A EcoBrain, nucleare, clima, carni coltivate, ogm, glifosate e molto ancora

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Il 19 novembre 2023 si è tenuto EcoBrain, evento dedicato alla scienza declinata su diversi fronti: nucleare, clima, carni coltivate e agricoltura, con un approfondimento speciale sulle colture geneticamente modificate e l’erbicida glifosate

Un insieme di argomenti molto diversi fra loro, trattati in specifici interventi tenuti da altrettanti esperti. Fra questi, moderati da Jacopo Giliberto, giornalista de il Foglio, Roberto Defez e Donatello Sandroni, cioè chi scrive, sono stati coinvolti per approfondire il tema degli ogm ma non solo: biologico, biodinamico, veganesimo, glifosate, agrivoltaico e prodotti tipici a confronto con le carni coltivate.

Di  seguito il video per rivedere la sessione:

Da parte mia, ho potuto apprezzare una sala ricca di giovani. Tutti interessati a scoprire e a capire, senza preconcetti né ideologie condizionanti. Un piacere che provo sempre quando posso trasferire informazioni, dati, evoluzioni storiche, che a dei giovani possono essere tranquillamente sfuggite.

Magari con l’augurio che un domani essi stessi possano svolgere la medesima funzione una volta giunti all’età matura, quella in cui cioè non si ragiona più guardando troppo spesso solo a se stessi, bensì si ragiona molto più guardando a chi ci seguirà nel tempo.

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Per accedere agli altri contenuti di EcoBrain:

Diana Massai, Stefano Biressi e Sergio Saia – Il cibo del futuro è coltivato in laboratorio?

Matteo Miluzio – Capire la crisi climatica:

Matteo Ward – L’impatto del Fast Fashion su ambiente e clima:

Simone Bleynat – “E le scorie dove le mettiamo?”:

Pasquale Abbatista – Aviazione sostenibile: il futuro dei carburanti

Marco Coletti: I Misteri della radioattività, presentazione del libro “Radioactivity”:

Il futuro dell’ambientalismo, dialogo con Ia Anstoot:

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Pesticidi, viticoltura e troppa disinformazione

Tutti addosso alla viticoltura. Ma i numeri danno loro torto

In aree viticole come il Trevigiano, patria del Prosecco, infuriano da molti anni proteste contro i cosiddetti “pesticidi”, reclamando contro un loro uso supposto “indiscriminato” e premendo a favore della viticoltura biologica, supposta meno impattante. Vediamo cosa dicono i numeri

Crociate mediatiche a tutto spiano, oggi con le fiaccolate, domani con i cortei, hanno dipinto la viticoltura come fonte di malattie inenarrabili, attribuite soprattutto ai “pesticidi di sintesi“. Una rabbia particolarmente furiosa si è poi manifestata soprattutto a danno di glifosate. Tali proteste, evidentemente, funzionano, visto che hanno di fatto portato all’esclusione di questo erbicida dai disciplinari di produzione del Prosecco Docg, facendo praticamente sparire questo prodotto dai vigneti trevigiani. Meno male? Ma neanche per idea: solo una facciata di cartapesta in ossequio al “marketing del senza“.

Che infatti le cose non stiano come paventato, per lo meno sul tema “tumori“, se n’è già fornita ampia disamina, dimostrando come in Veneto vi sia una correlazione inversa tra superfici a vigneto, usi di agrofarmaci e mortalità per tumori.

Leggi l’approfondimento:

Vigneti, pesticidi e cancri? Ma anche no…

Vediamo ora qualche dato sul tema “usi indiscriminati dei pesticidi“, perché anche su questo punto vi sono alcune sorprese. Circa gli “usi sempre più massicci di pesticidi” si è invece già fornita una specifica disamina numerica, dimostrando come tale affermazione sia di fatto una vera e propria bufala, visto che in trent’anni le tonnellate impiegate in Italia si sarebbero praticamente dimezzate.

Leggi l’approfondimento:

Più bocche, meno terre, meno “pesticidi”: la tempesta perfetta

Gli impieghi di formulati fitosanitari in viticoltura

Ai dati riportati al link sopra indicato, relativi al totale nazionale, contribuisce significativamente la viticoltura, ma solo per quanto riguarda i fungicidi. Le tabelle presenti sul sito di Istat riportano infatti anche la suddivisione degli impieghi per tipologia di prodotto e per coltura. Questa informazione di tipo settoriale è però ferma al 2016, riportando per quell’anno una superficie viticola trattata di 644.583 ettari, pari al 98,8% del totale vitato nazionale. Il numero medio di trattamenti nel 2016 è quindi stato pari a 13,59. Un dato ovviamente alquanto variabile in funzione della stagione e dell’area considerata.

Sempre per l’anno 2016 è possibile confrontare anche i dati nazionali con quelli specifici della viticoltura. Complessivamente, in tale anno la vite avrebbe rappresentato il 12,9% delle tonnellate di formulati fitosanitari applicati in Italia, segnando un valore medio di 24,8 chilogrammi per ettaro, di cui 24,3 sarebbero imputabili ai soli fungicidi. Relativamente a questi ultimi, su vite sarebbero state impiegate 15.640 tonnellate delle oltre 61mila applicate a livello nazionale.

Detta in altri termini, il 25,6% dei fungicidi utilizzati in Italia nel 2016 sarebbe stato applicato su vite. Al contrario, erbicidi e insetticidi avrebbero rappresentato meno dell’1% ciascuno. Gli erbicidi avrebbero infatti contabilizzato impieghi pari a 192 tonnellate (0,8% del relativo dato nazionale). Di queste, 159 sarebbero dovute al solo glifosate, erbicida il cui uso su vite rappresenta quindi solo lo 0,7% degli usi agricoli complessivi nazionali.

Analogamente, di insetticidi se ne impiegavano su vite solo 171 tonnellate, ovvero lo 0,8% del dato italiano complessivo. In sostanza, se per i fungicidi la vite rappresenta una quota altamente significativa delle tonnellate di formulati utilizzate in Italia, ciò non avviene per le altre tipologie di prodotto, qualificando la vite fra le colture a minor impiego a livello nazionale. Un’evidenza che dovrebbe quindi far riflettere sulle pressioni esercitate proprio sugli erbicidi, uno su tutti glifosate. I diserbi in viticoltura rappresentano infatti una quota estremamente ridotta rispetto al totale, sia a livello colturale, sia a livello agricolo generale, inducendo quindi a rivedere l’attuale percezione circa i suoi usi, decisamente sovradimensionata.

Ripartizione su vite per famiglia di prodotti

La quantità complessiva di agrofarmaci impiegati su vite nel 2016 è stata pari a 16.036 tonnellate. Su vite, come detto, sono i fungicidi a rappresentare la quota ampiamente maggioritaria degli impieghi, con 15.640 tonnellate, pari al 97,5% dell’ammontare complessivo dei fitosanitari impiegate sulla coltura.

Gli inorganici in base zolfo rappresentano la quota maggiore con 11.054 tonnellate, pari al 68,9% del totale. Nello specifico segmento di prodotti, i trattamenti con lo zolfo rappresentano quindi il 70,1% dei fungicidi impiegati in viticoltura. Da parte loro i rameici rappresentano la seconda voce di impiego, pari al 10,6% del totale con 1.703 tonnellate. Percentuale che sale al 10,9% sul totale dei fungicidi. In sostanza, rame e zolfo messi insieme rappresentano il 79,5% dei quantitativi di agrofarmaci impiegati nei vigneti e l’81% dei fungicidi.

In questa specifica categoria di prodotti, gli agrofarmaci di sintesi compongono quindi meno del 20% dei quantitativi impiegati su vite. Gli azoto-organici, esclusi i triazoli, rappresentano infatti il 14,8% del totale con 2.378 tonnellate (15,2% sul totale fungicidi). I triazoli, da parte loro, date le loro basse dosi di impiego, ammontano a sole 71 tonnellate: 0,44% sul totale di agrofarmaci impiegati e lo 0,45% sul segmento dei soli fungicidi.

Dei 24,8 chilogrammi per ettaro di agrofarmaci impiegati su vite, quindi, ben 17 chili sarebbero di solo zolfo, mentre i rameici apporterebbero 2,63 chilogrammi. In totale, rame e zolfo rappresentano su vite 19,7 chilogrammi dei 24,8 utilizzati. Quattro quinti dei chilogrammi mediamente applicati su vite sarebbero quindi dovuti a prodotti autorizzati anche in viticoltura biologica.

Conclusioni

  1. Scandalizzarsi per i chili di agrofarmaci impiegati in viticoltura, supposti eccessivi, ha senso dallo scarso al nullo, visto che se si vuole raccogliere l’uva sana si deve trattare mediamente 13-14 volte l’anno.
  2. Il 70% di quei chili è peraltro di banalissimo zolfo, sommando al quale il “romantico” rame si arriva all’81% del totale. Entrambe le tipologie di fungicidi sono ammessi in viticoltura biologica.
  3. Da quanto sopra, appare decisamente sciocco reclamare per la conversione a biologico della viticoltura, illudendosi in tal modo di diminuire l’impiego di chilogrammi per ettaro. Eliminando gli agrofarmaci di sintesi, che hanno dosi molto basse, i viticoltori sarebbero obbligati a utilizzare ancor più zolfo e rame, gonfiando ulteriormente il dato relativo agli usi per ettaro.
  4. Considerando che nei vigneti l’uso di glifosate non arriva all’1% del totale impiegato, chiederne l’estromissione dai disciplinari è stata quindi campagna meramente mediatica, figlia di una demonizzazione gonfiata ad arte da una molteplicità di portatori di interesse, sostenuti per le strade e sui social dalle usuali masse di utili idioti. Una demonizzazione cui purtroppo non sono stati in grado di opporsi né le autorità locali, incluse quelle sanitarie, né i consorzi dei produttori, del tutto proni agli umori sballati che giravano e tuttora girano per ogni dove.
  5. Infine: la modifica genetica delle viti potrebbe apportare resistenze endogene alle principali patologie fungine. Il Genome editing si mostra in tal senso la via più consigliabile, visto che è in grado di modificare velocemente e in modo chirurgico il DNA della coltura, realizzandovi all’interno i geni per diverse resistenze. Va infatti ricordato che i funghi patogeni mutano e che ciò che gli è oggi resistente potrebbe non esserlo più domani. Visto però che la vite è coltura pluridecennale, va parimenti accettato che le applicazioni di fungicidi in vigna siano fattore comprimibile, ma non eliminabile. Anche perché vi sono patologie secondarie che senza agrofarmaci diverrebbero in fretta primarie. Ergo, se proprio non volete i “pesticidi”, almeno non opponetevi alle tecniche di modifica genetica, del tutto sicure per l’ambiente e per i consumatori.

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Più bocche, meno terre, meno “pesticidi”: la tempesta perfetta

Da un lato lo storytellig, dall’altro i numeri

Mentre aumentava la popolazione, diminuivano gli ettari coltivati e i mezzi di difesa necessari per proteggere le colture. Un avvitamento molto pericoloso che continua tuttora, promettendo il collasso della già scarsa autosufficienza alimentare italiana

L’uso sempre più massiccio dei pesticidi” è uno dei tormentoni più in voga da diversi anni. Come pure c’è chi da altrettanti anni abbaia, bava alla bocca, contro l’agricoltura cosiddetta “intensiva“, esortando a cambiare indirizzo e a dare sempre più spazio a forme di agricoltura supposte meno impattanti, come il biologico, ma sicuramente meno produttive.

Leggi l’approfondimento sui perché l’agricoltura biologica non è la panacea di tutti i mali:

L’agricoltura biologica: storia di un disastro annunciato

C’è quindi un problema: le forme di agricoltura proposte come alternative a quella moderna e tecnologica sono solo illusoriamente meno impattanti, poiché per unità di cibo prodotto comportano impatti superiori. Inoltre, la popolazione italiana è cresciuta nel tempo, concentrandosi per giunta nelle città. Le campagne, di conseguenza, si sono progressivamente ridotte a causa di abbandoni e cementificazione. Come fare quindi a soddisfare una domanda alimentare cresciuta per decenni, mentre calavano le superfici coltivabili pro-capite e quasi scomparivano le braccia per coltivarle? Si può: con la meccanizzazione, la genetica e la chimica. Peccato che solo la prima sia in qualche modo tollerata, mentre la seconda e la terza vengono demonizzate come supposti agenti di morte, anziché esser viste come alleate indispensabili.

Un bel dilemma, questo, anche considerando che nel frattempo, sempre sotto le spinte chemofobiche, agli agricoltori sono rimasti sempre meno prodotti da utilizzare a difesa delle colture (il 70% delle sostanze attive utilizzate fino alla fine degli Anni 80 non ci sono più), come pure sono diminuiti gli usi in assoluto.

Nel grafico sottostante, i trend inversi dei terreni coltivabili e della popolazione italiana.

Come si vede, mentre la popolazione aumentava del 19,4% fra il 1961 e il 2019, le superfici agricole diminuivano del 36,6%. La divergenza fra le due variabili ha fatto sì che ormai restino solo 2.175 mq a testa di terre coltivabili contro i 4.093 dei primi Anni 60. Un calo di disponibilità pro capite pari al 46,8%. In sostanza, ciascun Italiano ha sempre meno metri quadri per produrre cibo. Reclamare quindi cibo italiano è più che altro una bizzarria mediatica, un obiettivo irraggiungibile a meno di accettare che da quei pochi metri quadri rimasti si estragga quanto più cibo possibile. Cioè il contrario di quello che si otterrebbe con l’aumento delle superfici a biologico.

Sotto, il calo negli usi degli agrofarmaci (alias “pesticidi”), sia espressi come formulati commerciali, sia come sostanze attive.

L’andamento irregolare è dovuto alle condizioni fitosanitarie e metereologiche di ogni annata. Il trend in calo è comunque percepibile chiaramente fra il 1990 e i 2020, con un minimo del -41,5% per i formulati, toccato nel 2019, parallelo al -51,7% delle sostanze attive, sempre nello stesso anno. Ci si chiede quindi in che modo il Farm2Fork previsto dal Green Deal pensi di poter eliminare la metà degli attuali agrofarmaci di sintesi nell’arco di pochi anni, senza lasciare sguarniti i campi contro malerbe, parassiti e malattie fungine. Il tutto, considerando pure che se vi sono meno molecole e meno modi d’azione, a sviluppare resistenze ci vuole un attimo, costringendo gli agricoltori a impiegare sempre e solo le poche sostanze attive rimaste.

Concludendo: il cosiddetto “uso sempre più massiccio dei pesticidi” è una fola maramalda, come pure lo è quella de “l’uso indiscriminato dei pesticidi“. Peraltro, l’agricoltura intensiva non è causa, bensì effetto, avendo ridotto progressivamente le superfici coltivabili. Ciò ha reso indispensabile produrre sempre di più da ogni metro quadro di terra rimasta. Ogni altra forma di agricoltura può quindi solo indurre cali produttivi a due cifre percentuali, gonfiando ulteriormente la già imbarazzante dipendenza dall’estero dell’agroalimentare italiano ed europeo.

Poi arriva una guerra in Ucraina e all’improvviso ci si accorge che chi, come chi scrive, ammoniva da tempo su questi temi, proprio scemo non era.

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Influenza aviaria: fermarla si potrebbe, ma…

Le biotecnologie sono al servizio non solo degli uomini, bensì anche degli animali. Chi le ostacola fa male al Mondo

Da 11 anni una tecnologia bioingegneristica giace inascoltata nei cassetti delle autorità di regolamentazione. Permetterebbe di fermare l’influenza aviaria negli allevamenti. Ma c’è chi si oppone

Per chi ha fretta:

L’influenza aviaria è trasmessa da volatili selvatici, soprattutto migratori. Gli allevamenti sono falcidiati ogni anno da questi virus, ad alto grado di mutazione, causando decine di milioni di capi morti, sofferenze e danni economici gravissimi. Da 11 anni ci sarebbe la soluzione per fermarla, modificando geneticamente il pollame in modo che non risulti più infettabile dal virus, ma la tecnologia è congelata a causa delle solite pressioni anti-biotech delle compagini pseudo-ambientaliste e pseudo-animaliste. Di fatto, ciò fa parte della loro crociata anti-zootecnia, cui le periodiche epidemie gonfiano le vele mediatiche. Un comportamento ideologico malevolo e in malafede che non dovrebbe condizionare l’innovazione tecnologia globale.

Per approfondire

Kevin M. Folta è docente presso il Dipartimento di Scienze dell’Orticoltura dell’Università della Florida, negli Stati Uniti. Dal 2007 al 2010 ha contribuito al progetto per il sequenziamento del genoma della fragola, ma il suo principale impegno è nella ricerca nel campo della fotomorfogenesi nelle piante, inclusa la sintesi dei composti responsabili del sapore delle fragole. Divulgatore scientifico dal 2002, interviene spesso per sfatare fake news sulle biotecnologie, come pure per contrastare i gruppi che le osteggiano. Nel 2017 è stato eletto membro del Committee for Skeptical Inquiry.

I suoi articoli vengono spesso riportati da GLP, acronimo di Genetic LIteracy Project e uno degli ultimi suoi contributi riguarda l’influenza aviaria e le opportunità di contrastarla che purtroppo giacciono nel cassetto proprio a causa delle pressioni anti-ogm delle solite associazioni pseudo-ecologiste.

Qui l’articolo originale in inglese:

Viewpoint: There is a solution to the devastating poultry pandemic – but anti-technology activist groups and outdated regulations are blocking it

Di certo, non v’è molto né di ecologista, né di animalista nel vedere cumuli di volatili morti, uccisi dal virus dell’aviaria o abbattuti perché infetti, mentre i bulldozer li spingono in una fossa a migliaia per volta.

Nuovi contagi stanno infatti dilagando non solo in Italia, bensì anche negli Usa, provocati da un nuovo ceppo di aviaria ad alta patogenicità, in acronimo HPAI. L’attuale epidemia sarebbe infatti la più mortale degli ultimi sette anni, sostiene Folta. Ammonterebbero ormai a oltre 23 milioni, fra polli e tacchini, gli animali già uccisi o abbattuti.

Ciò che genera ancor più rabbia, però, è che una tecnologia utile ad arrestare queste epidemie sarebbe già stata sviluppata e quindi disponibile. Peccato che non si possa impiegare in quanto afferisce al campo delle biotecnologie e le solite associazioni anti-ogm la starebbero tenendo in scacco con le usuali azioni di lobby e le ancor più fruste campagne mediatiche di stampo allarmista.

La tecnologia in questione sarebbe in grado di bloccare la trasmissione del virus dal primo uccello infetto a tutti gli altri ad esso vicini. Ciò stando ai ricercatori britannici che hanno modificato geneticamente dei polli affinché non possano diffonderla ad altri pur avendola contratta. La ricerca è stata pubblicata su Science: “Suppression of avian influenza transmission in genetically modified chickens”.

Come funziona

Per comprendere la scoperta dei ricercatori bisogna prima riassumere qualcosa sui virus: nel loro codice genetico contengono specifiche sequenze che amministrano gli enzimi necessari per la loro stessa replicazione. Senza questi enzimi i virus non riescono quindi a replicarsi.

Tramite le biotecnologie, il team di Cambridge/Edinburgo ha modificato gli elementi necessari alla replicazione generando “molecole esca”, cioè del materiale genetico che agli occhi delle cellule sembra siano virus da replicare, quindi li replica, ma ciò che ne deriva è qualcosa che è privo delle informazioni necessarie per assemblare un virus infettivo vero e proprio. In pratica, la “fabbrica” biochimica sfruttata dai virus per replicarsi viene distratta da questi falsi bersagli e inizia a obbedire a questi anziché ai virus stessi.

Nei test, il primo pollo infettato avrebbe quindi sviluppato la malattia, e ne sarebbe morto, ma tutti quelli a lui vicini no. Le molecole-esca non hanno peraltro mostrato effetti collaterali sugli uccelli sottoposti a tese, come pure non sono plausibili alterazioni a carico delle uova o della carni.

Altro punto a favore di tale innovazione è che potrebbe essere trasmessa alle generazioni successive di polli (o tacchini o di qualsiasi altro volatile allevato) attraverso l’allevamento tradizionale. Non c’è quindi bisogno di continue modifiche genetiche.

La strage che potremmo arrestare…

Le stragi da aviaria negli allevamenti iniziano di solito al di fuori di essi, essendo veicolata di solito dagli uccelli migratori selvatici, infetti, che si spostano verso nord al ritorno dalle aree in cui hanno svernato. Durante la migrazione questi uccelli fanno tappa lungo la rotta, visitando anche gli spazi adiacenti agli allevamenti, infettando al contempo anche fauna locale che a sua volta potrà trasmettere l’infezione.

Nonostante l’estrema severità delle misure di biosicurezza, il virus  riesce comunque a bucare le difese, dilagando spot in diversi allevamenti. Ciò perché è altamente contagioso e si muove tramite le correnti d’aria e le particelle generate dalla polvere fecale.

Nel 2015, prosegue Folta, oltre 50 milioni di polli e tacchini domestici sono morti a causa dell’aviaria, con una perdita stimata di 3,3 miliardi di dollari. Solo negli ultimi anni, le infezioni da HPAI sono scoppiate in 24 stati americani ed è probabile che il virus sia ormai endemico lungo le rotte migratorie orientali. La crisi innescata da queste stragi ha avuto impatti notevoli anche sui consumatori, causa aumenti sensibili dei prezzi: le uova sarebbero aumentate per esempio del 52%. Purtroppo, appare improbabile una via d’uscita tramite vaccinazione, dal momento che questi virus mostrano un alto grado di mutazioni.

… ma qualcuno dice no

La domanda quindi è perché una tecnologia nata nel 2011, cioè 11 anni fa, non può essere ancora applicata negli allevamenti? Come al solito, sono i gruppi anti-ogm che avrebbero orchestrato l’usuale campagna di intimidazione dei normatori, agitando la bandiera degli allevamenti intensivi presentati come lager dalle condizioni malsane. L’agrobusiness, secondo loro, starebbe cercando con queste modifiche di ridisegnare il DNA degli animali per meglio adattarli agli ambienti “industriali” degli allevamenti. Accuse che peraltro poggiano su una base di verità: da quando l’uomo è diventato allevatore/agricoltore sono iniziate le selezioni degli animali che portavano le caratteristiche più funzionali alle esigenze gestionali e alimentari umane. Lo si è fatto per le colture, lo si è fatto per gli allevamenti. Abbattere mammut con le lance non era certo meglio.

Poi, che certi capannoni siano delle vere e proprie brutture, non serve ce lo ricordino gli pseudo-ambientalisti e pseudo-animalisti. Non a caso è da decenni che si lavora per l’evoluzione delle prassi legate al benessere animale, progredendo continuamente in tal senso. Del resto, ci sarebbero anche altre modifiche genetiche che permetterebbero di far nascere solo pulcini di un determinato sesso, mettendo fine alla mattanza di quelli nati col sesso “sbagliato”, ma anche in tal caso sono sempre le stesse compagini a remare contro tali innovazioni biotecnologiche.

In sostanza, e come spesso accade, chi propugna ideali di per sé nobili se presi in valore assoluto, poi si mostra la prima causa di inutili stragi e sofferenze. A conferma che la strada dell’inferno è davvero lastricata di buone intenzioni.

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Non esistono bugie a fin di bene

Chiarezza senza fittizi allarmismi: unica via per spiegarsi correttamente

Sul riscaldamento globale vi sono diverse certezze: la prima è che esiste, la seconda è che l’uomo ne è responsabile per la gran parte, la terza è che la comunicazione mediatica e politica è stata disastrosa

Che l’anidride carbonica sia una forzante climatica lo si sa da oltre un secolo, ovvero dai tempi di Arrhenius. Che il picco attuale superiore alle 400 ppm (parti per milione) sia il più alto dell’ultimo milione di anni è pure questo un fatto: senza alcuna perturbazione aggiuntiva, nell’attuale fase interglaciale dovremmo stare al massimo intorno alle 300 ppm, fossimo in linea con i precedenti picchi che si sono susseguiti con cadenza di 80-90mila anni. Ergo, quelle 100 e passa parti per milione in più ce le abbiamo messe noi, molte delle quali nel volgere di pochi decenni per giunta. Del resto, se carbone, gas e petrolio ci hanno messo milioni di anni per formarsi nel sottosuolo e noi li estraiamo e li bruciamo a rotta di collo per un paio di secoli, il pulse di CO2 in atmosfera non poteva certo essere diverso da quello osservato.

La persistenza pluridecennale dell’anidride carbonica in atmosfera fa poi sì che sulle nostre teste ci sia ancora della CO2 emessa dai nostri nonni e bisnonni quando ancora di Global Warming non se ne parlava affatto. Il problema è che quella che emettiamo noi resterà altrettanto sulle teste dei nostri nipoti e bisnipoti, con l’aggravante che ne abbiamo prodotta molta ma molta di più.

Chiarito quindi che questo post non intende discutere dei cambiamenti climatici, innegabili, e delle sue origini prettamente antropiche, altrettanto innegabili, vediamo cosa non ha funzionato nella comunicazione del problema, come pure negli orientamenti da seguire per trovare soluzioni anziché spingere solo inconcludenti piagnistei pseudo-ecologisti.

Per esempio, nei propri report periodici l’Ipcc (intergovernamental panel for climate changes) indica sì le cause e le entità delle emissioni, ma parimenti ricorda come il nucleare sia un rimedio di altissima importanza per mitigare il fenomeno. Peccato gli ambientalisti puntino sempre e solo il dito sui problemi elencati, spesso deformandone persino l’entità, salvo poi sostenere che l’Ipcc vada preso con le pinze quando si parli di centrali atomiche. Il trionfo del cherry picking.

Ma veniamo appunto alla comunicazione, a partire dall’ormai frusto tormentone che alla Terra mancherebbero solo dieci anni prima della catastrofe climatica irreversibile. Classico caso di come urlando “Al lupo! al lupo!” alla fine la gente non ci crede più e magari non vede più il lupo quando arriva davvero. Per esempio, risale al 1989 il primo articolo di cui sono venuto a conoscenza che stabiliva in dieci anni la scadenza per la salvezza. Era un pezzo comparso l’11 febbraio 1989 su La Repubblica dal titolo “Dieci anni per salvare la Terra”, a firma Arnaldo D’Amico. In quel frangente era il World Watch Institute a lanciare l’allarme, definito all’epoca “senza dubbio il più drammatico” dei sei pubblicati fino a quel momento. Contrariamente a quanto ormai accertato oggi, si affermava anche che l’energia nucleare non fosse una valida alternativa poiché troppo costosa (Cvd).

Sempre su La Repubblica, nel settembre 2013, quindi quasi 25 anni dopo, altro articolo pressoché fotocopia dal titolo “Dieci anni per salvare il Pianeta”, a firma Antonio Cianciullo. Cambiava in tal caso l’istituto di riferimento: al rapporto del World Watch Institute si era infatti sostituito quello del citato Ipcc.

Si spera quindi che altri redattori di La Repubblica non titolino “Dieci anni per salvare il Mondo” nel 2038 e “Dieci anni per salvare il Globo” nel 2063. (Prego i lettori di incaricare i propri figli e nipoti di verificare, perché io per l’epoca non ci sarò di certo più). Perfino i film di fantascienza hanno spostato la collocazione temporale delle loro trame molti secoli in là nel futuro, poiché hanno capito che pochi decenni servivano solo a farsi prendere in giro quando fosse divenuto possibile verificare l’inesistenza dei fatti ipotizzati. Esempio classico “1999 Odissea nello spazio”. Meglio sarebbe stato collocare la serie tv nel 2999, a scanso di equivoci.

Proseguendo sul tema “decennio e poi Armageddon”, nel 2019 Greta Thumberg citava le posizioni di alcuni climatologi, suoi rifermenti scientifici, secondo i quali si doveva invertire la tendenza entro il 2030 o i cambiamenti climatici sarebbero stati drammatici e irreversibili. Altri dieci anni, quindi.

Nel 2021 è stato poi il turno di Luca Mercalli, il noto climatologo in farfallino spesso presente in televisione e sui media in genere. Secondo Mercalli al Pianeta mancherebbero solo, indovinate, dieci anni per salvarsi.

Insomma, è per lo meno da 32 anni (probabilmente di più, ma non ne ho memoria) che si afferma che alla Terra ne restino solo dieci. E i negazionisti dei cambiamenti climatici ringraziano, trovando ogni volta un rafforzamento in più delle proprie tesi. Del resto, i profeti di sventura hanno da sempre terrorizzato la popolazione con Armageddon che mai sono arrivati. Quindi, perché mai dare credito a quelli di oggi? Del resto, sono rappresentanti dei medesimi orientamenti ideologici che vaticinavano l’imminente fine del petrolio già nei lontani anni ’60. E lo scetticismo ingrassa.

Che credito dare poi ad Al Gore, ex vicepresidente americano, quando sostenne nel 2007 che le calotte polari si sarebbero sciolte entro il 2013? Un’affermazione tratta, secondo i media, dagli scienziati. Sì, ma ni. Lo scenario di Gore per il 2013 era solo uno dei tanti fra quelli tratteggiati da un gruppo di ricercatori che avevano sviluppato diverse simulazioni giocando con molteplici variabili che potevano influire sul clima. Quella presa da Al Gore era il worst case, il caso peggiore, con un incremento di 4°C della temperatura media globale in soli sei anni.

Un’eventualità che non era di per sé impossibile, ma che aveva una probabilità di verificarsi ampiamente sotto lo zero virgola per mille. Infatti non si è verificata. A nulla valsero le puntualizzazioni di uno degli scienziati chiamati in causa, un climatologo dal cognome polacco immemorizzabile (infatti me lo sono scordato). E così, mentre la voce della scienza venne fatta passare in secondo piano, prendendone solo la parte che più interessava, la profezia di Al Gore andò ad aggiungersi alle molte altre svanite nel nulla negli anni precedenti. E vai col negazionismo a tutta birra, sempre più ricco di argomenti in tasca.

Non possono nemmeno mancare critiche circa i testimonial scelti per la campagna di sensibilizzazione sul tema, come per esempio Leonardo di Caprio. La star americana intervenne alle Nazioni Unite con un discorso toccante, pieno di espressioni facciali e mimica coerenti con le parole (è un attore, del resto), sollecitando un profondo cambiamento negli stili di vita delle persone o per il Pianeta sarebbero stati disastri tanto gravi quanto imminenti. Peccato Di Caprio ami passare le proprie vacanze su yatch giganteschi che in un solo giorno di navigazione brucino tanto combustibile quanto io ne potrò consumare in tutta la vita con la mia utilitaria 1.6 diesel Euro 6. Far quindi sentire la gente comune presa per i fondelli da ricchi e viziati testimonial non è che sia il viatico migliore per trasferire il messaggio desiderato. Anzi, la reazione rischia di essere quella opposta per pura ribellione da classe sociale.

Non parliamo poi della traversata atlantica fatta da Greta Thunberg quando doveva andare a New York per parlare anch’ella alle Nazioni Unite. Non volendo usare l’aereo, perché inquina, e non trovando sufficiente un collegamento via Zoom o Skype, ci andò con un’imbarcazione milionaria messa a disposizione e gestita da Pierre Casiraghi, figlio di Stefano Casiraghi e Carolina di Monaco. Ovvero il rampollo di una delle famiglie regnanti europee, quella di Montecarlo, che è nota per lo più per il lusso, lo sfarzo e i miliardi accumulati grazie alle tasse agevolate a favore dei ricconi di mezzo mondo che abbiano spostato lì la propria residenza. In pratica, il simbolo di quel mondo capitalistico e sprecone che la giovane svedesina afferma di contrastare. Chi non ha percepito la stortura comunicativa dell’evento, sostenendo che l’importante è il messaggio (!), è quindi parte del problema, a partire da giornali e tv.

Per giorni i media si focalizzarono infatti sul vasino in cui Greta avrebbe fatto la pipì in mare, con una morbosità imbarazzante. Nessuno si premurò invece di specificare che Casiraghi sarebbe tornato indietro mica sulla barca, bensì in aereo. A recuperare l’imbarcazione e a riportarla nel Principato ci avrebbe pensato un equipaggio privato appositamente volato a New York. Più i voli aerei di chi Greta segua passo passo, essendo ormai un fenomeno mediatico che si muove con diverse persone perennemente al seguito. Ovviamente anche loro in aereo. In pratica, per non prendere l’aereo lei ha fatto volare una mezza dozzina di persone al posto suo. E questo la gente comune la fa incazzare, piantatevelo nella testa, soprattutto dopo il discorso a vene gonfie che la ragazza fece all’Onu intimando agli adulti di vergognarsi.

Certi messaggi, condivisibili per lo meno negli intenti, si avvantaggiano infatti della simpatia, della coerenza e quindi della credibilità che i testimonial sono in grado di offrire al pubblico. Ergo, non ci siamo affatto se si ottiene il risultato opposto a causa proprio della mancanza di simpatia, coerenza e credibilità.

A soffiare ulteriormente nelle vele al negazionismo climatico sono state poi altre campagne stampa abbastanza deformanti, come quelle che seguono sistematicamente ogni evento catastrofico, dall’alluvione agli incendi. Che i cambiamenti climatici abbiano un peso sui trend di questi fenomeni è palese. Magari meglio sarebbe però evitare di presentarli tutti come fatti inauditi, mai accaduti prima: tutta colpa dei cambiamenti climatici. Accadde per esempio dopo che Zermatt venne invasa da un’alluvione nel 2019. Mai accaduto prima? Mica tanto: secondo uno studio sviluppato sulla Val D’Aosta dal citato Luca Mercalli eventi similari si sarebbero abbattuti sulla valle sin dalla fine dell’ottavo secolo, cioè circa 1.200 anni fa. Più volte Aosta venne alluvionata nei secoli passati, come pure diversi eventi simili a quello di Zermatt hanno provocato morte e distruzione in epoche in cui eravamo meno di un miliardo sul Pianeta e andavamo al massimo a cavallo. Quindi anche no: serietà impone di cambiare toni e parole dando ad esse il giusto peso e significato.

Gli incendi in Canada del 2020? Mai visti prima? No: secondo il National Forest Database canadese il picco per l’area boschiva andata distrutta fu nel 1988 e il numero massimo di incendi spettò al 1989 (oggi purtroppo fuori scala temporale che attualmente parte dal 1990). Quindi il clamore mediatico improntato al “mai visto prima” si trasformò anche in quel caso in una meravigliosa leva nelle mani dei negazionisti. Su Siberia e Australia non so, non ho serie temporali a portata di mano, quindi non mi esprimo. Cosa che se i giornalisti facessero di sistema sarebbe meglio per tutti.

E poi, dai, mostrare foto di ghiacciai scattate nel 2017, comparandole con quelle dei primi anni 50’, ha senso? Sì, lì per lì, ma poi il ghiacciaio durante l’estate arretra ancora un po’ e scopre un rifugio costruito dagli Alpini nel 1917 in piena Prima Guerra mondiale. Questo perché gli ultimi anni ’40 sono stati fra i più freddi del secolo scorso, mentre quelli a cavallo del Primo Conflitto furono decisamente più temperati. Significa quindi che il cambiamento climatico non esiste? Niente affatto, ma in tal guisa può essere spacciato da chi si sia legata al dito la precedente comparazione fotografica, gongolando di gusto.

Il global warming non va infatti sostenuto o negato in base a eventi puntuali e locali, poiché l’analisi del clima va sviluppata in chiave temporale di medio e lungo periodo e, appunto, su scala globale. La nevicata a marzo sui monti abruzzesi con temperature sotto zero non può essere usata di per sé come prova che il riscaldamento globale non esiste, perché siamo in Abruzzo a marzo. Punto. Analogamente, le alluvioni in Germania dell’estate 2021 hanno numerosi precedenti nei secoli passati, debitamente documentati dai livelli idrometrici segnati sugli angoli delle case che erano già presenti per lo meno dal XVII secolo. Stupisce quindi che addirittura dei ricercatori di istituti pubblici affermino che tali fenomeni non avrebbero mai potuto verificarsi prima dell’era industriale. Ma tant’è…

Anche affermare che oggi gli eventi disastrosi siano addirittura raddoppiati è un “filino” forzata come informazione. Se si prendono infatti la popolazione e il Pil medio del ventennio 1980-1999 e li si compara con le medesime medie del ventennio 2000-2019, si evince come entrambi siano raddoppiati numericamente. Ergo, se un tornado abbattutosi nell’area “X” faceva un milione di dollari di danni e 10 morti nel 1990, non è che è raddoppiato di intensità perché nel 2010 distrugge beni per due milioni di dollari e uccide 20 persone. Perché nel frattempo in quell’area si sono moltiplicate le cose da distruggere e le persone da uccidere. Anche in questo caso il global warming non esiste? No, esiste, poiché le rilevazioni annue stanno aumentando, anche grazie all’intensificazione delle reti di rilevamento e dell’attenzione ai fenomeni. Ma parlare di raddoppio in base ai danni economici e ai morti, magari anche no: approccio interessante, ma fuorviante.

Ecco, il senso di questo approfondimento non è perciò quello di verificare o negare il global warming. Solo un cieco potrebbe negarlo. Semmai è quello di ricordare che non esistono bugie a fin di bene. La verità fattuale va trasmessa infatti così com’è, senza scandalismi giornalistici, senza cavalcate ideologiche di qualche politico o di qualche associazione in cerca di visibilità (e quattrini). Soprattutto, bisognerebbe comunicare senza fare alcunché che poi possa essere strumentalizzato dai negazionisti per portare acqua al proprio mulino. Perché in tal caso meglio sarebbe stato tacere, anziché porgere i sassi a chi vorrebbe usare la fionda.

Molto più utile sarebbe invece spiegare alla popolazione perché le risposte al problema non sono la dieta vegana, né i pannelli solari oggi adorati come divinità. Né sarà il biologico a salvare la Terra, né tantomeno l’avversione a diesel, nucleare, ogm, concimi e “pesticidi”. Le tecnologie per produrre più energia a basso impatto ci sono, basterebbe usarle invece di cavalcare e sobillare paure. Idem per le tecnologie da impiegare nei processi industriali e agricoli, atti a massimizzare le rese minimizzando le emissioni per unità di cibo prodotta.

Poi, va da sé, se ognuno sprecasse meno risorse, andrebbe meglio per tutti. Ma si teme che nessuno gradisca spegnere il riscaldamento in inverno o andare al lavoro in bicicletta in primavera, magari accontentandosi di una settimana di ferie in Romagna anziché volare per 12 ore verso paradisi tropicali lontani. Perché sempre tardi sarà quando le emissioni verranno soppesate anche in base alla loro priorità e indispensabilità, anziché solo per settore produttivo: un chilo di CO2 emesso per produrre cibo non può essere infatti equiparato a un chilo di CO2 emesso per farsi un giro domenicale al lago solo perché a casa ci si annoia, oppure per illuminare a giorno un casinò di Las Vegas consumando una quantità di energia pari a quella utilizzata da certi Paesi africani. Una maggiore equità di valutazione, questa, che servirebbe magari anche per intaccare quella rugginosità comportamentale e sociale che è forse la più subdola complice del cambiamento climatico stesso.

Perché parlare e denunciare è sempre facile, modificare le macrodinamiche globali un po’ meno. Prova ne è lo scellerato Green Deal europeo, quello che con il suo Farm2Fork aumenterà al 25% la superficie continentale a biologico (triplicandola) e si propone di convertire il 10% delle attuali superfici agricole dando loro più finalità ambientali e paesaggistiche che produttive.

Ergo, compreremo più cibo da quei Paesi che hanno emissioni più alte per unità prodotta, aggiungendo a queste anche quelle necessarie per il trasporto intercontinentale delle merci. Quando nel vostro piatto ci sarà pasta fatta con grano uzbeko anziché italiano, sappiatelo: state inquinando più di prima, non meno. Anche e soprattutto se quel grano è dato per biologico o “antico”. Se infatti devo coltivare il doppio o il triplo della terra per produrre la stessa quantità di cibo, le emissioni salgono, mica scendono. Un conto semplice e immediato che però non compare praticamente mai sui media italiani ed europei, da tempo proni ai proclami pseudo-ecologisti dell’ineffabile Ursula Von Der Leyen. Il tutto, ignorando bellamente le posizioni di scienziati ai cui occhi i nuovi orientamenti appariamo giustamente ipocriti se non addirittura folli.

Noi Europei potremo quindi vantarci col mondo di essere divenuti più Green, salvo aver causato un innalzamento globale delle emissioni solo per soddisfare quello spocchioso atteggiamento pseudo ecologista che anziché aiutare a risolvere i problemi li sta aggravando sempre più, raccontando favole, vendendo illusioni e moltiplicando bugie, supposte a fin di bene quando invece sono tutt’altro.

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Ogm e biologico: connubio a sua insaputa

Di Ogm ce ne sono da molti decenni, solo che non lo sapevate

Da circa 70 anni coltiviamo organismi geneticamente modificati in modo artificiale, ovvero i famigerati Ogm, cioè prima che venissero bollati come tali finendo arrostiti sul rogo ecologista. E, sorpresa, molti Ogm sono oggi coltivati anche in biologico, ma Federbio o non lo sa o finge di non saperlo

Non cambieranno mai. Per decenni hanno giocato sull’equivoco per il quale i consumatori pensano che il biologico non usi “pesticidi”, quando invece ne usano eccome. Semplicemente hanno stabilito arbitrariamente che i loro, di “pesticidi”, sono buoni mentre ad essere cattivi sono solo quelli usati dagli “altri”. Quando così ovviamente non è.

Passano gli anni, ma lo stile rimane lo stesso. Oggi il tema non sono però i “pesticidi” bensì gli Ogm, ovvero gli organismi geneticamente modificati dall’uomo per via artificiale. Tali colture biotecnologiche sono da sempre rifiutati con sdegno non solo dagli ecologisti, bensì anche dai biologici, salvo utilizzarli da decenni anche loro più o meno consapevolmente. Anche in questo caso, però, viene fatto pensare il contrario. Cioè che loro no, gli Ogm non li coltivano mica.

Ogm con sorpresa

La voglia di scrivere questo approfondimento è nata proprio oggi, 10 dicembre 2020, durante l’intervento di Paolo Carnemolla, a lungo presidente di Federbio, in occasione dei Forum di Medicina Vegetale, evento online organizzato da Arptra, Associazione regionale pugliese dei tecnici e ricercatori in agricoltura.

Nel corso di una tavola rotonda virtuale si è infatti toccato il tema del genome editing, spiegato in modo semplice da Vittoria Brambilla, biotecnologa del Dipartimento di Scienze agrarie e ambientali dell’Università degli studi di Milano. Questi nuovi strumenti potrebbero contribuire efficacemente proprio alla riduzione della pressione ambientale dei prodotti per la difesa fitosanitaria, come pure a migliorare le rese e le potenzialità europee di produrre cibo sano e sicuro. Quindi un’opportunità che l’agricoltura del futuro non può permettersi di perdere, soprattutto se vuole raggiungere gli ambiziosi obiettivi del Green Deal prossimo venturo.

Ovviamente, Federbio prende le distanze anche dal genome editing, conosciuto anche come Crispr-Cas9, cioè la tecnica di modifica genetica che è valsa il Nobel per la chimica alle sue scopritrici, Jennifer Doudna ed Emmanuelle Charpentier. Incurante di tale riconoscimento internazionale, Paolo Carnemolla tali distanze le ha prese ricordando come vi siano consumatori che preferiscono acquistare prodotti nei quali nessuno ha messo le mani. Ed è questa espressione, mettere le mani, che ha stuzzicato la mia voglia di mettere i puntini sulle “i”.

Da sempre l’uomo “mette infatti le mani” nel Dna delle piante, selezionando i caratteri desiderati e scartando quelli per lui inutili. Certo, lo ha fatto in passato con metodiche arcaiche, giocando solo sulla selezione degli individui desiderati. Allo stesso modo, per capirci, siamo partiti dai lupi e siamo arrivati da un lato ai Chihuahua e dall’altro agli alani. Se non vi pare “mettere le mani” nel Dna questo, onestamente, non saprei cos’altro dire.

Quindi, cosa vuol dire esattamente “mettere le mani”, al di là del pessimo messaggio visivo che tale espressione richiama? Perché qualcuno che “mette le mani” nel Dna di qualcun altro, mica suona bene nelle orecchie di un cittadino qualunque, visto che è un’espressione che ricorda intrusione, violazione, porcheria.

Di certo, Paolo Carnemolla saprà però bene come nel luglio 2018 la Corte di Giustizia Europea abbia posto fra gli Ogm convenzionali, per lo più transgenici, non solo le moderne tecniche di genome editing, bensì pure ogni organismo sia stato ottenuto tramite qualsiasi “manipolazione artificiale del genoma”.

Ciò svuota di qualunque significato la pretesa di Paolo Carnemolla di spacciare il biologico come forma di agricoltura che non usa colture in cui l’uomo abbia “messo le mani”. Non avete infatti idea (e forse manco i biologici ce l’hanno) di quante varietà oggi coltivate derivano da esperimenti in cui le mutazioni sono state artificialmente indotte usando radiazioni o sostanze chimica mutagene. Altro che mani…

Il giorno che la Corte di Giustizia ha emesso tale coraggioso giudizio, è quindi caduta ogni capziosa divisione fra colture reputate “tradizionali” e altre bollate come Ogm, da sempre secondo cavallo di battaglia del biologico al fianco dei “pesticidi”.

Soluzioni?

Ma allora, per evitare gli Ogm (come se ce ne fosse bisogno…) bisogna comprare solo colture “antiche”? No, spiacente, ipotesi troppo semplicistica. Questo perché, sebbene non siano stati inseriti fra gli Ogm pure loro dalla Corte europea, diversi “grani antichi” sono frutto di “mani” messe comunque nel loro Dna. Per esempio, quando l’italiano Nazareno Strampelli sviluppò il suo primo grano tenero di successo, l’Ardito, di “mani” ce ne mise parecchie, realizzando incroci che altrimenti non sarebbero mai avvenuti in natura per banali motivi geografici.

Ben poche opportunità di incrociarsi avrebbero infatti avuto il grano Rieti, italiano, con il Wilhelmina Tarwe, olandese, che derivava a sua volta dall’incrocio tra un’altra varietà olandese, la Zeeuwse Witte, con una inglese, la Squarehead. Poi, questo “meticcio” italo-anglo-olandese venne incrociato a sua volta con il grano Akakomugi, giapponese. Un mischione di genetiche fra loro lontanissime, fatte convergere dal nostro ricercatore in una sola varietà di frumento. Evento che lasciando fare alla natura non si sarebbe mai e poi mai potuta generare.

Ergo, non resta che constatare come dal biologico giungano ancora una volta dei messaggi fuorvianti, lasciando pensare che loro sono sempre e comunque migliori degli “altri”. E altrettanto come al solito, la risposta è no: le “mani” nel Dna delle colture ce le abbiamo messe da sempre, ovunque e comunque. In passato, per giunta, lo abbiamo fatto con modalità e tecniche ben peggiori del genome editing.

Non ha quindi senso sbiellare all’idea di mangiare un fagiolo modificato tramite Crispr-Cas9, altamente mirato e controllato, quando si mangiano da decenni cereali e ortofrutta ottenuti con le radiazioni, con la colchicina o con varie sostanze chimiche mutagene. No, cari miei: non ne ha affatto, perché queste tecniche di modifica genetica sono di gran lunga meno selettive e precise di quella più moderna, premiata appunto con un Nobel. Quindi, miei buoni consumatori, rassegnatevi: qualunque alimento voi compriate, bio o non bio, deriva direttamente o indirettamente da qualche coltura in cui noi, uomini, abbiamo “messo le mani”.

E tranquilli: prima ce le siamo lavate…

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A scuola di catastrofismo

Alterare i fatti per ottenere ciò che si vuole non è degno né di chi produce conoscenza, come gli scienziati, né dei giornalisti che ne divulgano le esternazioni

Un’esperienza universitaria del passato insegna come difendersi dal catastrofismo allarmista odierno, piaga che ormai ha invaso anche ambienti accademici e mediatici

Mettere paura o far piangere è molto più facile che rassicurare o far ridere. Lo sa anche l’ultimo brocco di aspirante attore iscritto a una scuola di recitazione di quart’ordine. E qualcuno di tali personaggi l’ho pure conosciuto in vita mia.

Mai come oggi si è però assistito a un furioso martellamento allarmista su molteplici fronti. Un giorno sono i pesticidi nelle acque, un altro nei cibi. E poi gli Ogm distruttori del Mondo, l’olio di palma manco fosse Polonio radioattivo, idem per il glutine del grano e i vari cibi spacciati come “velenosi” come il latte, la farina o lo zucchero. Spesso, per somma incoerenza, tali persone sono poi le stesse che reputano il Covid-19 una bufala inventata dai “poteri forti” per togliere loro la libertà. A dimostrazione che se uno si dimostra essere un pazzo per una cosa, difficilmente si dimostrerà savio per un’altra.

Come non bastasse, pure il 5G viene presentato come arma di distruzione di massa, al pari delle medicine e dei vaccini della famigerata “BigPharma”, più ogni possibile altra innovazione o infrastruttura che si affacci sul Pianeta. In tal senso fa scuola il recente completamento della Tap, il metanodotto che porta gas in Italia approdando sulle coste pugliesi, portato a termine senza che si verificasse alcuno dei “disastri ambientali” paventati dai soliti comitati del No e dai molteplici ciarlatani che in siffatto torbido ci hanno sguazzato a piene mani. Il tutto, causando ritardi e danni economici tutt’altro che indifferenti. Danni non solo a carico dell’azienda costruttrice, bensì anche della collettività nel suo insieme. Danni causati da minoranze di facinorosi o di disonesti che per le proprie azioni scellerate e spesso illegali mai pagheranno.

Lezioni dal passato

La summenzionata regola dello spavento strumentale, però, può essere applicata con successo anche quando sul palcoscenico non vi sia un attore, bensì un professore universitario un po’ fanfarone e in cerca di proseliti.

Sono trascorsi ormai 31 anni da quando assistetti a uno “stage” universitario di un certo professor Phobos, americano, in visita al Dipartimento di meccanica e meccanizzazione della Facoltà di agraria di Milano. Ero studente ormai in tesi, impegnato in una ricerca sull’eutrofizzazione delle acque, ovvero quel fenomeno di proliferazione abnorme delle alghe causato dall’eccesso di sostanze nutritive come fosforo e azoto.

La mia sensibilità ambientalista era molto spiccata a quel tempo. O meglio, non avevo ancora capito quale differenza vi fosse tra un ecologo, cioè uno scienziato impegnato concretamente nella difesa dell’ambiente, e un ambientalista, ovvero un idealista spesso impegnato a dare la caccia alle streghe convinto ancora che esistano.

Votavo per i Verdi, ero iscritto al Wwf ed ero in procinto di espletare il servizio sostitutivo di Leva presso l’associazione ambientalista Amici della Terra. Insomma, ci credevo. E tanto pure.

Il professor Phobos, omonimo di un personaggio della Marvel comics apparso in una puntata dell’incredibile Hulk, era un uomo sopra la sessantina, ornato da una capigliatura candida. Si presentò vestito in modo semplice, con un marsupio da turista in bella vista, ma si rivelò presto un istrione esuberante, a tratti molto simpatico.

Sapeva bene come stabilire con la platea un’empatia profonda, specialmente contando sulla nostra giovane età e quindi inesperienza. Oggi, che qualcosa di comunicazione ho pur imparato, so che era solo molto abile nel sapersi presentare e nel far abbassare le difese agli interlocutori, ricorrendo con malizia a una serie di facezie e comportamenti divertenti, i quali in un uomo di scienza come lui non potevano che suscitare apertura mentale e voglia di ascoltarlo.

Nella sua ora di lezione ci trasmise così quelli che erano i suoi consigli di navigato ambientalista. Ci insegnò in special modo come ci saremmo dovuti comportare nel caso fossimo stati coinvolti in futuro in una valutazione di impatto ambientale, cioè quel processo d’indagine atto a misurare i rischi e i possibili danni di una qualsiasi opera dell’Uomo. Noi eravamo infatti dei potenziali futuri ecologi, quindi quella buona lana di Phobos sperava di contribuire a trasformarci anche in futuri ecologisti.

Il suo approccio con le autorità pubbliche coinvolte nei processi di valutazione era molto semplice: catastrofismo a iosa. Ci spiegò infatti che non dovevamo relazionare alle autorità snocciolando in modo asettico i risultati scientifici delle nostre ricerche. Dovevamo al contrario puntare sull’emotività, mettendo la razionalità delle evidenze scientifiche in secondo piano. “You must say that everything will be completely destroyed!“, cioè, “Dovete dire che tutto andrà completamente distrutto!“. Solo così, secondo lui, si poteva sperare di essere ascoltati dai decisori pubblici che ci avevano consultato in qualità di esperti.

In altre parole, a Phobos interessava poco valutare il reale impatto ambientale di un progetto. A lui interessava invece spaventare gli ascoltatori affinché non se ne facesse nulla. Lavoro tutto sommato facile, dal momento che la maggior parte dei politici, se qualcuno paventa loro un rischio elevato, mai si prenderebbe il rischio di passare un guaio con gli elettori in caso quell’esperto avesse avuto malauguratamente ragione.

Questo in Usa, ovviamente, perché in Italia abbiamo politici che collezionano da decenni figure a cavallo tra codice civile e penale, ma continuano imperterriti a prendere voti e spolpare i bilanci di Stato e Regioni come se fossero a un banchetto medievale di cacciagione mista.

Finito di dispensare a noi giovani le sue “pillole di saggezza” (!), Phobos se ne tornò poi negli Stati Uniti e io portai con me la traccia di quella lezione demenziale per alcuni anni. Poi, per fortuna, imparai nel tempo quanto le persone come Phobos fossero tanto seducenti quanto pericolose. Dal momento in cui realizzai tale evidenza, diedi importanza solo ai fatti, ai dati, alle prove, cercando di essere il più possibile preciso, in modo che le mie conclusioni fossero il più possibile attendibili.

Forse è per questo che oggi rimango costernato di fronte all’evidenza di come sul Mondo abbia avuto un peso preminente chi la pensa come il Prof. Phobos, anziché quelli come me e come molti altri colleghi i quali, come tanti Don Chisciotte, continuano a spiegare coi dati e con le prove che no, il progresso ha fatto molto più bene che male. E che non moriremo tutti entro venerdì, oggi per questo, domani per quello.

Ricordatevi quindi che dietro a ogni proclama allarmista che sentite può nascondersi un adepto della “Phobos school”. Un nome, un programma, visto che Phobos deriva dal greco Φόβος, ovvero la divinizzazione della paura. E da tali divinità è meglio stare alla larga.

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Ogm, glifosate e farfalla Monarca: la farsa infinita

La farfalla Monarca (Fonte Pexels)

Dopo le accuse agli Ogm, rivelatesi poi false, ora l’attacco pseudo-ecologista è contro glifosate, accusato di essere la causa del declino in America dei preziosi lepidotteri

Da decenni si passa da un vicolo cieco all’altro, senza mai trovare la fine della narrativa ecologista anti-agricoltura. Fra le tante crociate chemofobiche e tecnofobiche sviluppate, spicca oggi quella incentrata sulla farfalla Monarca, o Danaus plexippus, splendido lepidottero diurno che sfortuna sua si nutre solo di una pianta spontanea, la cosiddetta “Milkweed” così chiamata per il tipico liquido lattiginoso che produce come essudato a seguito di rotture cellulari. Un tipo di piante che contiene diverse sostanze tossiche per l’uomo, ma che risulta appetitoso per la farfalla Monarca, tanto da divenire la sua unica fonte di nutrimento. Niente Milkweed, niente Monarca.

Tali farfalle starebbero però andando incontro a un continuo declino di popolazione e da decenni ci si interroga sulle possibili cause del fenomeno e sulla sua reale ampiezza. Poco solida appare per esempio la tesi della mortalità dovuta alla sola migrazione, dato che questo lepidottero si sposta ogni anno per migliaia di chilometri, in buona parte dagli Stati del Midwest americano al Messico, compiendo quella che viene chiamata “migrazione invernale”. Al cambio di stagione la farfalla tornerà ancora al punto di partenza e così via. La tracciatura delle farfalle “taggate” all’origine avrebbe infatti dimostrato come la perdita di esemplari dovuta alla migrazione sia irrisoria rispetto ad altre cause. E quindi quale colpevole migliore se non l’agricoltura?

Il primo bersaglio degli ambientalisti, spesso travestiti da scienziati, fu contro gli Ogm. Per lo meno, contro gli Ogm resistenti agli insetti grazie alla presenza nei propri tessuti della tossina Bt del Bacillus thuringiensis. In tal senso, soprattutto il mais Bt venne messo alla gogna mediatica a seguito di alcuni esperimenti di laboratorio in cui si sarebbe “dimostrato” che il suo polline “contaminato” dalla tossina si depositava sulle piante di “Milkweed” uccidendo le larve di Monarca che vi si nutrivano.

Di fatto, i ricercatori avrebbero però forzato la presenza di tossina Bt sulle foglie usate come laboratorio vegetale, non solo deponendo più granuli pollinici di quanti ne possano davvero arrivare nei campi coltivati, bensì mischiando anche al polline del materiale derivante da altri organi della pianta, notoriamente molto più ricchi di tossine (Leggi la fonte). Infatti, secondo alcuni studi svolti da Usda sul Mon810(1), il mais Bt conterrebbe delta-tossina Cry1Ab a rateo variabile in funzione del tessuto analizzato. Ve ne sarebbero 8-10 mg/kg nelle foglie (peso fresco), concentrazione efficace nel contenere le larve di piralide. Molto meno nella granella, scendendo le concentrazioni di delta-tossina a valori compresi fra 0,16 e 0,69 mg/kg.

Ancor più basse le concentrazioni nel polline, con soli 0,09-0,097 mg/kg. Nel polline vi sono quindi concentrazioni di delta-tossina circa cento volte inferiori a quelle delle foglie. Ben peggio sarebbe quindi trattare il mais con insetticidi biologici a base di Bacillus thuringiensis, le cui dosi/ettaro immetterebbero nell’ambiente molta più tossina rispetto al polline del mais Bt. In sostanza, se tutto il mais americano attualmente Bt diventasse “bio”, trattato con insetticidi Bt ammessi in agricoltura biologica, per la Monarca potrebbe solo essere molto peggio.

Che la tesi anti-biotech fosse inconsistente lo si evince poi da studi successivi svolti in diverse aree degli Stati Uniti: secondo ulteriori indagini, sviluppate sempre da Usda, nel mondo agricolo reale le concentrazioni di polline sulle foglie sarebbero ampiamente inferiori a quella necessaria a ottenere un effetto tossico sulle farfalle Monarca.

Fine della storia? No. Sgonfiatasi la bolla speculativa sui mais Bt ecco arrivare quella anti-glifosate. Finalmente, qualcuno si è accorto infatti che le Monarca stanno declinando, ça va sans dire, perché non trova cibo sufficiente. Le grandi estensioni coltivate del Midwest americano hanno di fatto creato degli areali ampissimi in cui vi sono solo colture agrarie, dalla soia al mais. Quindi, essendo tali colture ampiamente diserbate con glifosate, ecco il nuovo colpevole perfetto per il declino del lepidottero.

Primo problema: verificare sempre se il fenomeno denunciato è davvero reale per dimensioni e tempi. In tal caso, secondo una pubblicazione su “Le Scienze” del maggio 2020, a firma del giornalista scientifico americano Gabriel Popkin, le cose non starebbero esattamente come denunciate dagli ambientalisti, tanto per cambiare. Nell’articolo su “Il Bo Live“, dell’Università di Padova, si riassume egregiamente il pensiero di Popkin, il quale dapprima ricorda l’estrema complessità dei processi di valutazione di fenomeni così articolati, coinvolgenti areali particolarmente distanti e alquanto differenti come quelli protagonisti della migrazione della Monarca.

Oltre a ciò, Popkin mette i cosiddetti puntini sulle “i”. Per esempio si interroga sugli areali attraversati dalle Monarca, chiedendosi se e quali di essi possano giocare un ruolo nella diminuzione degli esemplari. Pure la conta della popolazione è tutt’altro che agevole, dato che un gruppo definito “rilevante” non sverna in Messico bensì in California. O si censiscono quindi tutte le popolazioni, in tutti gli areali, oppure definire in calo la Monarca solo guardando alle farfalle in Messico ha ben poco senso.

Infine, solo il 38% delle Monarca dirette in Messico transiterebbe dall’ormai famigerato Midwest. Famigerato, ovviamente, solo a causa dell’astio ambientalista. Quindi, il calo che pur si è osservato in Messico a partire dai primi Anni 90 non può certo essere attribuito in toto a ciò che nel Midwest si fa. Buono o cattivo che sia.

Secondo problema: individuare correttamente le eventuali cause mantenendo anche un approccio di tipo comparativo con scenari avulsi dai grandi accusati di turno. In tal caso glifosate.

Facendo ciò – e andando dietro alla folle narrativa ecologista, nella quale è difficile trovare il confine tra follia e disonestà – abolendo glifosate le cose cambierebbero? No, perché invece di diserbare con glifosate gli agricoltori americani diserberebbero con altre sostanze attive. Quindi, si sarebbe ottenuto solo di impoverire gli agricoltori, obbligandoli a usare diserbanti molto più costosi di glifosate, senza che le “Milkweed” possano espandersi nuovamente. Quindi punto e a capo.

Bene, allora continuiamo a seguire le fantasie chemofobiche degli haters dei “pesticidi”: aboliamo pure tutti gli altri diserbanti e finiamola lì. Giusto? La Monarca è quindi salva? No, perché gli agricoltori americani userebbero le macchine (aratri, sarchiatrici, erpici e rincalzatrici) per strappare le malerbe, abbandonando per somma sventura anche le virtuosissime pratiche di semina su sodo, foriere di enormi vantaggi per l’ambiente, sia perché preservano i terreni, sia perché diminuiscono sensibilmente le emissioni di CO2. Quindi una tale riconversione al diserbo meccanico comporterebbe un danno ambientale certo, profondo e diffuso. Pessimo affare. E la Monarca?

A questo punto, se le Monarca dovessero per caso aumentare vorrebbe dire che di “Milkweed” ne sopravvivono tantissime. Quindi si dovrebbe concludere in modo definitivo ciò che si sa da sempre: la miglior lavorazione meccanica del Mondo non lega neanche le scarpe a un diserbo fatto bene. La pappa per le Monarca deriverebbe infatti solo da un mezzo fallimento delle pratiche di diserbo meccanico, unico strumento rimasto agli agricoltori dopo il bando degli erbicidi. Evidenza che non piacerebbe affatto proprio a quel fronte eco-bio che ne sostiene invece l’alta efficacia, pur di non ammettere l’evidenza dei fatti.

Ma andiamo ancora un passo in là: si stanno affacciando sul mercato dei droni terrestri in grado di eliminare le malerbe in modo eccellente, una a una, grazie a software e banche immagini in continuo auto-aggiornamento. Questi sì sarebbero efficaci nel ripulire i campi in modo completo senza più usare la chimica, senza massacrare il terreno e senza emettere molto in termini di gas serra. Bellissimo, ma allora torneremmo a vedere nuovamente declinare le Monarca, esattamente come accade oggi usando glifosate. Perché la Terra è tonda e, come dimostrò Cristoforo Colombo, cercando l’Oriente andando verso occidente, alla fine ci si può ritrovare in un continente nuovo, oppure si può tornare al porto di partenza. E quindi aboliamo pure i droni sostitutivi dei diserbanti?

Probabilmente sì: dopo le sterili crociate anti-Ogm, dopo aver eliminato ogni diserbante possibile e immaginabile, domani la gogna mediatica pro-Monarca potrebbe toccare perfino alle nuove tecnologie meccaniche ed elettroniche, destinate proprio per la loro efficacia a finire nel mirino delle frange ecologiste che oggi le additano invece quali salvatrici dell’ambiente.  

E la soluzione, quindi, dov’è?

Quello delle Monarca è un problema legato banalmente al calo della biodiversità di ampi areali in cui esse normalmente vivono. I casi sono quindi due: o si elimina l’agricoltura e ci si nutre di ammirazione per le Monarca, oppure si modifica il territorio secondo un approccio “olistico”, vocabolo tanto amato a parole dagli ecologisti, ma disatteso poi nei fatti dai loro comportamenti monocordi anti-agricoli.

Ciò che servirebbe infatti, e non solo alla farfalla Monarca, è che interi territori venissero gestiti in modo integrato, creando aree e corridoi rifugio ovunque sia possibile: lungo le grandi arterie di comunicazione, lungo le ferrovie, nei parchi pubblici, nelle aree verdi non produttive e, ovviamente, anche sacrificando piccole strisce di terreni coltivati, magari i meno redditizi, perché ciascuno qualche sacrificio deve pur farlo, anche l’agricoltura. Ma mica solo lei, come si pretende da più parti: perfino le aree verdi private potrebbero essere incentivate a seminare essenze atte a ospitare insetti e altri organismi utili, perché oltre alla Monarca vi sono per esempio gli impollinatori selvatici da preservare.

In sostanza, se si vuole davvero aiutare l’ambiente la si deve smettere di chiedere solo all’agricoltura di rinunciare a qualcosa, magari di indispensabile, come appunto glifosate: tutti devono fare la propria parte, perché anche coloro che oggi sbraitano contro questo erbicida, e ieri sbraitavano contro gli Ogm, mangiano tre o più volte al giorno. Quindi all’agricoltura dovrebbero solo essere grati, perché se l’agricoltura “inquina” lo fa per dar loro da mangiare in abbondanza. E fare gli ecologisti a stomaco vuoto, ve lo dico, è molto disagevole.

La salvezza della Monarca e di altre specie va cioè molto oltre il semplice Ipm (integrated pest management), come pure va cercato un po’ più in là dell’Icm (integrated crop management), sfociando nel ben più complesso e “democratico” Itm, ovvero l’integrated territory management. Perché solo investendo fondi pubblici negli equilibri territoriali sarà possibile fare convivere le attività agricole più produttive e moderne con gli obiettivi di salvaguardia delle specie spontanee, vegetali o animali che siano.

Con buona pace dei crociati “No-Tutto”. 

  1. Epa: Cry1Ab and Cry1F Bt Plant-Incorporated Protectants September 2010 Biopesticides Registration Action Document

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Sostenibilità e resilienza: quando i sogni possono diventare incubi

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Dei romantici papaveri abbelliscono i campi e strappano sospiri. Peccato che sia quello che succede quando si sbaglia un diserbo e le produzioni calano

Agricoltura e natura sono due cose molto diverse. Illudersi che la strada maestra sia riportare la prima sugli schemi della seconda, come vorrebbero i sostenitori del Green Deal, può solo creare danni difficilmente riparabili ai sistemi agroalimentari italiani ed europei. Cosa dicono la storia e la biologia

 

Sostenibilità e resilienza. Praticamente due mantra che vengono rilanciati a spaglio dai media, soprattutto da quelli funzionali alla sinistra eco-bio, sedotti e – direi – complici dal cosiddetto Green Deal, ovvero quella serie di proposte su come rivoluzionare l’agricoltura del Vecchio Continente, ma elaborate senza il coinvolgimento alcuno proprio di chi di agricoltura ne capisca qualcosa.

Cosa sia il Green Deal e quali siano le sue storie lo si può apprendere nei seguenti articoli:

Cosa è “bio”. La chiave non è la lunghezza della filiera, ma la sicurezza

Scienza e razionalità

Natura, agricoltura e politica: le lezioni del coronavirus rimaste ignorate

In questo, di articolo, ci si concentrerà solo sui due termini all’oggetto, perché è proprio in nome loro che si stanno ponendo tonnellate di tritolo alla base dei pilastri che reggono la sicurezza degli approvvigionamenti agroalimentari europei in generale e italiani in particolare. Vediamo quindi cosa ci dicono la storia e la biologia, due forme di sapere che a quanto pare sono delle vere e proprie extraterrestri nelle redazioni di alcuni giornali di tiratura nazionale.

 

Le lezioni della storia

Per chi credesse siano di scottante attualità i temi trattati dal Green Deal, arriva una pessima notizia: non è così. Avete presente quelli che considerano dei veri satanassi i pesticidi, i fertilizzanti “chimici” e la genetica, incluse le biotecnologie? Quelli cioè che tuonano un giorno sì e l’altro pure contro l’ agricoltura e la zootecnia intensiva, auspicando un ritorno a condizioni più “naturali” ed ecocompatibili, avulse da tutto quanto sopra? Ecco, loro.

Forse un ripasso dalla storia antica e recente può giovare, permettendo di comprendere come i temi attuali tutto tranne che attuali, come pure quanto la percezione dell’uomo distruttore dell’ambiente sia vecchia come il cucco. Per esempio, Lucio Giunio Moderato Columella , cronista romano del I sec. dC, testimoniava già all’epoca quello che segue:

Odo spesso la gente lamentarsi ora dell’attuale sterilità dei campi, ora dell’attuale inclemenza delle stagioni che ormai va danneggiando i frutti della terra. C’è chi poi vuol attenuare in certo modo queste lamentele con l’assegnare al fatto una ragione precisa e dice che, stanco e isterilito dalle eccessive produzioni del passato, il terreno non può più offrirci i suoi frutti come nel passato ”.

E chissà il povero Columella quanto patisse tali catastrofismi colpevolisti che gravavano sulla “sua” agricoltura. E quanto magari si scorerebbe oggi nel vedere che devo riprendere io ciò che lui diceva  millenni or sono, perché nulla pare nel frattempo sia cambiato nella testa della gente che mangia sempre a quattro palmenti, ma che a tenere una vanga in mano non sa nemmeno da che parte si comincia.

Duemila anni fa, infatti, non erano mica ancora nati Fritz Haber e Carl Bosch, gli inventori dei processi grazie ai quali si poteva catturare l’ azoto atmosferico per produrre concimi su scala industriale. Per avere tali fertilizzanti, capaci in pochi anni di triplicare le rese per ettaro delle colture agrarie, dovemmo attendere l’inizio del XX secolo.

Ma oltre al buon Columella, testimone di allora delle contumelie che finivano sul gobbo degli agricoltori, la storia ci riporta i tuoni e le saette che nel 221 dC scagliava contro l’avidità agricola umana un vero gigante dell’antica Roma, ovvero Settimio Fiorente Tertulliano.

Siamo di peso al mondo, a stento ci bastano le risorse, e maggiori sono i bisogni, più alti sono i nostri lamenti, poiché la natura già non è in grado di sostenerci. In effetti le pestilenze, le carestie, le guerre e la rovina delle civiltà sono un giusto rimedio, uno sfoltimento del genere umano arrogante“.

Della serie: moriremo tutti per mano di quella Dea Natura da noi stuprata a più non posso.

In effetti Tertulliano, allora noto per l’ardore da pasionario cristiano, sarebbe oggi un ottimo attivista ecologista o, perché no, un eccellente redattore di certi giornali, ai quali risulterebbe oltremodo affine per ideologia filo-naturista (la nuova religione del Terzo Millennio) aggiungendo però quel tocco di stile che mai guasta.

Peccato che, a dispetto dei detrattori dell’attuale agricoltura tecnologica, ai tempi dei romani esistessero già le cosiddette Ruggini (Bruna, Gialla e Nera), malattie dei cereali capaci nelle annate giuste di spazzare via buona parte dei raccolti. Contro di esse l’unica reazione umana erano le cosiddette Rubigalia, ovvero delle processioni di carattere sacro in cui si facevano sacrifici alla Dea Robigo, supposta mandante delle ruggini stesse. Ovviamente, le Rubigalia lasciavano il tempo che trovavano e il grano veniva abbrustolito da quei funghi patogeni fino a perdere la maggior parte del prodotto. E poi era fame…

Non esistendo allora i pesticidi brutti, cattivi e distruttori di biodiversità e resilienza, la natura andava infatti in equilibrio con se stessa e faceva sì che solo poche piante per specie potessero portare a termine il proprio ciclo biologico-riproduttivo, spargendo a terra quei pochi semi sopravvissuti atti a tutelare se stessa anche per l’anno a venire. Un processo che accomunava il grano con qualche altra decina di specie erbacee che gli crescevano nel mezzo (o era il grano a crescervi nel mezzo? Mah…), tutte intente a competere fra loro, grano incluso, per asportare acqua, luce e nutrimenti. Ovviamente sottraendo il tutto alle altre piante di altre specie.

E mica finisce qui, perché oltre a patogeni ed erbe infestanti anche gli insetti cercavano di attingere a risorse, succhiando linfa, mangiando foglie e trasmettendo virus, anch’essi figli della natura al pari di altri. Grazie alla biodiversità botanica ed entomologica, questi avevano un discreto numero di piante diverse fra cui scegliere, pur prediligendo di solito un tipo ben specifico. Quindi, al grano ne toccava solo una parte grazie al fatto di essere infestato fino al collo di altre erbe spontanee. Che culo…

Ecco: se volevate una descrizione di cosa sia la biodiversità, l’avete trovata. Cioè quella cosa che va difesa col coltello fra i denti se siamo nel Parco Nazionale del Pollino, ma che se sta fuori dai campi coltivati è molto meglio, a meno di accettare pacificamente le carestie auspicate da quell’esaltato di Tertulliano. Gli scenari “biodiversi” di cui sopra, infatti, potranno rendere felici i biologi conservazionisti e gli ecologisti che s’illudano di poter vivere di aria. Non certo gli agronomi e gli agricoltori, i quali da quei campi, con tutta quella “biodiversità”, sanno perfettamente raccoglieranno meno di un decimo di quello che dovrebbe raccogliere.

E la resilienza? Era lì pure quella: il grano, tutto sommato, si riproduceva comunque. Era cioè “resiliente” rispetto a quanto gli accadeva intorno. Il suo scopo non era infatti quello di nutrire noi, bensì di proseguire se stesso. Obiettivo per raggiungere il quale era sufficiente spargere a terra pochi punti percentuali di tutti i chicchi che era stato in grado di produrre dopo la fioritura.

Lo stesso, per dire, capitava agli ulivi. Ogni pianta coltivata ha infatti lo scopo biologico di riprodurre se stessa, non di sfamare uomini e animali. Se un olivo, pianta secolare, manda a buon fine anche solo l’un per cento di tutte le olive prodotte nei molti decenni di vita, generando anche solo una dozzina di nuovi alberi, è pienamente soddisfatto. Il suo scopo naturale lo ha raggiunto appieno.

Ci vedete anche un solo litro di olio per noi in tutto ciò? Mica tanto. A meno di accontentarsi di raccattare da terra olive mezze marce e infestate da larve di insetti. Sai te che squisitezza? Un vero olio Igp: indicazione geografica pestilenziale.

No: l’olio per noi la “biodiversità” del territorio e la “resilienza” degli ulivi non lo prevedono. La prima è composta infatti da malerbe, funghi patogeni e insetti che attaccano le piante coltivate esattamente con lo stesso scopo nostro: ricavare nutrimento. La seconda è quella caratteristica che dà a ogni specie la capacità di adattarsi a una convivenza alquanto stretta con altre forme di vita, al fine di sopravvivere comunque. La resilienza è cioè solo quella peculiarità di un ambiente che permette a ogni specie di entrare in equilibrio con tutte le altre, accontentandosi di potersi esprimere al minimo delle proprie potenzialità. Ecco perché se vogliamo mangiare noi dobbiamo sopprimere i nostri naturali concorrenti. Perché se non ammazziamo noi loro, sono loro ad ammazzarci levandoci il cibo.

Basti pensare che oltre agli antichi Romani che pregavano la dea Robigo, si ritiene che pure il mito biblico dei sogni di Giuseppe, con sette anni di abbondanza e sette di carestia, siano collegabili e pesanti proliferazioni di Ruggini (Puccinia graminis) di cui avrebbe patito l’Egitto dell’epoca.

In epoche più recenti i patogeni più temuti sul grano sono invece divenuti Septoria e Fusarium, la prima capace di deteriorare l’apparato fogliare e gli steli del grano, mortificandone la fotosintesi. Il secondo foriero non solo di danni alle spighe, bensì anche di sostanze altamente tossiche e cancerogene, le famigerate micotossine.

E le Ruggini? Dopo anni di ricerca si era riusciti a selezionare varietà resistenti a tali malattie. Una pacchia? No, perché grazie proprio alla “biodiversità” e alla “resilienza” di questi funghi, nel 1999 si differenziò un nuovo ceppo di Puccinia molto virulento, indifferente ai meccanismi genetici di resistenza che fin lì avevano funzionato. Venne scoperto in Uganda , diffondendosi poi rapidamente in Kenya, Etiopia, Sudan e Yemen. Nel 2013 arrivò infine in Europa. In sostanza, noi siamo chiusi nel fortino a difendere le nostre provviste, mentre la natura ci assedia costantemente per portarcele via. Meglio capirlo in fretta, anziché scalmanarsi al fine di spalancare i portoni del fortino ai nemici considerandoli fratelli.

Quindi, contro Ruggini, Septoria e Fusarium o si usano biotecnologie e chimica agraria, oppure si saltano i pasti. Se non si comprende questo si è proprio messi male. E che quindi la biodiversità e la resilienza vengano protette in tutto il resto del territorio, magari evitando di cementificarlo a ritmi vertiginosi. Cosa che nel Green Deal non è stata ovviamente trattata.

 

Non solo patologie del grano

Compiamo ora un balzo di diversi secoli, dai Romani ai Fiamminghi del XVI secolo. Avete presenti i quadri del Bruegel, quelli naiv, dove si possono vedere ritratti dei poveretti con gli arti inferiori amputati e le facce deformate da smorfie da dementi? Ecco: un’altra eredità della biodiversità e della resilienza. La causa era infatti un altro ospite indesiderato delle nostre colture più comuni: la Segale cornuta, meglio nota ai patologi vegetali come Claviceps purpurea, un fungo che infestava la segale lasciandovi sopra delle tossine letali, causa di ergotismo, ovvero la patologia di cui sopra.

A basse dosi era già di per sé causa di allucinazioni, tanto che si ritiene che perfino i fatti di Salem, con l’isteria collettiva che causò oltre cento morti, sia dovuta agli effetti sulla popolazione locale delle tossine prodotte dal patogeno e moltiplicatesi nei magazzini dei poveri abitanti del posto. Ad alte dosi, invece, provocava necrosi agli arti tanto gravi da doverli amputare nell’inutile tentativo di salvare i malcapitati.

Oggi non si sa più cosa sia, l’ergotismo, grazie alla ricerca genetica e alla chimica agraria. Con buona pace della biodiversità fungina e della resilienza vegetale. Già, perché la segale era di fatto “resiliente”. A lei la Claviceps faceva perdere solo parte dei semi, ma non tutti. La segale si era cioè adattata al patogeno e riusciva a riprodursi lo stesso. In tutto questo trionfo di resiliente biodiversità, fondata su complessi equilibri naturali fra organismi differenti, non è però contemplata la nostra sicurezza alimentare, né in chiave quantitativa, né in chiave di salubrità dei prodotti.

 

Patate e carestie

Siamo ancora in pieno Covid-19. Oggi ha raggiunto a livello planetario circa 600mila morti. Ed è una pandemia, cioè diffusa a livello globale. Cosa penserete nello scoprire che verso la metà del XIX secolo, nella sola Irlanda, sarebbe morto circa un milione di persone per una sola carestia? Già, bastò un solo patogeno (la peronospora) su una sola coltura (la patata) per fare crollare le dinamiche agroalimentari del Paese, generando una carestia tanto grave da uccidere appunto un milione di abitanti e a farne scappare all’estero in gran copia. Portare memoria di tali eventi aiuterebbe magari a selezionare al meglio gli insulti per tutti quelli che sputano veleno contro la genetica e la chimica agraria: sono solo dei pericolosi incoscienti. O peggio, talvolta sono pure ideologicamente disonesti.

 

Pellagra e granturco

Belli i tempi antichi eh? Quando non esistevano ancora pesticidi, ogm, fertilizzanti chimici… Ecco, nel basso Veneto di fine XIX secolo, ma anche agli inizi del 1900, ampie porzioni della popolazione pativano della cosiddetta pellagra. Una malattia dovuta alla denutrizione causata a sua volta dalla dipendenza quasi totale per la coltura che meglio produceva cibo in zona, ovvero il mais. Questo sfuggiva in parte alle patologie e alle avversità che affliggevano gli altri cereali, producendo circa il doppio di questi a parità di superficie. E quando la fame batte, la quantità diventa cosa tutt’altro che disprezzabile, al contrario di oggi che pare divenuta sinonimo di schifezza cosmica.

Purtroppo per loro, mangiando solo polenta andavano in carenza di vitamina PP (Pellagre Prevent) e si ammalavano anche gravemente. Oggi, grazie allo sviluppo tecnologico dell’agricoltura, l’alimentazione è divenuta sufficientemente ricca e diversificata per scongiurare tali tragedie dovute alla povertà e alla miserabile vita nei campi, ove i contadini lottavano disperatamente in una battaglia impari contro le avversità agrarie, sguarniti com’erano di strumenti per combatterle.

 

Perché l’agricoltura è cambiata

Dalla Roma imperiale alla metà del XIX secolo la popolazione mondiale è cresciuta da circa 200 milioni a un miliardo di Esseri umani, con un aumento del 500% in 1.500 anni circa. Poi, in soli 170 anni, l’Umanità è cresciuta da 1 a 7,8 miliardi (+780%). La popolazione italiana è passata in un secolo da 38 milioni di abitanti a 60, vedendo diminuire le superfici coltivabili da 25 milioni di ettari a 12,5 milioni. In sostanza, se un secolo fa avevamo oltre seimila metri quadri coltivabili a testa, oggi arriviamo a malapena a duemila. Meno di un terzo. Ecco perché l’Umanità dovrebbe essere particolarmente grata a personaggi come Haber & Bosch, Nazareno Strampelli, Norman Borlaug e tutti quelli che hanno contribuito a moltiplicare le rese agrarie, stando in tal modo dietro alle crescenti richieste alimentari della popolazione in costante aumento. Quella popolazione che ha da tempo abbandonato le campagne, divenendo nel volgere di un paio di generazioni quei cittadini che oggi anziché usare la vanga battono sulle tastiere dei propri computers, scrivendo pure cazzate anti-agricole sui giornali e nei social.

Quando si paleseranno i danni di tali sciagurati ciarlatani, andate magari a chiedere cibo a loro, invece di lamentarvi come al solito contro i contadini. Perché Tertulliano e Columella sono morti da tempo e di sentirvi lamentare a pancia piena contro chi quella pancia ha debitamente riempito ci si sarebbe anche rotti parecchio gli zebedei…

 

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OGM-Free con sorpresa

Spighe di grano. Cosa c’è di più naturale e romantico? E invece no…

Come la decisione della Corte di Giustizia europea in materia di OGM potrebbe rivoluzionare i mercati agroalimentari. Gli esempi del frumento della varietà “Renan”, del “Tritordeum” e del “Triticale”

È il “marketing del senza”, bellezza. Da alcuni anni si assiste a un crescendo wagneriano di messaggi pubblicitari che enfatizzano l’assenza di qualcosa di ritenuto “cattivo”, piuttosto che valorizzare la presenza di qualcosa di ritenuto “buono”. Industrie, grande distribuzione organizzata e associazioni di produttori stanno infatti cavalcando il marketing del senza con sempre maggior impegno.

La tecnica è in fondo semplice: si isola un elemento caduto in disgrazia agli occhi dei cittadini e poi si vanta la sua assenza nei propri prodotti. Che poi vi siano ragioni o meno per quella caduta in disgrazia, è del tutto opinabile. Ma qui si entra nel campo della scienza, ovvero quanto di più lontano vi sia dalla vita quotidiana dei consumatori.

Talvolta, purtroppo, c’è pure chi contribuisce addirittura a farlo cadere in disgrazia, quell’elemento, per poi costruirci sopra le proprie campagne promozionali. E il consumatore, ignaro, subisce e paga.

Fra le più tradizionali prove del “marketing del senza” vi è quella legata agli OGM, od organismi geneticamente modificati. Il “No OGM” campeggia infatti su una miriade di prodotti alimentari, superato ormai solo dal più recente “No Olio di palma”. Sugli OGM è stata infatti compiuta una capillare azione di disinformazione, soprattutto da parte delle associazioni ambientaliste seguite dappresso da quelle biologiche. Le industrie e la gdo, meri operatori di mercato, non hanno fatto altro che seguire l’onda mediatica assecondandone la diffusione e intascandone i profitti.

Sul fatto che gli alimenti contenenti OGM siano del tutto sicuri, vi sono ormai prove pluridecennali. Quindi si preferisce risparmiare tempo per andare subito alla vera domanda da porsi: cosa si intende per OGM?

Fino al luglio 2018 erano considerati OGM solo gli organismi derivanti da trasferimento di geni fra organismi appartenenti a specie differenti. Era cioè OGM la soia resistente a glifosate grazie a un gene di Agrobacterium tumefaciens. Così pure era, ed è ancora, OGM il mais reso resistente agli insetti grazie a un gene di Bacillus thuringiensis. E via discorrendo.

Dal luglio 2018, però, qualcosa è cambiato. La Corte di Giustizia Europea, chiamata ad esprimersi su come considerare le nuove tecniche di genome editing e quindi gli organismi da esse derivanti, si è espressa chiaramente: sono anch’esse OGM, provocando grave disappunto fra i sostenitori delle biotecnologie. Ma vi è molto di più: nella medesima decisione è contenuto un passaggio rivoluzionario, cioè quello che stabilisce che qualsiasi organismo sia stato ottenuto tramite manipolazione artificiale del genoma debba essere considerato OGM.

E la differenza, si dirà, dov’è? Ve n’è una enorme, di differenza. Per esempio, tutte le varietà coltivate che derivino da modifiche al DNA ottenute per irraggiamento radioattivo o tramite uso di sostanze chimiche mutagene andrà in futuro considerato OGM. I consumatori probabilmente sobbalzeranno all’idea di mangiare da decenni alimenti derivanti da siffatti pratiche, ma tanto è. E sono migliaia le varietà oggi coltivate che annoverano fra i propri progenitori qualche varietà ottenuta per mutagenesi artificiale. Quello di separarle dagli OGM è stato quindi un mero artifizio normativo, non scientifico. Fino a ora…

Quando la decisione della Corte di Giustizia europea prenderà forma di normativa, saranno guai seri per molti direttori marketing di industrie, associazioni e supermercati, perché dovranno fare praticamente sparire dalle confezioni la maggior parte delle scritte “No OGM” con le quali si sono distinti agli occhi di consumatori alquanto disinformati e presi più che altro per i fondelli.

Dato che però la teoria è spesso meno comprensibile della pratica, si è deciso di portare qualche esempio concreto di tale argomento intervistando Alberto Guidorzi, uomo di esperienza pluridecennale nel settore agricolo sementiero in generale e della cerealicoltura in particolare.

 

Dottor Guidorzi, in merito alla rivoluzione generata dalla decisione della Corte di Giustizia Europea sugli OGM, ci può fare qualche esempio di coltura fino a oggi considerata No-OGM e che domani potrebbe finire invece fra gli OGM anch’essa?

“Esempio calzante è il frumento tenero denominato ‘Renan’ di costituzione francese (Agri-Obtention). Anche perché è la varietà più coltivata dai cerealicoltori biologici francesi, tedeschi, austriaci, svizzeri e italiani”.

Perché vi è tutta questa attenzione su questa varietà?

“Perché possiede una serie di resistenze che ne fanno una varietà consigliabile soprattutto in agricoltura biologica, dove non sono previsti trattamenti contro i parassiti fungini del frumento. L’agricoltura biologica aborrisce infatti tutto quello che non è naturale, specialmente in fatto di OGM, o che implica interventi biotecnologici sulle derrate destinate agli alimenti animali e umani”.

A prescindere dalla correttezza o meno di tale approccio, il mondo-bio è almeno coerente nel modo di pensare e di fare?

“Se analizziamo la storia della costituzione di ‘Renan’ dobbiamo proprio dire che sono incorsi nella massima incoerenza e che tutti i fautori del biologico che si sono cibati di pane Bio hanno ingerito farine di un frumento che ha ricevuto modifiche non naturali al genoma. In pratica la gran parte delle varietà cosiddette rustiche, com’è appunto il caso della varietà di grano ‘Renan’, sono ricavate da modifiche che potremmo definire ‘transgenetiche primitive’. Anzi, potremmo dire che si tratta addirittura di un vero rimontaggio del genoma e non solo, in quanto esse contengono delle sequenze geniche che provengono da una pianta selvatica che ben difficilmente si sarebbe incrociata con il frumento attuale”.

Quindi è stato operato un trasferimento di geni, ma con delle tecniche considerate non OGM?

“Esatto. Si è usata come parentale una specie vegetale artificiale, portatrice di geni estranei alla specie in oggetto e che mai sarebbe esistita se non tramite manipolazione. Negli ultimi 50 anni, vale a dire ben prima che si parlasse di OGM, le piante coltivate sono state tutte soggette a immissione, mediante vari artifici, di geni selvatici da specie abbastanza lontane da quelle coltivate”.

Può riassumerci la genesi del grano ‘Renan’?

“Appena finita guerra e forti delle esperienze passate, i miglioratori vegetali hanno cercato dei geni di resistenza alle principali malattie del grano nelle graminacee selvatiche ‘parenti’ del frumento. All’epoca si era letteralmente in balìa di queste vere e proprie calamità. Basti pensare che un attacco di ruggine si ritiene sia stata una delle sette piaghe d’Egitto. Una di queste piante selvatiche appartiene al genere Aegilops, in cui è stato trovato il gene di resistenza al cosiddetto ‘mal del piede’ (gene “Pch1”). Questo gene è presente nel DNA di Aegilops insieme ad altri, come ad esempio il gene di resistenza alla ruggine gialla (gene Yr17), alla ruggine nera che sta devastando le coltivazioni africane (gene Sr38), alla ruggine bruna (Lr37) e anche ai nematodi (cre5). Questi geni sono tutti localizzati in un frammento cromosomico di Aegilops ventricosa”.

Quindi travasarli nel grano, ovvero nel genere Triticum, poteva migliorarlo contro queste patologie?

“Certamente. Si pensò infatti di favorire l’introgressione, vale a dire immettere questi geni selvatici nel genoma delle piante coltivate, come ad esempio varietà di frumento già selezionate per fornire alte produttività. Per farlo bisognava quindi ‘introgredirvi’ quel pezzo di cromosoma di Aegilops ventricosa. Perseguire questa strategia, però, incontrò notevoli difficoltà. Infatti i geni di resistenza alle tre ruggini e ai nematodi erano presenti nella specie ‘ventricosa’ di Aegilops, ma la specie è troppo lontana geneticamente per potersi incrociare con il frumento coltivato”.

Un incrocio impossibile quindi. Come operarono allora i genetisti?

“Si aggirò l’ostacolo usando una specie intermedia, vale a dire Triticum cartlhicum, che è una specie selvatica di grano duro che artificialmente si può incrociare, e si sottolinea ‘artificialmente’, con Aegilops ventricosa. Si è pertanto operato in modo artificiale l’incrocio fra Triticum carthlicum ed Aegilops ventricosa e il prodotto d’incrocio è stato a sua volta incrociato, ancora artificialmente, con il frumento tenero”.

Chiusa la porta, sono quindi passati dalla finestra. Ma in tal modo non hanno ottenuto un organismo sterile, come di solito accade incrociando specie fra loro differenti? Basti pensare al mulo, figlio sterile di un asino e di una cavalla…

“Infatti anche il prodotto del primo incrocio si rivelò sterile, ma conoscendo già la tecnica della poliploidizzazione, cioè della divisione cellulare in ambiente ricco dell’alcaloide colchicina, si è operato il raddoppio dei cromosomi e quindi si è conferita fertilità al prodotto d’incrocio, dapprima sterile”.

La colchicina impedisce infatti la formazione dei microtubuli che permettono la ripartizione del materiale genetico al momento della produzione di gameti, ottenendo in tal modo cellule prive di DNA e cellule con un bagaglio di DNA doppio. Ma così facendo, l’organismo che deriva da tale incrocio forzato ha tutto il materiale genetico di entrambi i ‘genitori’ anziché averne solo metà di ciascuno…

“E infatti anche in questo caso non vi è proprio nulla di naturale, seppure il raddoppio dei cromosomi possa avvenire in natura, ma molto raramente. Aggirato questo primo ostacolo, il secondo incrocio con il grano tenero non generava però ricombinazioni genetiche. Quindi si è dovuto optare per un irraggiamento artificiale in modo da indurre mutazioni e ricombinazioni. Il risultato finale è stato che finalmente il tratto di cromosoma di Aegilops ventricosa si è innestato sul cromosoma 2A del frumento tenero”.

In sostanza, si è ricorsi a due processi artificiali: il primo con la colchicina, il secondo con le radiazioni.

“Infatti il prodotto che si otteneva dalla coltivazione di quei semi erano piante che assomigliavano più alle graminacee selvatiche spontanee che al frumento coltivato. Il prodotto era perciò inutilizzabile se non facendo ricorso al reincrocio o Back crossing. Questo consiste nel continuare a reincrociare il prodotto d’incrocio sempre con un grano tenero coltivato e produttivo. Nel caso particolare si utilizzò la varietà Moisson, che significa mietitura in italiano. In tal modo si è riusciti a eliminare tutti i geni selvatici non interessanti, lasciando quelli ‘buoni’ del frumento coltivato”.

E forse questa è stata la parte più lunga del processo…

“È stato un lavoro lungo, perché a ogni generazione si dimezza del 50% il genoma selvatico e quindi per annullarlo occorrono praticamente 8-9 generazioni. Ciò significa quindi 8 o 9 anni di continui reincroci. Il lavoro non è semplice come può sembrare perché non sempre i geni s’installano nel posto giusto e gli ibridi che si ottengono spesso sono instabili, di difficile fissazione, e con un numero instabile di cromosomi”.

Una delle doti del genetista è quindi la pazienza?

“Ce ne vuole molta, in effetti. A complicare le cose vi fu poi la constatazione che il citoplasma delle cellule di questi incroci non era quello del grano tenero, ma era ancora quello di Aegilops ventricosa. Questo prodotto vegetale fu comunque un genitore molto usato in vari incroci successivi ed è conosciuto con l’acronimo VPM”.

Un organismo che quindi di naturale ha davvero più poco.

“VPM è tutto tranne che una varietà naturale. Essa è in realtà una pianta mai esistita prima e frutto della sola manipolazione umana. Eppure a nessuno è mai saltato in mente di testarla su topi per due anni, come fece Gilles Séralini con il mais NK603 per dimostrare che gli OGM sono cancerogeni. Tra l’altro, l’NK603 aveva superato negli anni una molteplicità di controlli meticolosissimi”.

Ma tornando alla VPM, come si è poi evoluta dal punto di vista commerciale?

“Da quel lavoro di selezione-miglioramento, ma solo dopo una quindicina d’anni, si ricavò nel 1976 la varietà ‘Roazon’, ovvero nel medesimo anno d’iscrizione nei registri del nostro ‘Creso’ ottenuto anch’esso per irraggiamento. Tuttavia la varietà ebbe vita breve perché presentava uno scarso valore panificatorio. Conteneva infatti una endoamilasi legata al gene Tch1 della specie selvatica ed era suscettibile alla septoriosi, una malattia non controllata dai geni di resistenza trovati in Aegilops ventricosa. La farina di questo frumento è stata però fatta mangiare ai consumatori, ma nessuno ha avuto nulla da ridire e quindi la sanità delle farine venne data per scontata”.

In tal caso, i detrattori degli OGM non si sono infatti sentiti. Forse anche perché nulla sapevano di tali processi e di tali tecniche?

“Infatti vi è da chiedersi dove fossero all’epoca Greenpeace, Carlin Petrini di Slow Food, l’erede al trono d’Inghilterra e Giulia Maria Crespi, sostenitrice del biodinamico e fiera oppositrice degli OGM”.

Ma un sistema più veloce per svolgere tutto questo lavoro proprio non c’era?

“Tutto il lavoro descritto sopra ora sarebbe ovviabile se già fosse possibile applicare al frumento la tecnica del DNA ricombinante. In 3 o 4 anni si sarebbe ottenuto un frumento con le buone caratteristiche di Moisson e con tutte le resistenze inserite. Non solo: si sarebbe ottenuto senza altri geni immessi involontariamente, com’è stato il caso dell’endoamilasi”.

Inutile piangere ora sul latte versato, purtroppo. Ma la storia mica finisce con il ‘Roazon’, giusto?

“La varietà Roazon fu anch’essa molto utilizzata come genitore negli incroci successivi per tentare di conservare le resistenze e migliorare la panificabilità. Da questo lavoro nel 1989 è stata generata appunto la varietà ‘Renan’, la quale è stata coltivata dal 1995 al 2001 come varietà rustica in agricoltura convenzionale. Non solo, alle resistenze insite nell’antenato artificiale VPM, hanno fatto ricorso quasi tutte le varietà coltivate negli ultimi anni, con buona pace di qualsivoglia cultore del mangiare naturale e tipico. Tutte le colture attualmente coltivate, fra cui ‘Roazon’ e ‘Renan’, possiamo dire che sono state molto più manipolate del tanto vituperato mais MON810 di Monsanto. E sono tante queste colture ‘OGM-ante litteram’, forse la maggioranza, perché le resistenze genetiche conferiscono alla varietà un vantaggio commerciale non indifferente. Se si riflette bene, noi conosciamo ben poco di tutte queste modifiche apportate nel tempo: quanti geni sono implicati e non, il modo di agire di questi geni di resistenza nei riguardi dei parassiti, come il numero di proteine, il grado di tossicità intrinseca, i loro bersagli e gli effetti attesi e inattesi. Nonostante ciò, i consumatori votati al tradizionale, al naturale e al biologico hanno ammirato le loro forme di pane fatte con queste farine definite ‘all’antica’, considerate per tale ragione più salutari e di grande soddisfazione intellettuale”.

Dunque, gli OGM sono sulle nostre tavole da decenni, ma non erano considerate tali fino alla decisione della Corte di Giustizia Europea, la quale le ha catalogate giustamente fra gli OGM anch’esse.

“Esatto. Il pane e la pasta OGM esistono già da molto, molto tempo, insieme a un numero astronomico di altre varietà coltivate. Il tutto, con buona pace dei vari Mario Capanna, della Coldiretti e dei tantissimi soggetti che si vantano di essere contrari agli OGM. In conclusione una cosa è certa: le varietà transgeniche di cui tanto si ha paura a causa di qualche modifica genetica mirata, sono meno modificate delle tante varietà di frumento che hanno ricevuto il trasferimento in blocco di un tratto cromosomico di una specie selvatica e sono nate grazie a sostanze chimiche mutagene e all’uso di radiazioni. Pertanto, sospettare che contro gli OGM l’ideologia sia stata elevata a criterio scientifico è tutto tranne che fuori luogo”.

Peraltro, il “Caso Renan” è bel lungi dall’essere l’unico.

“Renan è in ampia compagnia. Per esempio, uno stabilimento francese di prodotti da forno ha presentato un nuovo pane preparato con un ‘nuovo cereale’, chiamato ‘Tritordeum’, che è stato derivato dall’incrocio tra una varietà di frumento e una di orzo. Cosa mai avvenuta in natura, né in 10 mila anni di storia agricola umana. Ora lo stabilimento presenta questo pane con certificazione biologica, sostenendone la ‘naturalità’ e il ‘sapore autentico’. Peccato che in quella nuova varietà di cereale nulla vi sia di ‘naturale’, come pure appare ardimentoso definire un sapore ‘autentico’ se non è mai esistita in passato la materia prima di cui si sta discutendo”.

Interessante esperimento di marketing, di psicologia e di sociologia, quindi?

“Vediamo in dettaglio: come dicevamo, la varietà di cereale summenzionata è frutto di un incrocio tra un frumento duro e un orzo selvatico, ovvero l’Hordeum chilense. Al genere Hordeum appartengono 70 specie e la specie ‘vulgare’ è quella coltivata. Il diritto esclusivo di questo nuovo cereale è detenuto da una società spagnola, la Agrasys. Ovviamente insistono che si tratta di costituzione frutto di incrocio e che non è intervenuta nessuna modifica genetica di tipo OGM. Qui però vi è da dire che se si sono uniti due genomi che non si sono mai uniti in natura, significa che si è ottenuto un organismo mai esistito prima e quindi se esiste è solo perché è stato modificato. Basti dire che per ottenerlo sono stati necessari 30 anni di studi e di generazioni intermedie per ottenere una semente commerciabile. Lo scopo era di unire le qualità panificatorie del frumento con la resistenza alla siccità dell’orzo, sebbene il frumento duro sia di per sé resistente alla siccità anch’esso”.

Che peraltro pare pure un cereale meraviglioso, un po’ come il triticale. Ma come hanno realizzato, di fatto, tale nuova varietà?

“Inizialmente si è usato grano tenero e orzo coltivato, ma senza che si riuscisse a cavare un ragno dal buco perché ciò che si otteneva era sterile. Successivamente hanno optato per il grano duro (usato come femmina) e l’orzo selvatico (usato come maschio). Le spighe di orzo erano state preliminarmente trattate con un ormone naturale, l’acido gibberellico, e comunque si otteneva una fertilità molto ridotta. Quindi gli embrioni dovevano essere ripresi e coltivati in vitro. Comunque poi le piante che si sono ottenute da questi embrioni coltivati erano ancora sterili e quindi si è dovuto procedere alla poliploidizzazione, ovvero il raddoppiamento cromosomico tramite colchicina che abbiamo menzionato poc’anzi. Di generazione in generazione si sono quindi selezionati i genotipi che meglio si confacevano a una coltivazione redditizia”.

Ma a livello genetico qual è il suo assetto finale?

“La nuova pianta è esaploide, come il frumento tenero, e ha allo stato aploide due genomi del grano duro (7 + 7 cromosomi) e un genoma dell’orzo (7 cromosomi). Insomma per chi ne sa di creazione varietale non è stata fatta alcuna cosa strana. Con il succitato triticale, ovvero grano incrociato con la segale, si è fatta la medesima cosa, sempre grazie alla colchicina. Ma rimane falso affermare che si tratta di una specie vegetale nuova ottenuta ‘naturalmente’, quando invece è frutto di moderne biotecnologie. Né tantomeno risponde ai dettami della naturalità del coltivare biologico. Faccio peraltro notare che le varietà ottenute da questa nuova specie e attualmente seminate sono state regolarmente iscritte al catalogo delle varietà certificabili senza nessun controllo al di fuori di quelli che normalmente si eseguono per altre specie coltivate”.

 

Renan, Triticale, Tritordeum: fino a oggi reputati “naturali” anziché OGM, sebbene derivino da profonde modifiche genetiche con l’ausilio di sostanze chimiche come la colchicina e, nel caso di Renan, anche di irraggiamento radioattivo. Ora si attende solo che la decisione della Corte di Giustizia europea abbia i propri effetti normativi in ogni Stato del Vecchio Continente. A partire dalla rivoluzione sulle confezioni di cibo. Per poter continuare ad affermare di essere “OGM-Free”, i cultori del “marketing del senza” dovranno abbandonare le varietà succitate e scavare molto indietro nel passato, restringendo drasticamente il range di colture e di varietà utilizzabili. Ovvero quelle pre-colchicina e pre-radiazioni. Oppure ammettere finalmente che gli OGM non sono pericolosi per la salute, dopo averli dati da mangiare alla gente per decenni. Una posizione in effetti imbarazzante.

Se infatti appare ormai impossibile contrastare questa deriva comunicativa demenziale del “senza”, che almeno le si renda la vita più difficile.

 

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