura si adeguerà. Come ha sempre fatto. Non è lei a imporvi di mangiare o tofu o bistecche. Siete voi che chiedete a lei cosa produrre e quanto. Quindi smettetela di accusare chi altro non fa che assecondare le vostre stesse richieste. Specialmente se per muovere le vostre accuse demonizzanti maramaldeggiate pure coi numeri. Non è onesto, ve lo dico.

Si dubita fortemente che a seguire i moderni vagheggiameti bio-veg-ecologisti il Mondo ne trarrà davvero vantaggi concreti rispetto ad altre rivoluzioni di tipo industriale, urbano e nei trasporti. Ma se questo è ciò che chiede chi consuma cibo, il problema non si pone nemmeno, perché il problema o la soluzione siete sempre voi.

Quindi, invece di sproloquiare (a pancia piena) contro chi produce il vostro cibo, tornate a mangiare polenta e verze e vedrete che di latte, di uova e di carne noi ne produrremo molto meno. Oppure tacete, perché parlare a bocca piena non è affatto buona educazione.

1) Judith L. Capper* (2011): “Replacing rose-tinted spectacles with a high-powered microscope: The historical versus modern carbon footprint of animal agriculture”. Animal Frontiers, July 2011, Vol. 1, No. 1

* Department of Animal Sciences, Washington State University, Pullman 99164, USA

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