Come la decisione della Corte di Giustizia europea in materia di OGM potrebbe rivoluzionare i mercati agroalimentari. Gli esempi del frumento della varietà “Renan”, del “Tritordeum” e del “Triticale”
È il “marketing del senza”, bellezza. Da alcuni anni si assiste a un crescendo wagneriano di messaggi pubblicitari che enfatizzano l’assenza di qualcosa di ritenuto “cattivo”, piuttosto che valorizzare la presenza di qualcosa di ritenuto “buono”. Industrie, grande distribuzione organizzata e associazioni di produttori stanno infatti cavalcando il marketing del senza con sempre maggior impegno.
La tecnica è in fondo semplice: si isola un elemento caduto in disgrazia agli occhi dei cittadini e poi si vanta la sua assenza nei propri prodotti. Che poi vi siano ragioni o meno per quella caduta in disgrazia, è del tutto opinabile. Ma qui si entra nel campo della scienza, ovvero quanto di più lontano vi sia dalla vita quotidiana dei consumatori.
Talvolta, purtroppo, c’è pure chi contribuisce addirittura a farlo cadere in disgrazia, quell’elemento, per poi costruirci sopra le proprie campagne promozionali. E il consumatore, ignaro, subisce e paga.
Fra le più tradizionali prove del “marketing del senza” vi è quella legata agli OGM, od organismi geneticamente modificati. Il “No OGM” campeggia infatti su una miriade di prodotti alimentari, superato ormai solo dal più recente “No Olio di palma”. Sugli OGM è stata infatti compiuta una capillare azione di disinformazione, soprattutto da parte delle associazioni ambientaliste seguite dappresso da quelle biologiche. Le industrie e la gdo, meri operatori di mercato, non hanno fatto altro che seguire l’onda mediatica assecondandone la diffusione e intascandone i profitti.
Sul fatto che gli alimenti contenenti OGM siano del tutto sicuri, vi sono ormai prove pluridecennali. Quindi si preferisce risparmiare tempo per andare subito alla vera domanda da porsi: cosa si intende per OGM?
Fino al luglio 2018 erano considerati OGM solo gli organismi derivanti da trasferimento di geni fra organismi appartenenti a specie differenti. Era cioè OGM la soia resistente a glifosate grazie a un gene di Agrobacterium tumefaciens. Così pure era, ed è ancora, OGM il mais reso resistente agli insetti grazie a un gene di Bacillus thuringiensis. E via discorrendo.
Dal luglio 2018, però, qualcosa è cambiato. La Corte di Giustizia Europea, chiamata ad esprimersi su come considerare le nuove tecniche di genome editing e quindi gli organismi da esse derivanti, si è espressa chiaramente: sono anch’esse OGM, provocando grave disappunto fra i sostenitori delle biotecnologie. Ma vi è molto di più: nella medesima decisione è contenuto un passaggio rivoluzionario, cioè quello che stabilisce che qualsiasi organismo sia stato ottenuto tramite manipolazione artificiale del genoma debba essere considerato OGM.
E la differenza, si dirà, dov’è? Ve n’è una enorme, di differenza. Per esempio, tutte le varietà coltivate che derivino da modifiche al DNA ottenute per irraggiamento radioattivo o tramite uso di sostanze chimiche mutagene andrà in futuro considerato OGM. I consumatori probabilmente sobbalzeranno all’idea di mangiare da decenni alimenti derivanti da siffatti pratiche, ma tanto è. E sono migliaia le varietà oggi coltivate che annoverano fra i propri progenitori qualche varietà ottenuta per mutagenesi artificiale. Quello di separarle dagli OGM è stato quindi un mero artifizio normativo, non scientifico. Fino a ora…
Quando la decisione della Corte di Giustizia europea prenderà forma di normativa, saranno guai seri per molti direttori marketing di industrie, associazioni e supermercati, perché dovranno fare praticamente sparire dalle confezioni la maggior parte delle scritte “No OGM” con le quali si sono distinti agli occhi di consumatori alquanto disinformati e presi più che altro per i fondelli.
Dato che però la teoria è spesso meno comprensibile della pratica, si è deciso di portare qualche esempio concreto di tale argomento intervistando Alberto Guidorzi, uomo di esperienza pluridecennale nel settore agricolo sementiero in generale e della cerealicoltura in particolare.
Dottor Guidorzi, in merito alla rivoluzione generata dalla decisione della Corte di Giustizia Europea sugli OGM, ci può fare qualche esempio di coltura fino a oggi considerata No-OGM e che domani potrebbe finire invece fra gli OGM anch’essa?
“Esempio calzante è il frumento tenero denominato ‘Renan’ di costituzione francese (Agri-Obtention). Anche perché è la varietà più coltivata dai cerealicoltori biologici francesi, tedeschi, austriaci, svizzeri e italiani”.
Perché vi è tutta questa attenzione su questa varietà?
“Perché possiede una serie di resistenze che ne fanno una varietà consigliabile soprattutto in agricoltura biologica, dove non sono previsti trattamenti contro i parassiti fungini del frumento. L’agricoltura biologica aborrisce infatti tutto quello che non è naturale, specialmente in fatto di OGM, o che implica interventi biotecnologici sulle derrate destinate agli alimenti animali e umani”.
A prescindere dalla correttezza o meno di tale approccio, il mondo-bio è almeno coerente nel modo di pensare e di fare?
“Se analizziamo la storia della costituzione di ‘Renan’ dobbiamo proprio dire che sono incorsi nella massima incoerenza e che tutti i fautori del biologico che si sono cibati di pane Bio hanno ingerito farine di un frumento che ha ricevuto modifiche non naturali al genoma. In pratica la gran parte delle varietà cosiddette rustiche, com’è appunto il caso della varietà di grano ‘Renan’, sono ricavate da modifiche che potremmo definire ‘transgenetiche primitive’. Anzi, potremmo dire che si tratta addirittura di un vero rimontaggio del genoma e non solo, in quanto esse contengono delle sequenze geniche che provengono da una pianta selvatica che ben difficilmente si sarebbe incrociata con il frumento attuale”.
Quindi è stato operato un trasferimento di geni, ma con delle tecniche considerate non OGM?
“Esatto. Si è usata come parentale una specie vegetale artificiale, portatrice di geni estranei alla specie in oggetto e che mai sarebbe esistita se non tramite manipolazione. Negli ultimi 50 anni, vale a dire ben prima che si parlasse di OGM, le piante coltivate sono state tutte soggette a immissione, mediante vari artifici, di geni selvatici da specie abbastanza lontane da quelle coltivate”.
Può riassumerci la genesi del grano ‘Renan’?
“Appena finita guerra e forti delle esperienze passate, i miglioratori vegetali hanno cercato dei geni di resistenza alle principali malattie del grano nelle graminacee selvatiche ‘parenti’ del frumento. All’epoca si era letteralmente in balìa di queste vere e proprie calamità. Basti pensare che un attacco di ruggine si ritiene sia stata una delle sette piaghe d’Egitto. Una di queste piante selvatiche appartiene al genere Aegilops, in cui è stato trovato il gene di resistenza al cosiddetto ‘mal del piede’ (gene “Pch1”). Questo gene è presente nel DNA di Aegilops insieme ad altri, come ad esempio il gene di resistenza alla ruggine gialla (gene Yr17), alla ruggine nera che sta devastando le coltivazioni africane (gene Sr38), alla ruggine bruna (Lr37) e anche ai nematodi (cre5). Questi geni sono tutti localizzati in un frammento cromosomico di Aegilops ventricosa”.
Quindi travasarli nel grano, ovvero nel genere Triticum, poteva migliorarlo contro queste patologie?
“Certamente. Si pensò infatti di favorire l’introgressione, vale a dire immettere questi geni selvatici nel genoma delle piante coltivate, come ad esempio varietà di frumento già selezionate per fornire alte produttività. Per farlo bisognava quindi ‘introgredirvi’ quel pezzo di cromosoma di Aegilops ventricosa. Perseguire questa strategia, però, incontrò notevoli difficoltà. Infatti i geni di resistenza alle tre ruggini e ai nematodi erano presenti nella specie ‘ventricosa’ di Aegilops, ma la specie è troppo lontana geneticamente per potersi incrociare con il frumento coltivato”.
Un incrocio impossibile quindi. Come operarono allora i genetisti?
“Si aggirò l’ostacolo usando una specie intermedia, vale a dire Triticum cartlhicum, che è una specie selvatica di grano duro che artificialmente si può incrociare, e si sottolinea ‘artificialmente’, con Aegilops ventricosa. Si è pertanto operato in modo artificiale l’incrocio fra Triticum carthlicum ed Aegilops ventricosa e il prodotto d’incrocio è stato a sua volta incrociato, ancora artificialmente, con il frumento tenero”.
Chiusa la porta, sono quindi passati dalla finestra. Ma in tal modo non hanno ottenuto un organismo sterile, come di solito accade incrociando specie fra loro differenti? Basti pensare al mulo, figlio sterile di un asino e di una cavalla…
“Infatti anche il prodotto del primo incrocio si rivelò sterile, ma conoscendo già la tecnica della poliploidizzazione, cioè della divisione cellulare in ambiente ricco dell’alcaloide colchicina, si è operato il raddoppio dei cromosomi e quindi si è conferita fertilità al prodotto d’incrocio, dapprima sterile”.
La colchicina impedisce infatti la formazione dei microtubuli che permettono la ripartizione del materiale genetico al momento della produzione di gameti, ottenendo in tal modo cellule prive di DNA e cellule con un bagaglio di DNA doppio. Ma così facendo, l’organismo che deriva da tale incrocio forzato ha tutto il materiale genetico di entrambi i ‘genitori’ anziché averne solo metà di ciascuno…
“E infatti anche in questo caso non vi è proprio nulla di naturale, seppure il raddoppio dei cromosomi possa avvenire in natura, ma molto raramente. Aggirato questo primo ostacolo, il secondo incrocio con il grano tenero non generava però ricombinazioni genetiche. Quindi si è dovuto optare per un irraggiamento artificiale in modo da indurre mutazioni e ricombinazioni. Il risultato finale è stato che finalmente il tratto di cromosoma di Aegilops ventricosa si è innestato sul cromosoma 2A del frumento tenero”.
In sostanza, si è ricorsi a due processi artificiali: il primo con la colchicina, il secondo con le radiazioni.
“Infatti il prodotto che si otteneva dalla coltivazione di quei semi erano piante che assomigliavano più alle graminacee selvatiche spontanee che al frumento coltivato. Il prodotto era perciò inutilizzabile se non facendo ricorso al reincrocio o Back crossing. Questo consiste nel continuare a reincrociare il prodotto d’incrocio sempre con un grano tenero coltivato e produttivo. Nel caso particolare si utilizzò la varietà Moisson, che significa mietitura in italiano. In tal modo si è riusciti a eliminare tutti i geni selvatici non interessanti, lasciando quelli ‘buoni’ del frumento coltivato”.
E forse questa è stata la parte più lunga del processo…
“È stato un lavoro lungo, perché a ogni generazione si dimezza del 50% il genoma selvatico e quindi per annullarlo occorrono praticamente 8-9 generazioni. Ciò significa quindi 8 o 9 anni di continui reincroci. Il lavoro non è semplice come può sembrare perché non sempre i geni s’installano nel posto giusto e gli ibridi che si ottengono spesso sono instabili, di difficile fissazione, e con un numero instabile di cromosomi”.
Una delle doti del genetista è quindi la pazienza?
“Ce ne vuole molta, in effetti. A complicare le cose vi fu poi la constatazione che il citoplasma delle cellule di questi incroci non era quello del grano tenero, ma era ancora quello di Aegilops ventricosa. Questo prodotto vegetale fu comunque un genitore molto usato in vari incroci successivi ed è conosciuto con l’acronimo VPM”.
Un organismo che quindi di naturale ha davvero più poco.
“VPM è tutto tranne che una varietà naturale. Essa è in realtà una pianta mai esistita prima e frutto della sola manipolazione umana. Eppure a nessuno è mai saltato in mente di testarla su topi per due anni, come fece Gilles Séralini con il mais NK603 per dimostrare che gli OGM sono cancerogeni. Tra l’altro, l’NK603 aveva superato negli anni una molteplicità di controlli meticolosissimi”.
Ma tornando alla VPM, come si è poi evoluta dal punto di vista commerciale?
“Da quel lavoro di selezione-miglioramento, ma solo dopo una quindicina d’anni, si ricavò nel 1976 la varietà ‘Roazon’, ovvero nel medesimo anno d’iscrizione nei registri del nostro ‘Creso’ ottenuto anch’esso per irraggiamento. Tuttavia la varietà ebbe vita breve perché presentava uno scarso valore panificatorio. Conteneva infatti una endoamilasi legata al gene Tch1 della specie selvatica ed era suscettibile alla septoriosi, una malattia non controllata dai geni di resistenza trovati in Aegilops ventricosa. La farina di questo frumento è stata però fatta mangiare ai consumatori, ma nessuno ha avuto nulla da ridire e quindi la sanità delle farine venne data per scontata”.
In tal caso, i detrattori degli OGM non si sono infatti sentiti. Forse anche perché nulla sapevano di tali processi e di tali tecniche?
“Infatti vi è da chiedersi dove fossero all’epoca Greenpeace, Carlin Petrini di Slow Food, l’erede al trono d’Inghilterra e Giulia Maria Crespi, sostenitrice del biodinamico e fiera oppositrice degli OGM”.
Ma un sistema più veloce per svolgere tutto questo lavoro proprio non c’era?
“Tutto il lavoro descritto sopra ora sarebbe ovviabile se già fosse possibile applicare al frumento la tecnica del DNA ricombinante. In 3 o 4 anni si sarebbe ottenuto un frumento con le buone caratteristiche di Moisson e con tutte le resistenze inserite. Non solo: si sarebbe ottenuto senza altri geni immessi involontariamente, com’è stato il caso dell’endoamilasi”.
Inutile piangere ora sul latte versato, purtroppo. Ma la storia mica finisce con il ‘Roazon’, giusto?
“La varietà Roazon fu anch’essa molto utilizzata come genitore negli incroci successivi per tentare di conservare le resistenze e migliorare la panificabilità. Da questo lavoro nel 1989 è stata generata appunto la varietà ‘Renan’, la quale è stata coltivata dal 1995 al 2001 come varietà rustica in agricoltura convenzionale. Non solo, alle resistenze insite nell’antenato artificiale VPM, hanno fatto ricorso quasi tutte le varietà coltivate negli ultimi anni, con buona pace di qualsivoglia cultore del mangiare naturale e tipico. Tutte le colture attualmente coltivate, fra cui ‘Roazon’ e ‘Renan’, possiamo dire che sono state molto più manipolate del tanto vituperato mais MON810 di Monsanto. E sono tante queste colture ‘OGM-ante litteram’, forse la maggioranza, perché le resistenze genetiche conferiscono alla varietà un vantaggio commerciale non indifferente. Se si riflette bene, noi conosciamo ben poco di tutte queste modifiche apportate nel tempo: quanti geni sono implicati e non, il modo di agire di questi geni di resistenza nei riguardi dei parassiti, come il numero di proteine, il grado di tossicità intrinseca, i loro bersagli e gli effetti attesi e inattesi. Nonostante ciò, i consumatori votati al tradizionale, al naturale e al biologico hanno ammirato le loro forme di pane fatte con queste farine definite ‘all’antica’, considerate per tale ragione più salutari e di grande soddisfazione intellettuale”.
Dunque, gli OGM sono sulle nostre tavole da decenni, ma non erano considerate tali fino alla decisione della Corte di Giustizia Europea, la quale le ha catalogate giustamente fra gli OGM anch’esse.
“Esatto. Il pane e la pasta OGM esistono già da molto, molto tempo, insieme a un numero astronomico di altre varietà coltivate. Il tutto, con buona pace dei vari Mario Capanna, della Coldiretti e dei tantissimi soggetti che si vantano di essere contrari agli OGM. In conclusione una cosa è certa: le varietà transgeniche di cui tanto si ha paura a causa di qualche modifica genetica mirata, sono meno modificate delle tante varietà di frumento che hanno ricevuto il trasferimento in blocco di un tratto cromosomico di una specie selvatica e sono nate grazie a sostanze chimiche mutagene e all’uso di radiazioni. Pertanto, sospettare che contro gli OGM l’ideologia sia stata elevata a criterio scientifico è tutto tranne che fuori luogo”.
Peraltro, il “Caso Renan” è bel lungi dall’essere l’unico.
“Renan è in ampia compagnia. Per esempio, uno stabilimento francese di prodotti da forno ha presentato un nuovo pane preparato con un ‘nuovo cereale’, chiamato ‘Tritordeum’, che è stato derivato dall’incrocio tra una varietà di frumento e una di orzo. Cosa mai avvenuta in natura, né in 10 mila anni di storia agricola umana. Ora lo stabilimento presenta questo pane con certificazione biologica, sostenendone la ‘naturalità’ e il ‘sapore autentico’. Peccato che in quella nuova varietà di cereale nulla vi sia di ‘naturale’, come pure appare ardimentoso definire un sapore ‘autentico’ se non è mai esistita in passato la materia prima di cui si sta discutendo”.
Interessante esperimento di marketing, di psicologia e di sociologia, quindi?
“Vediamo in dettaglio: come dicevamo, la varietà di cereale summenzionata è frutto di un incrocio tra un frumento duro e un orzo selvatico, ovvero l’Hordeum chilense. Al genere Hordeum appartengono 70 specie e la specie ‘vulgare’ è quella coltivata. Il diritto esclusivo di questo nuovo cereale è detenuto da una società spagnola, la Agrasys. Ovviamente insistono che si tratta di costituzione frutto di incrocio e che non è intervenuta nessuna modifica genetica di tipo OGM. Qui però vi è da dire che se si sono uniti due genomi che non si sono mai uniti in natura, significa che si è ottenuto un organismo mai esistito prima e quindi se esiste è solo perché è stato modificato. Basti dire che per ottenerlo sono stati necessari 30 anni di studi e di generazioni intermedie per ottenere una semente commerciabile. Lo scopo era di unire le qualità panificatorie del frumento con la resistenza alla siccità dell’orzo, sebbene il frumento duro sia di per sé resistente alla siccità anch’esso”.
Che peraltro pare pure un cereale meraviglioso, un po’ come il triticale. Ma come hanno realizzato, di fatto, tale nuova varietà?
“Inizialmente si è usato grano tenero e orzo coltivato, ma senza che si riuscisse a cavare un ragno dal buco perché ciò che si otteneva era sterile. Successivamente hanno optato per il grano duro (usato come femmina) e l’orzo selvatico (usato come maschio). Le spighe di orzo erano state preliminarmente trattate con un ormone naturale, l’acido gibberellico, e comunque si otteneva una fertilità molto ridotta. Quindi gli embrioni dovevano essere ripresi e coltivati in vitro. Comunque poi le piante che si sono ottenute da questi embrioni coltivati erano ancora sterili e quindi si è dovuto procedere alla poliploidizzazione, ovvero il raddoppiamento cromosomico tramite colchicina che abbiamo menzionato poc’anzi. Di generazione in generazione si sono quindi selezionati i genotipi che meglio si confacevano a una coltivazione redditizia”.
Ma a livello genetico qual è il suo assetto finale?
“La nuova pianta è esaploide, come il frumento tenero, e ha allo stato aploide due genomi del grano duro (7 + 7 cromosomi) e un genoma dell’orzo (7 cromosomi). Insomma per chi ne sa di creazione varietale non è stata fatta alcuna cosa strana. Con il succitato triticale, ovvero grano incrociato con la segale, si è fatta la medesima cosa, sempre grazie alla colchicina. Ma rimane falso affermare che si tratta di una specie vegetale nuova ottenuta ‘naturalmente’, quando invece è frutto di moderne biotecnologie. Né tantomeno risponde ai dettami della naturalità del coltivare biologico. Faccio peraltro notare che le varietà ottenute da questa nuova specie e attualmente seminate sono state regolarmente iscritte al catalogo delle varietà certificabili senza nessun controllo al di fuori di quelli che normalmente si eseguono per altre specie coltivate”.
Renan, Triticale, Tritordeum: fino a oggi reputati “naturali” anziché OGM, sebbene derivino da profonde modifiche genetiche con l’ausilio di sostanze chimiche come la colchicina e, nel caso di Renan, anche di irraggiamento radioattivo. Ora si attende solo che la decisione della Corte di Giustizia europea abbia i propri effetti normativi in ogni Stato del Vecchio Continente. A partire dalla rivoluzione sulle confezioni di cibo. Per poter continuare ad affermare di essere “OGM-Free”, i cultori del “marketing del senza” dovranno abbandonare le varietà succitate e scavare molto indietro nel passato, restringendo drasticamente il range di colture e di varietà utilizzabili. Ovvero quelle pre-colchicina e pre-radiazioni. Oppure ammettere finalmente che gli OGM non sono pericolosi per la salute, dopo averli dati da mangiare alla gente per decenni. Una posizione in effetti imbarazzante.
Se infatti appare ormai impossibile contrastare questa deriva comunicativa demenziale del “senza”, che almeno le si renda la vita più difficile.
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