OGM-Free con sorpresa

Spighe di grano. Cosa c’è di più naturale e romantico? E invece no…

Come la decisione della Corte di Giustizia europea in materia di OGM potrebbe rivoluzionare i mercati agroalimentari. Gli esempi del frumento della varietà “Renan”, del “Tritordeum” e del “Triticale”

È il “marketing del senza”, bellezza. Da alcuni anni si assiste a un crescendo wagneriano di messaggi pubblicitari che enfatizzano l’assenza di qualcosa di ritenuto “cattivo”, piuttosto che valorizzare la presenza di qualcosa di ritenuto “buono”. Industrie, grande distribuzione organizzata e associazioni di produttori stanno infatti cavalcando il marketing del senza con sempre maggior impegno.

La tecnica è in fondo semplice: si isola un elemento caduto in disgrazia agli occhi dei cittadini e poi si vanta la sua assenza nei propri prodotti. Che poi vi siano ragioni o meno per quella caduta in disgrazia, è del tutto opinabile. Ma qui si entra nel campo della scienza, ovvero quanto di più lontano vi sia dalla vita quotidiana dei consumatori.

Talvolta, purtroppo, c’è pure chi contribuisce addirittura a farlo cadere in disgrazia, quell’elemento, per poi costruirci sopra le proprie campagne promozionali. E il consumatore, ignaro, subisce e paga.

Fra le più tradizionali prove del “marketing del senza” vi è quella legata agli OGM, od organismi geneticamente modificati. Il “No OGM” campeggia infatti su una miriade di prodotti alimentari, superato ormai solo dal più recente “No Olio di palma”. Sugli OGM è stata infatti compiuta una capillare azione di disinformazione, soprattutto da parte delle associazioni ambientaliste seguite dappresso da quelle biologiche. Le industrie e la gdo, meri operatori di mercato, non hanno fatto altro che seguire l’onda mediatica assecondandone la diffusione e intascandone i profitti.

Sul fatto che gli alimenti contenenti OGM siano del tutto sicuri, vi sono ormai prove pluridecennali. Quindi si preferisce risparmiare tempo per andare subito alla vera domanda da porsi: cosa si intende per OGM?

Fino al luglio 2018 erano considerati OGM solo gli organismi derivanti da trasferimento di geni fra organismi appartenenti a specie differenti. Era cioè OGM la soia resistente a glifosate grazie a un gene di Agrobacterium tumefaciens. Così pure era, ed è ancora, OGM il mais reso resistente agli insetti grazie a un gene di Bacillus thuringiensis. E via discorrendo.

Dal luglio 2018, però, qualcosa è cambiato. La Corte di Giustizia Europea, chiamata ad esprimersi su come considerare le nuove tecniche di genome editing e quindi gli organismi da esse derivanti, si è espressa chiaramente: sono anch’esse OGM, provocando grave disappunto fra i sostenitori delle biotecnologie. Ma vi è molto di più: nella medesima decisione è contenuto un passaggio rivoluzionario, cioè quello che stabilisce che qualsiasi organismo sia stato ottenuto tramite manipolazione artificiale del genoma debba essere considerato OGM.

E la differenza, si dirà, dov’è? Ve n’è una enorme, di differenza. Per esempio, tutte le varietà coltivate che derivino da modifiche al DNA ottenute per irraggiamento radioattivo o tramite uso di sostanze chimiche mutagene andrà in futuro considerato OGM. I consumatori probabilmente sobbalzeranno all’idea di mangiare da decenni alimenti derivanti da siffatti pratiche, ma tanto è. E sono migliaia le varietà oggi coltivate che annoverano fra i propri progenitori qualche varietà ottenuta per mutagenesi artificiale. Quello di separarle dagli OGM è stato quindi un mero artifizio normativo, non scientifico. Fino a ora…

Quando la decisione della Corte di Giustizia europea prenderà forma di normativa, saranno guai seri per molti direttori marketing di industrie, associazioni e supermercati, perché dovranno fare praticamente sparire dalle confezioni la maggior parte delle scritte “No OGM” con le quali si sono distinti agli occhi di consumatori alquanto disinformati e presi più che altro per i fondelli.

Dato che però la teoria è spesso meno comprensibile della pratica, si è deciso di portare qualche esempio concreto di tale argomento intervistando Alberto Guidorzi, uomo di esperienza pluridecennale nel settore agricolo sementiero in generale e della cerealicoltura in particolare.

 

Dottor Guidorzi, in merito alla rivoluzione generata dalla decisione della Corte di Giustizia Europea sugli OGM, ci può fare qualche esempio di coltura fino a oggi considerata No-OGM e che domani potrebbe finire invece fra gli OGM anch’essa?

“Esempio calzante è il frumento tenero denominato ‘Renan’ di costituzione francese (Agri-Obtention). Anche perché è la varietà più coltivata dai cerealicoltori biologici francesi, tedeschi, austriaci, svizzeri e italiani”.

Perché vi è tutta questa attenzione su questa varietà?

“Perché possiede una serie di resistenze che ne fanno una varietà consigliabile soprattutto in agricoltura biologica, dove non sono previsti trattamenti contro i parassiti fungini del frumento. L’agricoltura biologica aborrisce infatti tutto quello che non è naturale, specialmente in fatto di OGM, o che implica interventi biotecnologici sulle derrate destinate agli alimenti animali e umani”.

A prescindere dalla correttezza o meno di tale approccio, il mondo-bio è almeno coerente nel modo di pensare e di fare?

“Se analizziamo la storia della costituzione di ‘Renan’ dobbiamo proprio dire che sono incorsi nella massima incoerenza e che tutti i fautori del biologico che si sono cibati di pane Bio hanno ingerito farine di un frumento che ha ricevuto modifiche non naturali al genoma. In pratica la gran parte delle varietà cosiddette rustiche, com’è appunto il caso della varietà di grano ‘Renan’, sono ricavate da modifiche che potremmo definire ‘transgenetiche primitive’. Anzi, potremmo dire che si tratta addirittura di un vero rimontaggio del genoma e non solo, in quanto esse contengono delle sequenze geniche che provengono da una pianta selvatica che ben difficilmente si sarebbe incrociata con il frumento attuale”.

Quindi è stato operato un trasferimento di geni, ma con delle tecniche considerate non OGM?

“Esatto. Si è usata come parentale una specie vegetale artificiale, portatrice di geni estranei alla specie in oggetto e che mai sarebbe esistita se non tramite manipolazione. Negli ultimi 50 anni, vale a dire ben prima che si parlasse di OGM, le piante coltivate sono state tutte soggette a immissione, mediante vari artifici, di geni selvatici da specie abbastanza lontane da quelle coltivate”.

Può riassumerci la genesi del grano ‘Renan’?

“Appena finita guerra e forti delle esperienze passate, i miglioratori vegetali hanno cercato dei geni di resistenza alle principali malattie del grano nelle graminacee selvatiche ‘parenti’ del frumento. All’epoca si era letteralmente in balìa di queste vere e proprie calamità. Basti pensare che un attacco di ruggine si ritiene sia stata una delle sette piaghe d’Egitto. Una di queste piante selvatiche appartiene al genere Aegilops, in cui è stato trovato il gene di resistenza al cosiddetto ‘mal del piede’ (gene “Pch1”). Questo gene è presente nel DNA di Aegilops insieme ad altri, come ad esempio il gene di resistenza alla ruggine gialla (gene Yr17), alla ruggine nera che sta devastando le coltivazioni africane (gene Sr38), alla ruggine bruna (Lr37) e anche ai nematodi (cre5). Questi geni sono tutti localizzati in un frammento cromosomico di Aegilops ventricosa”.

Quindi travasarli nel grano, ovvero nel genere Triticum, poteva migliorarlo contro queste patologie?

“Certamente. Si pensò infatti di favorire l’introgressione, vale a dire immettere questi geni selvatici nel genoma delle piante coltivate, come ad esempio varietà di frumento già selezionate per fornire alte produttività. Per farlo bisognava quindi ‘introgredirvi’ quel pezzo di cromosoma di Aegilops ventricosa. Perseguire questa strategia, però, incontrò notevoli difficoltà. Infatti i geni di resistenza alle tre ruggini e ai nematodi erano presenti nella specie ‘ventricosa’ di Aegilops, ma la specie è troppo lontana geneticamente per potersi incrociare con il frumento coltivato”.

Un incrocio impossibile quindi. Come operarono allora i genetisti?

“Si aggirò l’ostacolo usando una specie intermedia, vale a dire Triticum cartlhicum, che è una specie selvatica di grano duro che artificialmente si può incrociare, e si sottolinea ‘artificialmente’, con Aegilops ventricosa. Si è pertanto operato in modo artificiale l’incrocio fra Triticum carthlicum ed Aegilops ventricosa e il prodotto d’incrocio è stato a sua volta incrociato, ancora artificialmente, con il frumento tenero”.

Chiusa la porta, sono quindi passati dalla finestra. Ma in tal modo non hanno ottenuto un organismo sterile, come di solito accade incrociando specie fra loro differenti? Basti pensare al mulo, figlio sterile di un asino e di una cavalla…

“Infatti anche il prodotto del primo incrocio si rivelò sterile, ma conoscendo già la tecnica della poliploidizzazione, cioè della divisione cellulare in ambiente ricco dell’alcaloide colchicina, si è operato il raddoppio dei cromosomi e quindi si è conferita fertilità al prodotto d’incrocio, dapprima sterile”.

La colchicina impedisce infatti la formazione dei microtubuli che permettono la ripartizione del materiale genetico al momento della produzione di gameti, ottenendo in tal modo cellule prive di DNA e cellule con un bagaglio di DNA doppio. Ma così facendo, l’organismo che deriva da tale incrocio forzato ha tutto il materiale genetico di entrambi i ‘genitori’ anziché averne solo metà di ciascuno…

“E infatti anche in questo caso non vi è proprio nulla di naturale, seppure il raddoppio dei cromosomi possa avvenire in natura, ma molto raramente. Aggirato questo primo ostacolo, il secondo incrocio con il grano tenero non generava però ricombinazioni genetiche. Quindi si è dovuto optare per un irraggiamento artificiale in modo da indurre mutazioni e ricombinazioni. Il risultato finale è stato che finalmente il tratto di cromosoma di Aegilops ventricosa si è innestato sul cromosoma 2A del frumento tenero”.

In sostanza, si è ricorsi a due processi artificiali: il primo con la colchicina, il secondo con le radiazioni.

“Infatti il prodotto che si otteneva dalla coltivazione di quei semi erano piante che assomigliavano più alle graminacee selvatiche spontanee che al frumento coltivato. Il prodotto era perciò inutilizzabile se non facendo ricorso al reincrocio o Back crossing. Questo consiste nel continuare a reincrociare il prodotto d’incrocio sempre con un grano tenero coltivato e produttivo. Nel caso particolare si utilizzò la varietà Moisson, che significa mietitura in italiano. In tal modo si è riusciti a eliminare tutti i geni selvatici non interessanti, lasciando quelli ‘buoni’ del frumento coltivato”.

E forse questa è stata la parte più lunga del processo…

“È stato un lavoro lungo, perché a ogni generazione si dimezza del 50% il genoma selvatico e quindi per annullarlo occorrono praticamente 8-9 generazioni. Ciò significa quindi 8 o 9 anni di continui reincroci. Il lavoro non è semplice come può sembrare perché non sempre i geni s’installano nel posto giusto e gli ibridi che si ottengono spesso sono instabili, di difficile fissazione, e con un numero instabile di cromosomi”.

Una delle doti del genetista è quindi la pazienza?

“Ce ne vuole molta, in effetti. A complicare le cose vi fu poi la constatazione che il citoplasma delle cellule di questi incroci non era quello del grano tenero, ma era ancora quello di Aegilops ventricosa. Questo prodotto vegetale fu comunque un genitore molto usato in vari incroci successivi ed è conosciuto con l’acronimo VPM”.

Un organismo che quindi di naturale ha davvero più poco.

“VPM è tutto tranne che una varietà naturale. Essa è in realtà una pianta mai esistita prima e frutto della sola manipolazione umana. Eppure a nessuno è mai saltato in mente di testarla su topi per due anni, come fece Gilles Séralini con il mais NK603 per dimostrare che gli OGM sono cancerogeni. Tra l’altro, l’NK603 aveva superato negli anni una molteplicità di controlli meticolosissimi”.

Ma tornando alla VPM, come si è poi evoluta dal punto di vista commerciale?

“Da quel lavoro di selezione-miglioramento, ma solo dopo una quindicina d’anni, si ricavò nel 1976 la varietà ‘Roazon’, ovvero nel medesimo anno d’iscrizione nei registri del nostro ‘Creso’ ottenuto anch’esso per irraggiamento. Tuttavia la varietà ebbe vita breve perché presentava uno scarso valore panificatorio. Conteneva infatti una endoamilasi legata al gene Tch1 della specie selvatica ed era suscettibile alla septoriosi, una malattia non controllata dai geni di resistenza trovati in Aegilops ventricosa. La farina di questo frumento è stata però fatta mangiare ai consumatori, ma nessuno ha avuto nulla da ridire e quindi la sanità delle farine venne data per scontata”.

In tal caso, i detrattori degli OGM non si sono infatti sentiti. Forse anche perché nulla sapevano di tali processi e di tali tecniche?

“Infatti vi è da chiedersi dove fossero all’epoca Greenpeace, Carlin Petrini di Slow Food, l’erede al trono d’Inghilterra e Giulia Maria Crespi, sostenitrice del biodinamico e fiera oppositrice degli OGM”.

Ma un sistema più veloce per svolgere tutto questo lavoro proprio non c’era?

“Tutto il lavoro descritto sopra ora sarebbe ovviabile se già fosse possibile applicare al frumento la tecnica del DNA ricombinante. In 3 o 4 anni si sarebbe ottenuto un frumento con le buone caratteristiche di Moisson e con tutte le resistenze inserite. Non solo: si sarebbe ottenuto senza altri geni immessi involontariamente, com’è stato il caso dell’endoamilasi”.

Inutile piangere ora sul latte versato, purtroppo. Ma la storia mica finisce con il ‘Roazon’, giusto?

“La varietà Roazon fu anch’essa molto utilizzata come genitore negli incroci successivi per tentare di conservare le resistenze e migliorare la panificabilità. Da questo lavoro nel 1989 è stata generata appunto la varietà ‘Renan’, la quale è stata coltivata dal 1995 al 2001 come varietà rustica in agricoltura convenzionale. Non solo, alle resistenze insite nell’antenato artificiale VPM, hanno fatto ricorso quasi tutte le varietà coltivate negli ultimi anni, con buona pace di qualsivoglia cultore del mangiare naturale e tipico. Tutte le colture attualmente coltivate, fra cui ‘Roazon’ e ‘Renan’, possiamo dire che sono state molto più manipolate del tanto vituperato mais MON810 di Monsanto. E sono tante queste colture ‘OGM-ante litteram’, forse la maggioranza, perché le resistenze genetiche conferiscono alla varietà un vantaggio commerciale non indifferente. Se si riflette bene, noi conosciamo ben poco di tutte queste modifiche apportate nel tempo: quanti geni sono implicati e non, il modo di agire di questi geni di resistenza nei riguardi dei parassiti, come il numero di proteine, il grado di tossicità intrinseca, i loro bersagli e gli effetti attesi e inattesi. Nonostante ciò, i consumatori votati al tradizionale, al naturale e al biologico hanno ammirato le loro forme di pane fatte con queste farine definite ‘all’antica’, considerate per tale ragione più salutari e di grande soddisfazione intellettuale”.

Dunque, gli OGM sono sulle nostre tavole da decenni, ma non erano considerate tali fino alla decisione della Corte di Giustizia Europea, la quale le ha catalogate giustamente fra gli OGM anch’esse.

“Esatto. Il pane e la pasta OGM esistono già da molto, molto tempo, insieme a un numero astronomico di altre varietà coltivate. Il tutto, con buona pace dei vari Mario Capanna, della Coldiretti e dei tantissimi soggetti che si vantano di essere contrari agli OGM. In conclusione una cosa è certa: le varietà transgeniche di cui tanto si ha paura a causa di qualche modifica genetica mirata, sono meno modificate delle tante varietà di frumento che hanno ricevuto il trasferimento in blocco di un tratto cromosomico di una specie selvatica e sono nate grazie a sostanze chimiche mutagene e all’uso di radiazioni. Pertanto, sospettare che contro gli OGM l’ideologia sia stata elevata a criterio scientifico è tutto tranne che fuori luogo”.

Peraltro, il “Caso Renan” è bel lungi dall’essere l’unico.

“Renan è in ampia compagnia. Per esempio, uno stabilimento francese di prodotti da forno ha presentato un nuovo pane preparato con un ‘nuovo cereale’, chiamato ‘Tritordeum’, che è stato derivato dall’incrocio tra una varietà di frumento e una di orzo. Cosa mai avvenuta in natura, né in 10 mila anni di storia agricola umana. Ora lo stabilimento presenta questo pane con certificazione biologica, sostenendone la ‘naturalità’ e il ‘sapore autentico’. Peccato che in quella nuova varietà di cereale nulla vi sia di ‘naturale’, come pure appare ardimentoso definire un sapore ‘autentico’ se non è mai esistita in passato la materia prima di cui si sta discutendo”.

Interessante esperimento di marketing, di psicologia e di sociologia, quindi?

“Vediamo in dettaglio: come dicevamo, la varietà di cereale summenzionata è frutto di un incrocio tra un frumento duro e un orzo selvatico, ovvero l’Hordeum chilense. Al genere Hordeum appartengono 70 specie e la specie ‘vulgare’ è quella coltivata. Il diritto esclusivo di questo nuovo cereale è detenuto da una società spagnola, la Agrasys. Ovviamente insistono che si tratta di costituzione frutto di incrocio e che non è intervenuta nessuna modifica genetica di tipo OGM. Qui però vi è da dire che se si sono uniti due genomi che non si sono mai uniti in natura, significa che si è ottenuto un organismo mai esistito prima e quindi se esiste è solo perché è stato modificato. Basti dire che per ottenerlo sono stati necessari 30 anni di studi e di generazioni intermedie per ottenere una semente commerciabile. Lo scopo era di unire le qualità panificatorie del frumento con la resistenza alla siccità dell’orzo, sebbene il frumento duro sia di per sé resistente alla siccità anch’esso”.

Che peraltro pare pure un cereale meraviglioso, un po’ come il triticale. Ma come hanno realizzato, di fatto, tale nuova varietà?

“Inizialmente si è usato grano tenero e orzo coltivato, ma senza che si riuscisse a cavare un ragno dal buco perché ciò che si otteneva era sterile. Successivamente hanno optato per il grano duro (usato come femmina) e l’orzo selvatico (usato come maschio). Le spighe di orzo erano state preliminarmente trattate con un ormone naturale, l’acido gibberellico, e comunque si otteneva una fertilità molto ridotta. Quindi gli embrioni dovevano essere ripresi e coltivati in vitro. Comunque poi le piante che si sono ottenute da questi embrioni coltivati erano ancora sterili e quindi si è dovuto procedere alla poliploidizzazione, ovvero il raddoppiamento cromosomico tramite colchicina che abbiamo menzionato poc’anzi. Di generazione in generazione si sono quindi selezionati i genotipi che meglio si confacevano a una coltivazione redditizia”.

Ma a livello genetico qual è il suo assetto finale?

“La nuova pianta è esaploide, come il frumento tenero, e ha allo stato aploide due genomi del grano duro (7 + 7 cromosomi) e un genoma dell’orzo (7 cromosomi). Insomma per chi ne sa di creazione varietale non è stata fatta alcuna cosa strana. Con il succitato triticale, ovvero grano incrociato con la segale, si è fatta la medesima cosa, sempre grazie alla colchicina. Ma rimane falso affermare che si tratta di una specie vegetale nuova ottenuta ‘naturalmente’, quando invece è frutto di moderne biotecnologie. Né tantomeno risponde ai dettami della naturalità del coltivare biologico. Faccio peraltro notare che le varietà ottenute da questa nuova specie e attualmente seminate sono state regolarmente iscritte al catalogo delle varietà certificabili senza nessun controllo al di fuori di quelli che normalmente si eseguono per altre specie coltivate”.

 

Renan, Triticale, Tritordeum: fino a oggi reputati “naturali” anziché OGM, sebbene derivino da profonde modifiche genetiche con l’ausilio di sostanze chimiche come la colchicina e, nel caso di Renan, anche di irraggiamento radioattivo. Ora si attende solo che la decisione della Corte di Giustizia europea abbia i propri effetti normativi in ogni Stato del Vecchio Continente. A partire dalla rivoluzione sulle confezioni di cibo. Per poter continuare ad affermare di essere “OGM-Free”, i cultori del “marketing del senza” dovranno abbandonare le varietà succitate e scavare molto indietro nel passato, restringendo drasticamente il range di colture e di varietà utilizzabili. Ovvero quelle pre-colchicina e pre-radiazioni. Oppure ammettere finalmente che gli OGM non sono pericolosi per la salute, dopo averli dati da mangiare alla gente per decenni. Una posizione in effetti imbarazzante.

Se infatti appare ormai impossibile contrastare questa deriva comunicativa demenziale del “senza”, che almeno le si renda la vita più difficile.

 

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Pasta italiana, grano canadese e ipocrite bugie

Grano: italiano o meno che sia, deve essere di qualità. O la pasta non si fa

Pasta italiana con solo grano italiano: realtà o fantasia? La crociata contro il frumento duro canadese è partita con la scusa dell’erbicida glifosate, ma covava da anni senza trovare appigli per essere scatenata

Giusto 17 anni fa c’era l’America in cerca di vendetta contro il terrorismo islamico che le aveva buttato giù le Torri gemelle. Parallelamente, c’era anche una classe politica statunitense che doveva mostrare i muscoli a un popolo infuriato che attendeva azioni eclatanti contro l’islam terrorista. E così, vennero inventate di sana pianta delle armi di distruzione di massa in Iraq con l’unico scopo di creare il cattivo di turno cui dare una sonora lezione, anche se di fatto questi non avesse alcunché a che fare con quanto gli veniva imputato.

Ecco, contro il grano canadese è successa più o meno la stessa cosa: in Italia quel grano d’Oltreoceano stava da molti anni sugli zebedei a Coldiretti & soci e quindi bisognava trovare una scusa per dargli contro, nascondendo un goffo protezionismo dietro argomenti rivelatisi poi falsi quanto quelli partoriti sulle inesistenti armi chimiche di Saddam Hussein. Ma andiamo per ordine, come uso dire.

 

Pasta? Il grano non basta…

Di fatto, l’Italia produce molta più pasta che grano, quindi ne deve importare a fiumi. Inoltre, mica tutto il grano duro italiano è di qualità sufficiente per essere avviato tal quale alla produzione di pasta eccellente. Tali problemi sono emersi soprattutto quando scoppiò la polemica sull’etichettatura della pasta, con Coldiretti che voleva venisse indicata sulle confezioni l’origine del grano e l’industria che invece si opponeva.

Sebbene anch’io concordi con Coldiretti sull’utilità di indicare l’origine delle materie prime, illusione effimera che non ha poi trovato seguito in Europa, non posso che concordare con Cosimo De Sortis, presidente di Italmopa, quando ricorda che l’Italia appare deficitaria per un rotondo 60% di frumento tenero, importato soprattutto dai Paesi dell’Est, e per il 45% per quanto riguarda il frumento duro. Ai numeri forniti da De Sortis si aggiungono quelli di Paolo Barilla, dell’omonimo colosso italiano, secondo il quale solo il 50% del grano duro prodotto in Italia avrebbe caratteristiche sufficienti per produrre pasta, a fronte di un sonoro 40% che tali requisiti invece non li avrebbe. Solo il 10% del grano italiano sarebbe quindi di qualità eccellente, utilizzabile tal quale per alimentare filiere di alta qualità.

Quindi, l’importazione del 45% di grano duro sarebbe dovuta non solo all’atavica carenza di prodotto italiano, ma anche alla necessità di tagliare quello nostrano scadente con dei grani di qualità superore, atti a portare i nostri grani mediocri a valori di proteine sufficienti alla pastificazione. Ergo, piaccia o meno, l’Italia di grano duro ne ha bisogno e i casi sono due: o ne produce di più e di meglio, erodendo superfici coltivabili ad altre colture e investendo in fertilizzanti, sementi elette e agrofarmaci, oppure si deve importare, con buona pace dei protezionisti interni.

Neanche risulta vera la teoria per la quale i grani stranieri sarebbero venduti a prezzi stracciati, perché la qualità si paga, anche se in alcuni Paesi stranieri si riesce a produrre in quantità e in qualità, minimizzando i costi. Per esempio nel tanto vituperato Canada. Lì possono produrre fiumi di grano duro di qualità, eccellente quanto a proteine, e spedirne poi a navi intere in Italia. Per fare ciò necessitano però di una pratica agronomica ben precisa: trattare in pre-raccolta il grano con basse dosi di glifosate, il diserbante inventato da Monsanto, al fine di minimizzare i tempi che intercorrono fra la piena maturazione della spiga e il suo corretto essiccamento in campo. A fine settembre a volte in Canada nevica e se il grano è ancora in campo lo butti via.

Tali applicazioni erbicide sono divenute nel tempo l’unica arma in mano a Coldiretti e ad altre associazioni per far partire una veemente crociata contro i Canadesi, soprattutto da quando la Iarc ha classificato glifosate come probabile cancerogeno. Un giudizio sballato di cui si è già parlato approfonditamente.

Ma cosa è successo nei fatti? Tutto parte nel 2016 dalla neonata associazione Granosalus creata da Saverio De Bonis, il quale dopo non essere riuscito a farsi largo nel settore dell’allevamento dei conigli ci ha riprovato con il grano, questa volta con successo. Per farsi notare in modo eclatante, De Bonis ha fatto analizzare diversi marchi di pasta e vi ha trovato ovviamente tracce di glifosate. Tracce innocue per la salute, sia chiaro, ma la gente questo non lo sa (leggi approfondimento). Immediatamente partì quindi la campagna di denigrazione a orologeria, con trasmissioni come Report che rilanciarono poi l’argomento, spaventando ulteriormente la popolazione sul nulla. Per raggiungere la soglia di sicurezza (non tossica: di sicurezza!) bisognerebbe mangiare infatti 300 chili circa di pasta al giorno. Cioè quanta in Italia se ne mangia in circa 15 anni.

Pochi sanno però che De Bonis, lungi dall’essere paladino dei consumatori, è di fatto personaggio controverso. Per esempio è stato appena condannato in secondo grado per essersi fatto dare contributi pubblici senza averne diritto come agricoltore. Di tale condanna ormai poco gliene cala a De Bonis, in effetti, visto che grazie alle sue bordate mediatiche contro glifosate è riuscito a farsi candidare dal M5S e a farsi eleggere al Senato. Il suo risultato personale l’ha quindi raggiunto appieno.

Ma a parte lui, ciò che più ha impattato i rapporti fra Italia e Canada è stata Coldiretti con una martellante campagna di demonizzazione del grano d’Oltreoceano: navi bloccate nei porti con l’accusa di trasportare merce zeppa di micotossine – poi rivelatesi regolari – nonché un continuo propalare allarmismo circa appunto glifosate: unico appiglio rimasto ai Giallo-verdi nostrani per indurre i consumatori a rifuggire dalle paste prodotte con grano che contenesse un qualche residuo dell’erbicida, per quanto minimo. In pratica, le famose armi chimiche di Saddam: un pericolo inesistente, usato per scatenare una guerra di comodo del tutto immotivata.

Una manovra i cui risultati non si sono fatti attendere, con una Barilla che ha annunciato che nel volgere di pochi anni chiuderà le importazioni di grano canadese contenente l’erbicida. Una vittoria di Coldiretti, come cercano di farla passare tutti tronfi e muscolosi? No, una vittoria di Barilla, visto che la Casa di Parma ha già messo le mani avanti per gli aumenti di prezzo che la pasta potrà avere in futuro. Secondo un’intervista concessa da Paolo Barilla a I Nuovi Vespri, un piatto di pasta potrebbe infatti passare da soli 20 cent a 2 euro. Un incremento di dieci volte. Strano, perché il grano sul prezzo finale della pasta incide circa per il 15%, quindi non si capisce bene perché smettendo di comprare grano canadese e andandolo a comprare magari nei Paesi intorno al Mar Nero – che non hanno bisogno di glifosate in pre raccolta esattamente come in Italia – la pasta dovrebbe costare fino a dieci volte di più di quella prodotta oggi usando grano canadese.

Peraltro, l’Italia continua a essere asfittica con le produzioni in campo. Anche mantenendo le promesse di remunerare meglio i cerealicoltori, difficilmente il Belpaese potrà cambiare significativamente le proprie potenzialità produttive. Inoltre, come già visto per il latte, il concetto di qualità finisce sempre col remunerare al 90% industrie e grande distribuzione organizzata, lasciando agli agricoltori tutti gli oneri per realizzarla, quella qualità, salvo poi riconoscere loro soltanto le briciole degli incrementi di valore commerciale dei prodotti finiti.

Vi è quindi da sospettare che anche per il grano duro italiano finirà allo stesso modo, ovvero con le industrie della pasta e la gdo che faranno quattrini a palate alzando i prezzi di vendita senza che quella pasta sia migliore né tanto meno sia più sana di quella odierna. Infine, non si capisce per quale motivo il grano debba costare di più acquistandolo dove comunque glifosate non serve. Non adoperarlo non è quindi per quei Paesi un sacrificio che comporti perdite in campo. Per quale diavolo di ragione dovrebbero quindi lievitare i prezzi della pasta?

Business, semplicemente. E tutti i pastai d’Italia, come pure la gdo che vende i loro prodotti, ringraziano Coldiretti per la preziosa opportunità offerta. Quanto all’Italia, a dispetto di quanto afferma l’Associazione agricola, i pastai se la caveranno probabilmente con qualche minoritaria filiera 100% italiana, con la quale buttare fumo negli occhi ai consumatori, per giunta remunerando gli agricoltori con le usuali misere mancette extra. Il tutto a fronte degli sforzi considerevoli sostenuti in campagna per dare ai pastai il grano di qualità che essi chiedono. Per i cerealicoltori nostrani non pare una grande vittoria, vista così. Non trovate?

Nulla di nuovo sotto il sole quindi: Coldiretti lancia le sue discutibili crociate, dopodiché le industrie fanno un po’ di teatrino e infine ringraziano per l’opportunità creata di spillare ancor più soldi ai clienti, pagando come sempre una miseria ai coltivatori.

 

Non c’è alcuna scorrettezza

Altro cavallo di battaglia di Coldiretti è quello della presunta scorrettezza dei Canadesi verso i produttori italiani. Secondo loro, usando glifosate essi realizzerebbero un grano di qualità in modo artificiale e questo metterebbe in difficoltà noi italiani che quei trattamenti non li possiamo fare, in quanto non autorizzati in Italia. Concorrenza sleale, dicono i Giallo-verdi. Ma le cose, tanto per cambiare, non stanno affatto così.

In primis, con tale affermazione Coldiretti ammette implicitamente che il grano canadese è di ottima qualità, contraddicendosi quindi sul tema delle navi piene di porcate straniere. Porcate infatti non sono e con le loro affermazioni lo confermano pienamente. Anzi, sono delle gran produzioni assolutamente temibili per qualità. Così non fosse, non saremmo qui a parlarne.

In secondo luogo, non c’è alcuna concorrenza sleale. Fino al 2016 anche in Italia potevamo usare glifosate in pre-raccolta su grano, per farlo seccare prima e meglio. Un uso che da noi non ha mai attecchito grazie alle condizioni climatiche italiane, diverse da quelle del Canada. Poi, a seguito della già citata monografia Iarc e del vero e proprio terrorismo fatto intorno a questa molecola, quell’uso è stato tolto dall’etichetta. Siamo cioè stati noi Italiani a privarci volontariamente di quello strumento a causa del can can generato da Granosalus prima e da Coldiretti poi. In sostanza, prima Coldiretti ha gonfiato le condizioni affinché quegli usi venissero proibiti, salvo tuonare poi contro la concorrenza supposta sleale di un Paese che invece quegli usi se li è tenuti stretti. Un po’ come se proibissimo i trattori per tornare all’aratro tirato dai buoi e poi inveissimo contro le produzioni straniere fatte grazie alla meccanizzazione agricola. Se sei un Paese di imbecilli che si taglia le palle da solo, poi non puoi dare degli scorretti a quei Paesi che le palle se le sono invece saggiamente conservate, prendendoti poi a schiaffi sui mercati globali. Chi è causa del suo mal, pianga solo se stesso.

Infine, senso nullo ha pure l’argomento della tipicità delle aree di coltivazione. Se in Canada devono usare glifosate per fare grano di qualità, secondo alcuni puristi italiani vuol dire che non sono portati a produrlo senza aiuti chimici e quindi dovrebbero coltivare altro. Mica come noi Italiani che grazie al Sole possiamo fare grano duro anche senza usare glifosate.

Peccato che lo stesso discorso lo potrebbero fare i viticoltori della Murcia spagnola, i quali coltivano vigneti sui quali non piove mai e quindi possono evitarsi i 15 trattamenti all’anno di antiperonosporici che facciamo noi e pure i trattamenti con antibotritici in pre-raccolta. Noi, invece, dobbiamo trattare e pure tanto. Provate a chiedere a un viticoltore trevigiano quante volte deve trattare all’anno per produrre le uve da cui ricaverà il suo vino. Oppure chiedete a un coltivatore barese di uva da tavola tardiva, allevata sotto tendone, di non applicare antibotritici. Vi manderà a quel paese, perché in autunno, con l’umidità che c’è, o applichi questi fungicidi o raccogli muffe anziché uva.

Quindi i Canadesi non sono né degli avvelenatori, né tanto meno sono scorretti verso di noi. Applicano glifosate sul grano esattamente per le stesse ragioni per cui noi applichiamo fungicidi alle nostre vigne. Non a caso noi vendiamo a loro fiumi di vino e loro a noi fiumi di grano. Dove sia la concorrenza sleale, quindi, proprio non si capisce. Anche perché proprio Coldiretti gongola quando si parla di export, salvo tirar fuori perfino il cosiddetto “carbon footprint” quando il tema siano i prodotti importati. Quasi che il nostro vino spedito in Canada non avesse prodotto anidride carbonica per essere trasportato fin laggiù. Un doppiopesismo che dovrebbe bastare da solo per inquadrare l’intera questione.

Per tali ragioni, quando in futuro i consumatori italiani compreranno la loro pasta si ricordino di questo articolo e ringrazino gli spregiudicati protezionisti italiani per quei prezzi sulle confezioni. Prezzi dai quali a favore degli agricoltori andranno le usuali, misere, pezzenti, briciole.

 

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Glifosate: scienze, sentenze e troppe fantasie

Condanna in America per glifosate. Ma davvero la sentenza ha senso?

 

Una sentenza del tribunale di San Francisco, in California, condanna Monsanto a pagare 289 milioni di dollari a Dewayne Johnson, giardiniere che le ha mosso causa dopo aver sviluppato un linfoma non Hodgkin, a detta sua causato da un diserbante della multinazionale. Subito deflagrano le schegge della bomba mediatica anche in Italia, dove ogni lobby diversa da Monsanto ha cercato di tirare l’acqua al proprio mulino cavalcando la situazione

Italiani, popolo di Santi, navigatori ed eroi. Questo un tempo. Poi, con l’avvento di internet si è esaltata quella caratteristica che ci rende famosi in tutto il Mondo, ovvero la capacità di trasformarci tutti in 60 milioni di esperti in qualsiasi cosa. Crolla un ponte a Genova? Compaiono 60 milioni di ingegneri civili. Giunge da Oltreoceano la notizia di Monsanto condannata a versare 289 milioni di dollari a un giardiniere che le ha fatto causa, reputando glifosate la causa del suo cancro? Ed ecco materializzarsi 60 milioni di persone che, in modo pittoresco come italianità impone, si alternano nel ruolo di oncologi, tossicologi, giuristi e agronomi. Del resto, l’esclusione dai Mondiali di calcio in Russia li ha privati della loro imitazione più riuscita, ovvero quella dei 60 milioni di Commissari tecnici della Nazionale. Qualche sfogo lo dovevano pur trovare.

Io, da Italiano un po’ atipico, cerco invece di restare quello che sono: un laureato in Scienze agrarie con dottorato in “Chimica, biochimica ed ecologia degli antiparassitari” e circa 30 anni di esperienza nel settore degli agrofarmaci. Opero come giornalista, divulgatore scientifico, nonché scrittore di libri sui pesticidi e, giusto quest’anno, su glifosate (“Orco Glifosato – Storia di lobby, denaro, cancri e avvocati”, Orsa Maggiore Ed.). Per scrivere quest’ultimo libro, negli ultimi tre anni mi sono dovuto studiare con attenzione oltre 1.500 pagine di ricerche scientifiche, a partire dalla monografia Iarc che collocava glifosate in Gruppo 2A (probabili cancerogeni), nonché i giudizi di Oms/Fao e delle più significative Autorità mondiali per la regolamentazione degli agrochimici, come Efsa, Bfr ed Echa, tutte e tre europee, ma anche di quelle australiane, canadesi, neozelandesi e svizzere. Avevo cercato anche il parere del Giappone, anch’esso positivo su glifosate, ma sfortunatamente il pdf era scritto in ideogrammi. E ognuno ha i suoi limiti, me incluso.

Come tanti altri oltre a me, dallo studio della monografia Iarc su glifosate ho tratto la conclusione che essa andrebbe rifatta da capo, possibilmente cambiando il panel di esperti, a partire da Kurt Straif, direttore di sezione, e Kate Guyton, suo braccio destro sull’affare glifosate. Non solo perché fra le prove considerate da Iarc ne ho trovate di alquanto bizzarre, come la valutazione dell’erbicida su spermatozoi di ostrica o studi epidemiologici svolti su sole sette (esatto: sette) persone. Né solo perché tutte le Autorità sopra menzionate hanno preso una posizione contrapposta a quella di Iarc, esprimendosi a favore della non cancerogenicità di glifosate. La vorrei rivedere scritta da capo senza più Christopher Portier chiamato a presiedere riunioni, sebbene fosse membro da anni di un’associazione ecologista anti pesticidi e – si è scoperto dopo – accordatosi per 160 mila dollari di consulenza con lo studio legale che stava preparando la class action contro Monsanto. Né vorrei che il Chairman del panel di esperti fosse ancora Aaron Blair, del National Cancer Institute, il quale aveva da un paio di anni nel cassetto la ricerca epidemiologica più robusta su glifosate e – incredibilmente – non l’ha pubblicata, impedendo di fatto che la prova più schiacciante a favore di glifosate venisse presa in considerazione dalla Iarc. A ciò si aggiungono infine varie sciocchezzuole procedurali emerse confrontando la versione di progetto con quella finale. Ovvero, quelle strane modifiche peggiorative fatte in corsa da Iarc prima di pubblicare la monografia finale che hanno fatto muovere perfino il comitato scientifico del Senato americano, il quale ha scritto una serie di richieste di chiarimento a Christopher Wild, direttore della Iarc. Richieste rimaste ovviamente senza soddisfazione. O meglio: ex direttore, perché nel pieno della polemica Wild ha rassegnato le dimissioni e non ha portato a termine il suo secondo mandato quinquennale. Chissà: forse a porte chiuse sono volati stracci che a noi comuni mortali al di fuori di Oms e Iarc, non è dato sapere.

Direi quindi che di motivi, scientifici e non, per stracciare l’attuale monografia e rifarla da capo ce ne siano in abbondanza. Basterebbe poco: rifarla. Magari bene, questa volta. Di che avete paura, o voi sostenitori della cancerogenicità di glifosate? Se avete ragione la scienza lo dimostrerà. Quindi perché non raccogliete la sfida? Forse perché sapete benissimo che giocando pulito questa volta la perdereste? Chissà.

Ma ecco che in barba a tutto ciò, dagli States giunge la notizia che un tribunale avrebbe condannato Monsanto a pagare 289 milioni di dollari a tal Dewayne Johnson, giardiniere colpito da un linfoma non Hodgkin causato a suo dire da glifosate. E guarda caso, i linfomi non Hodgkin sono proprio quelli sui quali la Iarc avrebbe trovato le motivazioni per includere glifosate in Gruppo 2A. Il motivo della condanna? Monsanto avrebbe dovuto avvertire in etichetta che i suoi prodotti sarebbero cancerogeni, in modo che gli utilizzatori potessero comportarsi più diligentemente, proteggendo meglio la propria salute. Fatto però di cui si dubita, visto che ben pochi fumatori hanno smesso di fumare dopo l’obbligo di scrivere sui pacchetti che il fumo causa il cancro.

A caldo mi sono quindi detto: “Dilettanti…”. Qui in Italia, patria della fantasia e della creatività, siamo infatti imbattibili quanto a sentenze surreali su temi scientifici. Nel 2012 il Giudice del lavoro di Rimini, in Romagna, riconobbe un risarcimento ai genitori di un bambino autistico, vaccinato. Fra le prove portate dai consulenti dei querelanti compare pure la famigerata ricerca di Andrew Wakefield, pubblicata e poi ritirata dal Lancet in quanto rivelatasi una frode scientifica. Ribaltata fortunatamente in appello nel 2015, con buona pace dei genitori in cerca di indennizzi non dovuti, tale sentenza era peraltro stata emessa senza la costituzione in giudizio del Ministero della salute, venendo poi utilizzata come precedente giurisprudenziale in altre cause civili avviate successivamente e dando quindi ulteriore fiato alla cosiddetta “vaccine hesitancy” responsabile del calo vaccinale. E per i bambini morti nel frattempo di encefalopatie da morbillo a chi facciamo causa? Perché di queste morti, decisamente reali, qualcuno dovrebbe pur pagare in un Paese civile. Invece niente: quando le responsabilità ci sono, belle chiare, pare che nessuno paghi mai.

Che volete quindi che sia la condanna di una multinazionale per un pesticida? Eppure, le similitudini fra i due casi sono molte, a dimostrazione che la scienza in tribunale può essere la prima vittima, qualunque sia il verdetto finale.

Da ex-ricercatore amo infatti trovare spiegazioni, mentre da giornalista amo porre soprattutto domande. A voi, giudici, giornalisti, avvocati, cittadini americani in genere, pongo quindi le seguenti. Se sbaglio mi correggerete.

 

  • Ho forse frainteso io, oppure l’America è la Patria della responsabilità individuale? “Devi assumerti le tue responsabilità!” è infatti una delle frasi più ricorrenti nei film e nei telefilm americani che vanno in onda in Italia. A meno che si tratti di una pessima traduzione nella nostra lingua, mi chiedo per quale ragione un operatore professionale che lavori usando in modo inadeguato o insufficiente le protezioni individuali previste dalla Legge, possa poi dare la colpa a qualcun altro per ciò che eventualmente gli succede. Sulle taniche di vernici per automobili mica c’è scritto “Può causare il cancro”, eppure nessuno fra gli addetti alla verniciatura delle grandi industrie si sognerebbe mai di lavorare in canottiera e ciabatte infradito, anche perché gli verrebbe impedito dal suo diretto superiore. In base a quale logica sarebbe quindi venuto meno il dovere alla responsabilità diretta per la propria sicurezza da parte di Dewayne Johnson e, se ne ha uno, del suo diretto datore di lavoro? Qui in Europa, per esempio, a fare testo in materia di sicurezza nell’uso di sostanze chimiche è la Direttiva 98/24/CE. Da voi?

 

  • Non so in America (scherzo…), ma qui in Europa ogni frase di rischio, inclusa la possibile cancerogenicità, viene imposta dalle Autorità di regolamentazione che autorizzano i prodotti. Le società devono cioè porre in etichetta ciò che è stato stabilito in base alle valutazioni operate dalle suddette Autorità, studiando dossier estremamente corposi in tema di tossicità per l’Uomo e per l’ambiente. Se queste non reputano sia necessario apporre l’avvertenza circa la cancerogenicità, è perché tale rischio è stato escluso. Di conseguenza, non sussiste neppure l’obbligo per l’azienda di inserire tali avvertenze in etichetta. Da voi chi lo decide cosa si debba o non si debba scrivere in etichetta? Perché tutti, anche la potente Monsanto, devono conformarsi a tali decisioni ed etichettare di conseguenza i propri prodotti. O c’è qualcosa che mi sfugge?

 

  • In logica prosecuzione del punto precedente: sapete la differenza di approccio metodologico – e quindi di valore dei giudizi – che intercorre fra Iarc e tutte le citate Autorità di regolamentazione? Perché a me risulta che a differenza di queste, la Iarc operi solo sul pericolo intrinseco senza effettuare alcuna valutazione dei rischi reali per l’Uomo. Mentre cioè le Autorità di regolamentazione operano focalizzando sull’Essere umano, la Iarc opera focalizzando solo sulla molecola, indipendentemente dalle dosi o dai livelli di esposizione. Venendo cioè a mancare la valutazione dei livelli di esposizione, la classificazione della Iarc va considerata una mera ripartizione in gruppi di molecole, agenti fisici e biologici in base alla potenzialità intrinseca di generare un tumore, senza stabilire se ciò possa accadere o meno negli specifici casi. Per tali ragioni, nessuna conclusione cui giunge la Iarc ha senso nei processi di regolamentazione ed etichettatura dei prodotti fitosanitari. Perché mai dovrebbe averne nei processi in tribunale?

 

  • Anche volendo accettare l’idea che conti di più il parere della Iarc rispetto a quello delle Autorità di regolamentazione – come pare sia successo nel corso del processo di San Francisco – subentrano però alcune domande curiose. Per esempio: sapendo che l’alcol è in Gruppo 1 Iarc (sicuramente cancerogeni), intendete forse obbligare i produttori di birre, vino o whisky ad apporre sulle etichette la dicitura “Attenzione: l’alcol provoca il cancro”? Sulle sigarette, del resto, già vige questo obbligo per i produttori, non sarebbe quindi così strano per gli alcolici, visto che l’alcol ricade nel medesimo gruppo Iarc del fumo. Sorpresa! Ma anche le carni lavorate sono in Gruppo 1. Pensate forse di obbligare i venditori di Hot Dogs ad apporre un cartello che avvisa la gentile clientela che le salsicce in essi contenuti causano il cancro? Del resto, tale dicitura andrebbe apposta anche nelle avvertenze di impiego delle lampade abbronzanti a Raggi UV, anch’essi sicuramente cancerogeni per la Iarc. Vi siete quindi premurati di fare ciò? Se sì, bene. Se no, pensateci, perché potrebbe essere divertente vedere l’effetto sulla popolazione americana di tali decisioni. Infine, dato che le carni rosse sono nel medesimo gruppo di glifosate, il 2A, probabili cancerogeni, pensate forse di obbligare in futuro i macellai e le grandi catene di distribuzione in cui si vendono bistecche ad esporre analoghe avvertenze a favore della clientela, come si pretenderebbe dovesse fare Monsanto per il suo diserbante?

 

Queste domande nascono perché agli occhi di un Italiano tutto “pizza e mandolino” suona molto bizzarro vedere un popolo che consuma tonnellate di carni rosse, incluse quelle lavorate, beve fiumi di birra e superalcolici, senza che alcuna Legge obblighi i produttori e i commercianti a etichettare fisicamente tali prodotti come cancerogeni. Perché mentre la mortalità dovuta a glifosate, inclusa quella per cancro, è tutt’oggi materia di illazioni, i milioni di cancri al colon o al fegato o alla pelle sono una realtà statistica ormai consolidata e accettata dalla totalità della comunità scientifica internazionale.

Ben si comprende come possa suonare assurda a un Americano l’idea di vedersi imbustare hot dog, birra o bistecche in una confezione recante la scritta “Provoca il cancro”. Ma ciò sarebbe molto più ragionevole che condannare Monsanto perché non ha scritto nelle etichette dei suoi prodotti che sono cancerogeni, visto che per la totalità delle Autorità di regolamentazione non lo sono affatto. Mentre tutti i prodotti summenzionati, sì.

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Xylella degli olivi: complottismi e disastri annunciati

Uliveto sano e adeguatamente diserbato

Dal 31 luglio 2017, data di inizio dei monitoraggi sul territorio pugliese, al 3 gennaio 2018 ammontano ormai a 734 i nuovi casi di positività, in soli cinque mesi

Olivi infetti da Xylella fastidiosa sub. pauca: quasi cinque nuovi casi al giorno negli ultimi cinque mesi per un totale di 734 casi di positività al batterio. Questo è quanto emerge dai monitoraggi sul territorio in cui sono stati coinvolti circa 150 tecnici a partire dal 31 luglio 2017.

Ogni nuovo aggiornamento è stato caricato sul sito “Emergenza Xylella” sotto la voce “Protocollo SELGE”. Per ogni albero monitorato vengono riportate le coordinate di georeferenziazione e il comune di appartenenza, nonché la data di rilevamento e il numero di identificazione dell’albero. Le analisi di laboratorio per confermare la presenza di Xylella sono effettuate tramite qPcr, acronimo di “quantitative polymerase chain reaction”, una tecnica di laboratorio basata sull’amplificazione del dna trovato nei campioni prelevati.

Dal lavoro di accorpamento dei dati, svolto dalla redazione di Infoxylella.it, si evince che dei 734 alberi trovati positivi, ben 332 sono stati rinvenuti nella sola Oria, in provincia di Brindisi. Per giunta, tali dati sarebbero riferiti solo a una zona ristretta del Comune, ovvero quella che si affaccia sulla fascia di contenimento. La gran parte del territorio di Oria è infatti ormai considerata endemica per il patogeno, quindi non viene più monitorata. In pratica, è spacciata. Un aspetto che dovrebbe indurre severe considerazioni sull’ostruzionismo mostrato da più parti in tema di contenimento dell’epidemia.

A seguire i dati drammatici di Oria giungono poi i 125 positivi di Carovigno, 106 a Francavilla Fontana, 90 a Ceglie Messapica, 28 a Ostuni, più altri positivi sparsi in un’altra dozzina di comuni, come San Michele Salentino (15), Taranto (10), Sava (7), Latiano (7), Villa Castelli (5), Maruggio (2), Cisternino (3), San Vito di Normanni (1), Grottaglie (1), Fracagnano (1) e Manduria (1).

Considerando l’estensione dell’area da monitorare, nonché i presumibili alberi positivi ma ancora asintomatici, il quadro appare in tutta la sua drammaticità, in quanto i 734 olivi rinvenuti è facile siano solo la punta dell’iceberg. Una situazione in continua evoluzione che il 2018 contribuirà a meglio definire nei numeri e nella localizzazione dei casi. In attesa che chimica e genetica trovino una soluzione concreta che permetta di arginare l’avanzata del patogeno.

Sempre che i mortiferi complottismi che hanno finora bloccato ogni piano di difesa non si mettano ulteriormente di traverso.

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Glifosate: troppe omissioni e sterili polemiche

La soia: ovvero la coltura gm resistente a glifosate più osteggiata dal fronte ambientalista

 

A seguito del rinnovo dell’erbicida scoppiano le polemiche contro chiunque stia fuori dal coro abolizionista. È toccato anche alla Senatrice Elena Cattaneo, la quale ha osato esprimere opinioni divergenti dall’allarmismo dominante

Liberate il Kraken!“. Una frase ormai divenuta cult e pronunciata per la prima volta nel film Scontro fra Titani, con Liam Neeson nel ruolo di Zeus. Il Kraken è un mostro marino mitologico di enormi dimensioni, il quale viene evocato nel film affinché riceva in pasto la principessa Andromeda per scongiurare la distruzione della città di Argo. Mitologie cartoonistiche a parte, qualcosa di simile accade a Elena Cattaneo ogni volta che apre bocca in materia di scienza: le viene scatenato contro il Kraken dei molteplici suoi detrattori, tutt’altro che mitologici.

La sua uscita su La Repubblica in tema di glifosate ha infatti generato un’ondata di critiche da più parti. La Senatrice sarebbe infatti rea di aver ricordato che la Iarc, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, non è l’Oms, bensì solo una sua branca. Come pure di aver riassunto le sue modalità di classificazione per gruppi delle sostanze indipendentemente dai differenti livelli di rischio. Di certo, le lance da lei spezzate a favore degli ogm e le critiche mosse al biologico sono state ottimi inneschi all’onda di proteste e contumelie nei suoi confronti.

Ultima della serie, almeno per ora, la polemica mossale su Scienzainrete da quattro ricercatori, ovvero Annibale Biggeri, Franco Merletti, Benedetto Terracini e Paolo Vineis, “epidemiologi ed esperti di cancerogenesi ambientale”, come descritti nella pagina web che ha riportato la loro polemica. In tale occasione Elena Cattaneo è stata accusata di aver adombrato “non meglio precisati conflitti di interesse che avrebbero spinto alcuni componenti dell’agenzia OMS a nascondere dati“. Pure hanno affermato gli esperti che Iarc sarebbe “la struttura della Organizzazione Mondiale della Sanità deputata al riconoscimento dei rischi ambientali“, godendo per tale ragione di “grande prestigio su scala mondiale”. Segue una citazione dei famigerati Monsanto Papers, denunciati da un quotidiano francese “del calibro di Le Monde“. Il calibro di un giornale, a quanto pare, viene misurato in funzione di quanto soddisfi i bias di conferma di chi legge, visto che lo stesso Le Monde ha anche pubblicato un successivo articolo dal titolo “Glyphosate: Monsanto tente une dernière manœuvre pour sauver le Roundup” (Glifosate: Monsanto tenta un’ultima manovra per salvare Roundup), nel cui sommario si afferma che “La firme de Saint Louis est impliquée dans une campagne de dénigrement visant le toxicologue américain Christopher Portier” (la Casa di St.Louis è implicata in una campagna denigratoria contro il tossicologo americano Christopher Portier).

Christopher Portier è colui che venne chiamato dall’Agenzia di Lione a coprire il ruolo di Presidente della Commissione Iarc che nel 2014 decise di procedere su glifosate, sebbene fosse attivista dichiarato dell’Environmental Defense Fund, associazione ecologista anti–pesticidi. Un palese conflitto d’interessi, perché risulta del tutto fuori luogo chiamare in causa su un “pesticida” un soggetto che appartiene a un’organizzazione che dagli Anni 60 ha in odio proprio i “pesticidi”. Per giunta, si è poi scoperto che Portier ha pure firmato un contratto di consulenza da 160 mila dollari con Weitz & Luxenberg, lo studio legale che stava elaborando la Class Action contro Monsanto, la medesima settimana in cui venne pubblicata la monografia Iarc. Per ulteriore giunta, per stessa ammissione di Portier, egli avrebbe avuto contatti con quello studio legale addirittura prima che iniziasse il processo di valutazione di glifosate.

Eppure per un quotidiano “del calibro di Le Mondesarebbe Monsanto la cattiva, colei che trama per calunniare l’eroe del popolo e dell’ambiente. Non il contrario. Un comportamento per lo meno bizzarro, il quale vi è da sospettare che non si sarebbe verificato se la consulenza fosse stata firmata con Monsanto anziché con lo studio legale americano. Perché essere “cattivi” o “buoni”, a volte, può dipendere dalla persona che t’inonda di quattrini per farti dire ciò che serve a lui, anche se magari non corrisponda al vero.

Qualche puntualizzazione va poi posta sull’affermazione che vorrebbe la Iarc “la struttura della Organizzazione Mondiale della Sanità deputata al riconoscimento dei rischi ambientali“. Ciò non corrisponde a verità e sconcerta che gli epidemiologi ambientali sottolineino con orgoglio la familiarità con le attività della Iarc, con la quale alcuni di loro avrebbero per giunta avuto “l’opportunità di parteciparvi direttamente“. Con buona pace dei quattro, infatti, la Iarc non produce affatto valutazione dei rischi. Tale lavoro implica il confronto fra evidenze bibliografiche di tossicità o cancerogenicità, con i livelli reali di esposizione umana o ambientale. Senza l’analisi dei livelli di esposizione non è possibile quindi stimare alcun rischio. La Iarc, al contrario, effettua valutazioni di mero pericolo potenziale. Ovvero, se una molecola si è mostrata in grado di produrre cancri, seppur a dosi vertiginose, viene comunque classificata cancerogena anche se stoccata su Saturno.

Ben altro approccio quello di altre Agenzie internazionali, come le europee Efsa, Echa, Bfr, ma anche L’Environmental protection agency americana, i Jmpr, gruppi congiunti di lavoro Oms/Fao, l’Australian pesticides and veterinary medicines authority, la Pest Management Regulatory Agency canadese, l’Environmental Protection Authority neozelandese e perfino l’Ufficio federale dell’agricoltura elvetico. Tutte hanno effettuato la valutazione dei rischi, includendo quindi i livelli di esposizione umana, e per tale ragione hanno concluso che glifosate è sicuro per la salute. Boccone amaro da ingoiare per taluni, ben si comprende, ma che sarà bene ingoiarlo facendo buon viso a cattivo gioco.

L’affermazione dei quattro epidemiologi richiama quindi alla memoria la famosa frase di Gino Bartali, il campione di ciclismo fiorentino che soleva dire “E gli è tutto sbagliato, e gli è tutto da rifare!“. Altrimenti non si spiegherebbe la convivenza nel medesimo gruppo 1, quello dei sicuramente cancerogeni, di raggi Gamma e raggi Uv, visto che per i primi non basta certo evitare di esporsi nelle ore centrali del giorno, né esistono creme protettive che ne mitighino gli effetti. Ancor più emblematico l’accostamento di amianto e carni lavorate, visto che per il primo le dosi nefaste erano così basse da impedire una qualsivoglia stima del rischio. Infatti l’amianto è stato bandito, mentre würstel, costine e salamelle continuano a rosolare sulle griglie di ogni sagra paesana dello Stivale.

Quindi i casi sono due: o si bandisce ogni sagra in quanto spacciatrice di tonnellate di sostanze cancerogene, o si conviene che la Iarc dei rischi proprio non si occupa manco di striscio. Un’evidenza sottolineata perfino da Aaron Blair, Chairman del gruppo di lavoro Iarc che ha posto gifosate nel gruppo 2A, quello dei “probabili cancerogeni”. In occasione della prima polemica sviluppatasi fra Iarc ed Efsa, lo stesso Blair ha infatti ricordato come la valutazione di pericolo (non di rischio) risponda solo a una semplice domanda: “Può una sostanza causare danno in qualche circostanza, a un certo livello di esposizione?“. In altre parole, concluse Blair, la Iarc afferma che glifosate “potrebbe” causare il cancro negli esseri umani, ma non afferma che probabilmente lo fa. Un buon senso espositivo che appare ora comprensibile in tutta la sua prudenza, alla luce di quegli studi rimasti in suo possesso, ma mai pubblicati. Cioè quelli cui alludeva forse la Senatrice Cattaneo.

Già, perché insieme ai Monsanto Papers e ai Portier Papers vanno posti anche i Blair Papers. Nonostante fosse chairman della Iarc, Blair avrebbe infatti omesso di pubblicare uno studio(1) epidemiologico sviluppato su oltre 54 mila operatori professionali americani alla caccia di tumori correlabili con gli agrofarmaci.

A carico di glifosate non sarebbe emersa alcuna correlazione col cancro, nemmeno con i linfomi non-Hodgkin che per la Iarc, invece e inspiegabilmente, ci sarebbero. Forse, se invece di lavorare su ricerche svolte su poche decine di individui, a volte solo sette, la Iarc avesse potuto (o fosse stata obbligata a, chissà?) prendere in considerazione anche tale studio, le sue conclusioni avrebbero dovuto essere necessariamente diverse, dando così l’addio a tutto il clamore politico, mediatico e pure legale che la vicenda glifosate ha assunto a causa di quella opinabile monografia.

Sui perché Blair abbia omesso di pubblicare quello studio prima che glifosate fosse valutato dalla Iarc resta il mistero. Sta di fatto che il lavoro del suo stesso istituto è stato pubblicato solo a dicembre 2017, quando ormai la bomba era scoppiata da due anni e mezzo.

Una bomba che continua nella sua deflagrazione, visto che perfino il CSST (Committee on Science, Space, and Technology del Senato degli Stati uniti), avrebbe spedito due lettere a Chirstopher P. Wild, direttore della Iarc, esigendo nella prima spiegazioni sulle strane manipolazioni dei report finali della Agenzia. In esso, cita il Commitee americano, “Anche gli studi che chiaramente conclusero ‘glifosate non è cancerogeno’ sono stati citati come ‘sufficiente’ prova di glifosate come cancerogeno negli animali. Nel capitolo di dieci pagine sugli studi sugli animali, ci sono dieci cambiamenti significativi quando si confronta la monografia finale Iarc e la versione di progetto. Questo capitolo di studi sugli animali è l’unica parte della valutazione di glifosate che è stata studiata. Il resto delle 92 pagine del report è coperta da un ordine di riservatezza. Il Comitato si chiede quanti cambiamenti significativi ed eliminazioni appaiono nelle altre pagine”. Nella seconda lettera si sollecita invece Wild a rendere disponibili i membri della Iarc per un’audizione sul tema, perché l’Agenzia, a quanto pare, su questo punto ha fatto orecchie da mercante. Per la cronaca, la Iarc ha appena aperto il concorso per il successore di Wild, il quale non porterà a termine il secondo quinquennato da direttore.

Alla luce di ciò, sorge quindi un dubbio: ma se le evidenze più solide sono per l’innocenza di glifosate, qualcuno si accorgerà mai che esse coincidono con le conclusioni degli studi emersi in occasione dei Monsanto Papers? Perché a quanto pare lo scandalo è scoppiato sulle relazioni con Monsanto, onestamente imbarazzanti, fra un vice direttore dell’Epa americana e alcuni scienziati. Ma nessuno si è preso la briga di valutarli quegli stramaledetti studi. Perché, sorpresa delle sorprese, forse bisognerebbe convenire oggi che quelle ricerche erano ben fatte, giungendo infatti alle medesime conclusioni dello studio prodotto proprio dall’istituto in cui lo stesso Blair lavora.

Conclusioni che parrebbero confermate anche dalla comparazione di due semplici dati, uno racchiuso in un rapporto del Jmpr Oms/Fao(2), l’altro derivante da un monitoraggio di 23 anni alla ricerca di glifosate nelle urine di mille cittadini statunitensi(3). In tale lasso di tempo, e su un tale numero di campioni prelevati, si sarebbe ottenuto un picco massimo di 0,547 µg/L di glifosate nelle urine. Glifosate viene infatti escreto per circa un terzo proprio con l’urina, mentre i restanti due terzi con le feci. Meno dell’1% viene metabolizzato, salvo poi essere escreto pure lui con le urine.

Ciò significa che un uomo di 70 chilogrammi che urinasse 0,547 µg/L di glifosate, ingerisce circa 40 nanogrammi di glifosate al giorno per chilo di peso corporeo. Negli studi riportati dal Jmpr la prima soglia a cui si sono ravvisati effetti cancerogeni sarebbe stata alla dose di un grammo al giorno per chilo di peso. Già a 500 milligrammi/chilo/giorno tali effetti non si rilevavano.

Le cavie, roditori, avrebbero cioè ricevuto ogni giorno, per due anni, una dose di 25 milioni di volte superiore a quella assunta dal cittadino americano a maggior escrezione, riportato nello studio su menzionato. E peraltro, l’incidenza tumorale ottenuta in laboratorio sarebbe stata a carico di emangiosarcomi in ragione dell’8% nei maschi e del 2% nelle femmine. Non un’ecatombe. Ecco: questa è una valutazione del rischio. E il rischio, a quanto pare, non c’è.

Per quanto si comprenda bene che lettere come quella della Senatrice Cattaneo creino la voglia di scatenarle contro i molteplici Kraken anti-pesticidi e anti-ogm, una sola conclusione può esser tratta sulla vicenda glifosate. Questo erbicida ha una sola colpa: è simbolo di Monsanto, degli ogm e dell’agricoltura intensiva. Ovvero fumo negli occhi di qualsiasi eco-bio-radical-chic che propugni crociate contro chimica e genetica, magari trovando nel passato soluzioni che non possono certo trovare spazio nel futuro, come per esempio le lavorazioni meccaniche dei terreni per contrastare le malerbe.

Sarà bene per tutti arrendersi infatti all’evidenza che tali lavorazioni sono quanto di più dannoso vi sia per il suolo in termini di sostanza organica, come pure di stabilità della struttura e di biodiversità. Il futuro guarda cioè in tutt’altra direzione, come per esempio la semina su sodo, grazie alla quale la sostanza organica del terreno può salire in pochi anni fino al 63% rispetto ai campi lavorati(4): una manna contro l’erosione dei suoli e contro il dissesto idrogeologico. Come pure una manna contro i gas serra, visto che tale pratica abbatte drasticamente i consumi di gasolio che le lavorazioni meccaniche implicano invece a fiumi. E in aria ci sono già concentrazioni di anidride carbonica superiori alle 400 parti per milione. Un record che dovrebbe indurre a più miti consigli perfino coloro che siano ossessionati da qualche microgrammo di “pesticidi” nelle acque e nei cibi. Perché la semina su sodo necessita di diserbanti, uno su tutti glifosate da applicare in pre-semina.

Ci se ne faccia quindi una ragione, perché non c’è niente di più sciocco che scatenare a comando il Kraken solo per farlo poi prendere a sberle da numeri ed evidenze scientifiche.

 

1)  Gabriella Andreotti et Al. (2017): “Glyphosate Use and Cancer Incidence in the Agricultural Health Study“. JNCI J Natl Cancer Inst. First published online November 9, 2017

2) Joint Fao/Who Meeting on Pesticide Residues (2004): “Evaluation 2004 – Part II – Toxicological”.

3) Paul J. Mills, Izabela Kania–Korwel, John Fagan et al (2017): “Excretion of the Herbicide Glyphosate in Older Adults Between 1993 and 2016”. JAMA. 2017; 318(16):1610–1611

4) Lodovico Alfieri (2013): “Agricoltura conservativa”. Università degli Studi di Milano – DiSAA

 

Disclaimer 1: nessun commento è ammesso. La spiegazione qui

Disclaimer 2: i bannerini pubblicitari che possono apparire nel blog sono di wordpress. Dato che adopero una versione gratuita, loro sperano che io gliela paghi mettendomi pubblicità. Ignorate ogni suggerimento a diete, prodotti o cure miracolose: sono contrarie ai contenuti del mio blog e pertanto me ne dissocio apertamente.

 

Avidità, bugie e glifosate: i “Portier Papers” (e molto altro)

Fiumi di denaro dietro le accuse a glifosate di causare il cancro

David Zaruk, alias Risk-Monger, ovvero la declinazione sui rischi del famigerato “fear mongering”, traducibile come l’attività di seminare news allarmanti per creare paura nelle persone e poi sfruttarla per fini tutt’altro che nobili.

David Zaruk, il Risk Monger, fa l’opposto: combatte il fear mongering. Un comunicatore dal curriculum interessante.

Dal 2000 Zaruk è specialista per la Comunità europea per la comunicazione sui rischi e sulla scienza. Attivo negli eventi politici dell’Ue, dai regolamenti REACH e SCALE alla direttiva sui pesticidi, dalle questioni legate alla scienza per come viene percepita dalla società, all’uso del “principio di precauzione“.

È stato anche membro del team che ha istituito GreenFacts, finalizzato a incoraggiare un più ampio utilizzo dei processi decisionali basati sulle evidenze scientifiche nella Ue in materia di salute ambientale.

David è inoltre professore aggiunto presso l’Université Saint-Louis Brussel e KUL Brussel (Odise), dove ha tenuto lezioni su Risk Communications, lobbying e comunicazione aziendale. Inoltre fa formazione e tiene conferenze, specialmente sulla percezione del Risk Management.

Quella che segue è la traduzione integrale dall’inglese del suo post in cui spiega i retroscena legati alla faccenda glifosate, focalizzando soprattutto sui cosiddetti “Portier Papers“, ovvero le rivelazioni imbarazzanti emerse su Christopher Portier, colui il quale, sebbene attivista di un’associazione ecologista anti-pesticidi – e non sapesse alcunché di glifosate, per sua stessa ammissione – è riuscito a farsi nominare Presidente della Commissione dello Iarc che ha deciso di mettere sotto indagine glifosate. Ha potuto cioè influenzare il gruppo di lavoro dei 17 esperti dell’Agenzia, salvo poi firmare un contratto come consulente di parte con uno studio legale che aveva già pronta una Class Action contro Monsanto.

La cifra pattuita? 160 mila dollari. Giusto per capire che i conflitti di interessi sono spesso percepiti a senso unico.

Dove sta l’inghippo? Portier l’avrebbe firmato la medesima settimana in cui è stata resa pubblica la Monografia dello Iarc che dichiarava glifosate “probabile cancerogeno“.

In altre parole, Portier è ora sospettato di qualcosa di simile a quello che in Borsa viene definito “Insider trading“, ovvero la possibilità di lucrare personalmente in Borsa sapendo già (e influenzando pure) gli andamenti dei titoli quotati.

I “Portier Papers” giungono quindi dopo i “Monsanto Papers“, ove si accusava la Casa di St. Louis di influenzare il lavoro di alcuni scienziati. Nel mezzo sono emersi quindi gli “Aaron Blair Papers“, ovvero gli studi rimasti nel cassetto dell’epidemiologo del Cancer Research Center americano anziché essere pubblicati e resi in tal modo valutabili dallo Iarc.

Blair sarebbe stato anche Chairman del gruppo di lavoro Iarc che ha giudicato glifosate cancerogeno (linfomi non-Hodgkin) e nonostante ciò, per motivi ancora tutti da chiarire, ha taciuto dell’esistenza di lavori epidemiologici validi e robusti che deponevano a favore dell’innocenza dell’erbicida. Lavori che quindi il gruppo Iarc non ha potuto nemmeno vedere.

E se poi ancora non bastasse tutto ciò per indignarsi professionalmente e umanamente, giunge anche una notizia su Reuters che scoperchia ulteriormente un pentolone che diventa sempre più imbarazzante ogni volta che qualcuno vi giri dentro il mestolo dell’indagine giornalistica: circa dieci passaggi dei draft-report di Iarc – che non confermavano il legame glifosate-tumori – sono stati modificati da qualche membro del gruppo di lavoro dell’Agenzia facendoli volgere a conclusioni diverse, ovvero che tali legami ci sarebbero. Modifiche che hanno cambiato, come detto, una decina di passaggi fondamentali per il giudizio finale.

Non si sa ancora da chi siano state operate tale modifiche prive di alcuna giustificazione. Ovviamente, gli “esperti” dello Iarc, interrogati da Reuters sul tema, non rispondono. Forse perché sentono che il cappio della verità si sta stringendo intorno anche al loro di collo, oltre che a quello di Portier?
Di certo, più passa il tempo e più evidenze emergono, quel Gruppo appare sempre meno attendibile, svelandosi al contrario come un team in cui hanno potuto operare manipolatori a vario titolo e grado di interesse. Una situazione indegna del ruolo che è stato loro assegnato in un’Agenzia prestigiosa come lo Iarc.

Il tutto, a ulteriore dimostrazione del clima decisamente opaco, sospetto e avvelenato che si è agitato su glifosate, tanto da concludere che la monografia attuale dello Iarc sia gravata da così tanti scandali e interessi, sia stato così influenzato in modo torbido e sottile, da non essere più considerabile valido da qualsiasi punto di vista. Quella monografia va RITIRATA. Per l’onorabilità dell’Oms innanzitutto, ancor prima che per l’equità di giudizio su glifosate. Ovvero la grande assente in tutto il groviglio di intrallazzi che su questo erbicida si agitano da anni.

Urge cioè rifarla da capo, magari componendo un gruppo di lavoro diverso da quello precedente. Possibilmente al di sopra di ogni sospetto, non infiltrato cioè da alcuna longa manus né di aziende, né di associazioni ambientaliste dichiaratamente schierate contro l’oggetto della valutazione.

Soprattutto, dovrebbe essere riprodotta analizzando anche tutti quei lavori tenuti nascosti al turno precedente, eliminando quelli palesemente inconsistenti che invece avrebbero condannato l’erbicida. Perché uno studio epidemiologico basato su sette persone (Hardell & Eriksson, 1999), quattro di qua e tre di là, dovrebbe essere utilizzato come succedaneo della carta igienica, non come lavoro scientifico atto a valutare la cancerogenicità di una molecola.

Ed ecco ora il link dove si riporta il controinterrogatorio di Portier in lingua inglese

 

Di seguito: la traduzione integrale dal blog di David Zaruk, alias Risk Monger

Si tratta del “racconto” di come uno scienziato, Christopher Portier, demolisca la reputazione della scienza, dei consigli scientifici e di un’agenzia dell’OMS. Invita a mettere in discussione il finanziamento, la trasparenza e la motivazione degli attivisti anti-glifosate, il ruolo dello IARC nelle pratiche legali anti-corporative americane e la qualità degli scienziati che si occupano di questo. Questa storia dimostra come l’intera campagna contro il glifosate sia stata costruita sull’avidità e sull’inganno.

Questo post si basa sulle deposizioni di Christopher Portier alle udienze legali in materia di responsabilità legate ai casi contro il Roundup di Monsanto (comunemente noti come “Monsanto Papers”). Portier è stato il consulente speciale esterno del gruppo di lavoro dello IARC che ha elaborato la conclusione che il “glifosate è probabilmente cancerogeno”. Questa storia evidenzierà le seguenti informazioni:

  • Durante la stessa settimana in cui lo IARC pubblicò il suo parere sulla cancerogenicità del glifosate, Christopher Portier firmò un vantaggioso contratto come consulente di due studi legali che citano in giudizio Monsanto per conto delle vittime di cancro (si dice) dovuto al glifosate.
  • Questo contratto ha fruttato a Portier almeno 160.000 dollari (fino al giugno 2017) per iniziative preparatorie come consulente legale (in cui non rientrano i costi delle trasferte).
  • Questo contratto conteneva una clausola di riservatezza che limitava Portier dal poter dichiarare ufficialmente la sua posizione. Oltre a ciò, Portier ha addirittura dichiarato che non è stato pagato un centesimo per il lavoro che ha fatto sul glifosate.
  • È chiaro dalle e-mail fornite nella deposizione, che il ruolo di Portier sia stato cruciale per il movimento che supporta la richiesta di divieto dell’uso del glifosate. Portier promise allo IARC di proteggerne la reputazione, i risultati della monografia e di gestire le reazioni contrarie alle conclusioni IARC di BfR e EFSA.
  • Portier ha ammesso nella deposizione che prima dei meeting IARC sul glifosate, dove era l’unico consulente esperto esterno, non aveva mai lavorato e non aveva avuto esperienza con il glifosate stesso.

Sono ancora troppo scioccato per capire da dove cominciare! Forse da un po’ di storia.

Background:

Glifosate è un erbicida “leggermente tossico” ampiamente utilizzato dagli agricoltori dell’UE per il controllo delle malerbe; il suo uso permette l’utilizzo di pratiche agricole conservative che proteggono e migliorano la salute del suolo. Questa molecola è utilizzata in modo efficace da oltre 40 anni e ancora oggi è una risposta economica e sostenibile ai bisogni degli agricoltori. Fuori dall’Europa, è utilizzato anche in combinazione con semi modificati resistenti agli erbicidi (più noto come base per il Roundup di Monsanto utilizzato con i semi di Roundup-Ready).

Nel marzo 2015, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) ha pubblicato le sue conclusioni, giudicando che il glifosate sia probabilmente cancerogeno. Ciò ha scatenato un’ondata di campagne tra gli attivisti ambientalisti, le ONG anti-OGM e l’industria alimentare a favore di un divieto del glifosate. Tutti gli altri organi scientifici e gli istituti di ricerca hanno respinto la conclusione IARC, senza eccezioni. Il voto sul rinnovo è atteso da due anni da parte della Commissione Europea, ma fino ad ora è stato bloccato dagli Stati membri. È probabile che anche l’ultima votazione prevista per il prossimo mese fallirà e il glifosate sarà eliminato dai mercati europei.

Christopher Portier ha presieduto una commissione IARC nel 2014 che ha proposto glifosate come sostanza da studiare dal gruppo di lavoro addetto alle monografie, di cui Portier era l’unico specialista invitato. Sono stato sorpreso che Portier facesse parte di questo panel dello IARC, data la sua affiliazione con Environmental Defence Fund, un’organizzazione americana che esegue campagne contro gli antiparassitari dagli anni ’60. Da due anni stavo documentando come lo IARC e Portier in particolare, avessero agito mossi da un fervore attivista per spingere un chiaro programma anti-glifosate e anti-Monsanto (avendo scritto più di 20 post su questo scandalo). Portier fa parte di quell’ondata di attivisti anti-OMG americani che ho definito “carpetbagger”, che hanno portato fondi, personale e strategie da Washington al terreno di lobbying più fertile di Bruxelles.

Mungere Monsanto

All’epoca in cui lo IARC ha pubblicato le sue conclusioni sul glifosate, Christopher Portier si è unito a due studi legali (Lundy, Lundy, Soleau & South e Weitz & Luxenberg) come consulente. Aveva anche avuto contatti con il signor Lundy due mesi prima di aderire alla riunione del gruppo di lavoro sul glifosate. Come consulente, l’onorario di Portier, secondo il rapporto presentato prima della deposizione, è di 450 USD/ora. A giugno 2017, Portier aveva fatturato Lundy, Lundy, Soleau & South 160.000 dollari per la preparazione iniziale dei documenti.

Il suo ruolo era quello di leggere i documenti e consigliare gli avvocati sulle questioni scientifiche poiché le due società hanno preparato ricorsi contro Monsanto. Il fatto che Lundy, Soleau & South e Weitz & Luxenberg stavano progettando una strategia di cause a Monsanto prima che lo IARC tenesse la riunione del gruppo di lavoro sul glifosate e stavano allineando il loro “dream team”, non dovrebbe sorprendere: gli avvocati che gestiscono le class action sono una razza diversa di opportunisti.

Ma Portier non pensava come uno scienziato quando aveva previsto questo schema di pensionamento. Si può facilmente immaginare che una lunga serie di cause protratte contro Monsanto possa essere molto redditizia per un buon scienziato. Quello che ho trovato straordinario, così come gli avvocati, è quanto il Dott. Portier sia stato meticoloso nella sua ricerca. Ha fatturato allo studio legale 19 ore di lavoro per leggere un memo a due pagine.

19 ore per leggere due pagine (a 450 USD / ora).

Ciò suggerisce che lo studio legale avesse abbastanza denaro cash, pratiche contabili molto indulgenti o che stesse permettendo a Portier di fatturare altri compensi che avrebbe preferito tenere fuori dai libri contabili.

Questo eccesso di fatturazione potrebbe spiegare il vivace stile di vita di Portier, che visita capitali da Auckland a Ottawa, ovunque ci siano meeting per valutare il divieto del glifosate. Non penso che lo facesse per bontà d’animo.

Ora, Risk Monger non è invidioso (ha abbastanza soldi per vivere bene e abbastanza tempo libero per il blog), ma non posso fare a meno di notare l’ipocrisia. Né possono farlo gli avvocati della difesa. C’è uno scienziato pagato profumatamente per leggere alcuni documenti (o memo) che contemporaneamente continua a supportare gli attivisti che criticano i ricercatori finanziati dall’industria o che potrebbero prendere decisioni spinti da “motivazioni economiche“.

Il lato positivo è che quando l’industria finanzia la ricerca, di solito rivela i propri finanziamenti. Mi chiedo se il dottor Portier sia altrettanto trasparente su chi paga il suo affitto?

 

Portier: nessuna trasparenza

Il contratto di Portier con lo studio legale prevede, come molti rapporti giuridici, una tassativa riservatezza. Una sorta di privilegio “avvocato-cliente”, ma per scienziati. In altre parole, Chris poteva essere pagato fino a quando non avesse dichiarato di agire come consulente legale.

A Portier non era pertanto consentito – vincolato dal contratto – di essere trasparente. Non poteva dire ai media, alle riviste, ad altri esperti chi pagava il suo affitto. Infatti, se qualcuno avesse cercato di costringere il buon scienziato a divulgare le sue fonti di finanziamento, Portier avrebbe potuto chiedere l’intervento dei suoi avvocati. Ora chiamatemi ingenuo, ma pensavo che tale tipo di protezione fosse data solo ai contabili mafiosi.

Durante la deposizione, l’avvocato della difesa ha passato in rassegna ogni riunione, ogni carta, lettera o attività e Portier ha ammesso, in ogni punto, di non aver identificato il conflitto di interesse o riconosciuto gli studi legali. Ma continua ad attaccare Monsanto su questo.

Così Portier viaggia nel mondo, incontra il Commissario Europeo per la Sanità, si reca all’Agenzia Europea per le sostanze chimiche per un the, consiglia il Bundestag tedesco e si incontra con quasi tutti i ministri della salute o dell’ambiente in tutta l’Unione Europea che combattono la battaglia per abolire il glifosate, mentre allo stesso tempo mette sotto torchio Monsanto. Ma nella parte più nascosta della sua mente ci sarebbe dovuta essere una paura latente e fastidiosa che alla fine qualcuno gli avrebbe chiesto, durante una conversazione,: “Dimmi, Chris, chi finanzia le tue attività?“.

Al momento della deposizione, quando tutto fu finalmente reso pubblico, Portier avrebbe dovuto essere stanco di portare questo fardello.

Al contrario, Christopher Portier sembrava a suo agio nel mentire sulle sue entrate, arricchendo la storia con esagerazioni. Avrebbe raccontato ad un giornalista che “nessuno gli aveva pagato un centesimo” e che “non aveva alcun conflitto di interessi” quando invece aveva ricevuto almeno 160.000 dollari per le sue consulenze. “Sul serio Chris? Hai davvero usato quella parola quando in realtà sei stato completamente “comprato”?

Nella difesa di Portier, ci potrebbe essere una questione legata semplicemente all’ignoranza; Portier potrebbe essere un’altra di quelle persone che pensano che il “conflitto di interesse” accada solo a malvagi che si occupano di corporate. Nel CV che ha depositato nella sua relazione, Portier non ha menzionato il suo lavoro per l’Environmental Defense Fund. Anche durante la deposizione ha sbeffeggiato le persone che avevano pensato che il suo lavoro per EDF avrebbe potuto rappresentare un conflitto di interessi.

Dopo la pubblicazione della sua deposizione, i suoi committenti hanno dovuto fare marcia indietro. Quando si è presentato di fronte al Parlamento Europeo ieri, Portier ha ammesso per chi stava lavorando.

La nuova manna Anti-Corporate

C’è stata molta attenzione su come l’industria influenzi la politica, ma scarsa su come alcuni studi legali che si occupano di class action stiano usando prove delicate (di solito provenienti dallo IARC) per organizzare contenziosi su larga scala contro le grandi corporation.

Durante il periodo delle cause contro le multinazionali del tabacco, è emersa una certa razza di avvocato: quello che identifica le vittime e negozia rapidi accordi. I guadagni sono cresciuti, o grazie a grandi vittorie o grazie ai patteggiamenti. Gli avvocati attirano le vittime con politiche a zero costi e il pagamento delle spese legali solo quando si ottiene un indennizzo (a volte fino al 50%).

Ma una volta che l’industria del tabacco ha negoziato una tregua con il governo americano (in cambio di un po’ di onestà sugli effetti del fumo), questi avvocati dovevano trovare nuovi argomenti e nuove vittime per fare cassa. Ogni monografia pubblicata dallo IARC rappresenta un nuovo potenziale settore dell’industria che nutre questi serpenti.

Questi studi legali si rivolgono anche alle campagne e ai dibattiti politici per alimentare l’indignazione pubblica nei confronti delle vittime di presunti illeciti aziendali, gestiscono in maniera efficace siti di comunicazione e nel caso di Weitz & Luxenberg (tra i principali finanziatori di Portier), lavorano con ONG, quali US Right to Know.

Questo è ciò che chiamo il “Principio di Oreskes”. Naomi Oreskes ha organizzato nel 2012 una conferenza con l’“Union of Concerned Scientists”, di cui fanno parte alcuni avvocati piuttosto scrupolosi, rappresentanti di ONG e accademici. Questa strategia sconvolgente cerca di mettere le aziende sotto la continua pressione di contenziosi fino a quando cambiano strategia o falliscono. Nel 2012, hanno trovato il modo di citare in giudizio le compagnie petrolifere come ExxonMobil in relazione al cambiamento climatico e, alcuni anni dopo, l’avvocato generale di New York ha citato la Exxon (e i suoi consulenti) a comparire per una possibile causa per avere ingannato gli investitori sui potenziali effetti del cambiamento climatico.

L’obiettivo principale del Principio Oreskes è quello di condurre campagne emotive, prima di comparire in tribunale, creare una tale indignazione pubblica che nessuna giuria sarebbe più in grado di essere oggettiva o di separare i fatti dalla campagna di denigrazione. Manipolare la percezione del pubblico, creare paura o indignazione collaborando con attivisti, guru e ONG, trovare un capro espiatorio e fare causa a chiunque. Suona familiare?

Questa strategia è messa in scena non solo con Monsanto: Johnson & Johnson sta attualmente combattendo contro oltre 4500 cause (con una recente sentenza di dover pagare 417 milioni di USD) dovute al sospetto legame tra cancro e polvere di talco (tratto da un’altra infelice monografia IARC).

Ci sono diversi altri esempi di class action trainate dai risultati dello IARC (da alcuni solventi industriali ai gas di scarico diesel). Con ogni monografia basata sui pericoli, IARC sta riempendo le tasche di avvocati senza scrupoli che estorcono denaro alle vittime e ingannano giurie scientificamente impreparate. Basta inserire un consulente legale proveniente dal gruppo di lavoro monografico originale per aggiungere credibilità e aspettare che i soldi comincino ad arrivare.

Un problema che ho con questo sistema (in realtà, ho decine di problemi con questo modello) è che gli studi legali (in particolare la razza “class action”) non sono affatto trasparenti. Sappiamo, ad esempio, che Weitz & Luxenberg sta lavorando con USRTK, lo ammettono, ma non sappiamo quanto pagano la ONG per assoggettare i potenziali giurati o se stanno finanziando altre ONG. Quanto questi studi legali sostengono gruppi di attivisti?

Ci si chiede quanto IARC sia a conoscenza di ciò, quanto giochino con queste cause e se gli scienziati del gruppo di lavoro siano consapevoli del potenziale reddito che avrebbero a disposizione come “consulenti di causa”. Chiaramente Portier lo sapeva e avrebbe dovuto solo aspettare che l’inchiostro della monografia si fosse asciugato per poter incassare il suo guadagno.

Portier, in una e-mail agli amministratori di IARC, ha preso su di sé il fardello di salvare eroicamente la monografia IARC sul glifosate e di preservare la reputazione dell’Istituto in qualità di leader nella lotta per modificare il processo di revisione delle sostanze. Nel messaggio pubblicato qui, Portier ha promesso con vigore ai suoi amici dello IARC di essere il difensore dell’agenzia! Ciò significa che Portier è stato il principale difensore sia dello IARC sia della decisione sul glifosate.

Allora cosa significherebbe il disonore di Portier per la monografia IARC? Se la monografia fosse ritirata, cosa succederebbe a tutte le azioni legali contro Monsanto? Cosa accadrebbe a tutti gli “amabili” compensi per consulenza?

Non credo che Portier abbia lavorato così instancabilmente negli ultimi due anni per la necessità di difendere l’esattezza della scienza o la preoccupazione per la salute pubblica, ma piuttosto, se lo IARC fosse costretto a ritirare questa monografia:

  • le migliaia di cause depositate contro Monsanto andrebbero perdute,
  • il contratto di consulenza lucrativo di Portier con questi due studi legali di diritto sarebbe perso
  • la sua reputazione scientifica sarebbe persa

Così, per avidità personale, Christopher Portier ha condotto un attacco di due anni contro l’EFSA e il BfR per minare la loro credibilità scientifica riguardo al glifosate, visitando capitali europee, interferendo in attività di agenzie di regolamentazione e vivendo una vita nel completo inganno!

Ma la scienza non è questo. Glifosate è risultato non cancerogeno secondo ogni standard di valutazione dei rischi. Nessun’altra agenzia ha sostenuto la controversa conclusione di IARC. Non una!

Ora arriva la parte veramente tremenda di questa terribile storia.

Portier è anche un esperto?

Prima di essere salito alla ribalta come consulente speciale esperto della monografia 112 sul glifosate dello IARC, Christopher Portier ha ammesso, nella sua deposizione, di non aver mai lavorato su questa molecola, di non avere mai considerato nessuna delle prove sulla sua cancerogenicità. È un esperto di statistica che ha lavorato in passato su un’ampia gamma di argomenti, tra cui i telefoni cellulari.

Molti si chiedono innanzitutto per quale motivo lo IARC abbia invitato Portier a esser l’unico consulente esperto se non ha mai lavorato, non ha mai pubblicato o non è ha mai avuto nessun coinvolgimento nella comunità tossicologica che si occupa di pesticidi in generale e del glifosate in particolare. Beh, chiunque abbia esaminato quella piccola agenzia di Lione capirà che lo IARC non è molto scientifico, ma più un club di scienziati attivisti e di interessi speciali. Kurt Straif e Kate Guyton conoscevano Chris molto bene: la capacità scientifica reale non importava!

Ancora più interessante è il motivo per cui Portier ha deciso di essere d’aiuto in questa funzione vitale su ciò che sapeva sarebbe stata una monografia controversa dato che non aveva un backgound accademico credibile, chiaramente un conflitto di interessi (lavorando per un’organizzazione anti-pesticidi) e nessun vero motivo per essere coinvolto. Ha accettato questo compito per via del contratto vantaggioso che avrebbe ottenuto come consulente degli studi legali che sapeva già in anticipo avrebbero avuto intenzione di fare causa a Monsanto? Per via del suo odio per la scienza a servizio dell’industria e delle cospirazioni di Monsanto che erano già state pubblicate? Era suo desiderio cambiare l’approccio alla valutazione dei rischi (con il glifosate come rampa di lancio)? Probabilmente tutte queste ragioni insieme, ma credo che il suo operato dopo la pubblicazione IARC sia stato ampiamente guidato dall’interesse personale e dall’avidità. Una cosa è chiara, il suo ragionamento non è stato guidato da alcun desiderio di far avanzare la scienza o assicurare una sana politica basata sulla scienza!

Se Portier avesse lavorato per Monsanto …

Christopher Portier ha agito per un chiaro interesse personale, non ha rivelato da chi era pagato per fare lobby ai più alti livelli, ha uniformato i suoi interessi alla convinzione che glifosate fosse cancerogeno e ha portato le persone a credere che fosse un esperto di glifosate. Le sue azioni agguerrite hanno tolto fiducia nella scienza, nei regolamenti e nell’agricoltura convenzionale. Si è schierato con un esercito di lobbyisti e attivisti che per interessi personali stanno incolpando Monsanto con ciò che Christopher ha ammesso nella sua deposizione di aver fatto.

La scienza non è dalla parte di Portier … per niente. Né la verità. Né le norme di base dell’umana decenza.

Domani terrò una conferenza e vedrò il mio cardiologo. Questo blog può avere un po’ di diffusione, forse una ripresa o due tra chi concorda che la scienza debba essere rispettata. I lobbysti del “naturale” lo ignorano in gran parte e continuano ad attaccare Monsanto (potrebbero dire, con un tono machiavellico, che Chris ha dovuto farlo per mostrare alla gente quanto sia terribile Monsanto). Gli ingegnosi abili scrittori nel movimento possono addirittura elevare Portier al livello messianico perché ho usato aggettivi poco rispettosi (e sarò attaccato da tutte quelle persone pagate per creare odio). Entro la prossima settimana, questo post sarà dimenticato e scriverò qualcosa di simile sui prodotti chimici considerati come interferenti endocrini.

Come usciamo da questa narrazione incredibilmente stupida? Come possiamo far aprire gli occhi e far capire che l’intero movimento per vietare il glifosate, danneggiare gli agricoltori e influenzare i consumatori è basato su avidità e bugie? Come portiamo gli enti di controllo a mostrare il proprio coraggio e fare il proprio lavoro?

Non posso rispondere a questo… posso solo sperare che anche altri inizino a farsi queste domande.

Commento personale (di Zaruk)

Molti seguaci di Risk-Monger avranno notato le offese che ho ricevuto nelle ultime settimane, in particolare nei media belgi e francesi, legati alla campagna anti-glifosate, con affermazioni infondate su di me come poster-boy della lobby di Monsanto. Ricorderete come ho iniziato le mie critiche sulla monografia 112 di IARC oltre 30 mesi fa, appena dopo la pubblicazione dei loro risultati sul glifosate, con i media principali che pubblicano lo scandalo dello IARCgate solo un anno dopo e solo dopo che gli attivisti sono riusciti a far chiudere la mia vecchia pagina blog a causa della mia difesa del glifosate. Vedrete gli attacchi quotidiani su di me sui social media (ieri circa 300 insulti sul mio account twitter) e vi stupirete di quanto mi senta scagionato leggendo le scioccanti deposizioni di Portier.

Mi sento piuttosto triste.

Triste per ciò che questi attivisti hanno fatto alla reputazione della scienza.

Triste per la perdita di fiducia dell’opinione pubblica nelle agenzie che regolano i prodotti fitosanitari.

Triste per come gli agricoltori siano stati lasciati senza voce, persi nel volume degli attacchi opportunistici da parte della lobby dell’industria alimentare biologica.

Triste che la deposizione di Portier è apparsa da una settimana e io sia la prima persona a sollevare l’attenzione su di essa.

Triste che i regolatori a Bruxelles vedono queste informazioni, ma continuano a muoversi in direzione dell’eliminazione del glifosate dal mercato, per paura del feroce mobbing che questa lobby ha creato in ogni parte dell’Europa.

Mi vergogno che personaggi come Carey Gillam dell’USRTK, Martin Pigeon di CEO e Bart Staes del Green Party, erano ieri al Parlamento Europeo condannando Monsanto e mettendo in dubbio la sicurezza del glifosate quando conoscevano benissimo le bugie e l’inganno del lavoro disorganizzato di IARC e di Christopher Portier (seduto accanto a loro), su cui si appoggiavano le loro intere campagne.

È triste che oggi s’ignori il fatto che l’intero attacco a glifosate si basi su menzogne ​​e avidità e senza fatti scientifici, e domani, Carey, Martin, Bart e migliaia di altri lobbisti attivi e ben pagati torneranno e metteranno tutto il loro odio e l’energia per vietare un prodotto agricolo che dà benefici, non per ragioni ambientali o per la salute pubblica, ma semplicemente per vincere… per vincere una campagna cinica finanziata da un settore che sta costruendo il proprio mercato creando paura nei consumatori.

È triste pensare che domani tornerò, invano, a cercare di convincere la gente a vedere queste menzogne​.

Suppongo che l’integrità non paghi l’affitto.

**************************************

Di seguito, la traduzione dell’interrogatorio a Christopher Portier: non c’è bisogno di commentare, l’ha già fatto David Zaruk. A noi basta leggere.

Pagina 75

D. Lei ha lavorato per più di sette mesi come consulente pagato per l’avvocato dei ricorrenti in questa controversia, è corretto?
R. È corretto.
D. Lei è stato ingaggiato come consulente privato per l’avvocato dei ricorrenti nove giorni — entro nove giorni dalla pubblicazione dell’articolo di The Lancet che annunciava la classificazione 2A del glifosato della IARC, è corretto?
R. Mi dice dov’è la data?
D. Possiamo mostrargliela.
R. Eccola qui, 29 marzo del 2015.
Sembra che sia così.

(Commento di David Zaruk) Sembra una sorta di porta girevole: prima un lavoro per classificare una sostanza, poi un lavoro per perseguire le aziende.

Pagina 96

… Diceva che è avvenuto quattro mesi, credo, più o meno, dopo che sono stato pagato dall’avvocato dei ricorrenti per giudicare la valutazione dei rischi dell’EPA, è corretto.
D. Ed entro quella data, di fatto, lei ha inviato tre fatture separate all’avvocato dei ricorrenti per il suo lavoro nella controversia sul glifosato, è corretto?

AVV. GREENWALD: Obiezione, forma.

R. Mi dice di nuovo in che data?
D. Ottobre del 2016?
R. Ottobre 2016.
Sì, ho inviato tre fatture.
D. Nel giugno 2017, che è l’ultima fattura che abbiamo, lei ha addebitato all’avvocato dei ricorrenti qualcosa più di USD 160.000 per il suo lavoro nella preparazione delle analisi del glifosato, è corretto?

AVV. GREENWALD: Obiezione, forma.

R. Non ho idea di quale sia il totale, ma può essere. È una somma ingente.
D. E da allora — come ho detto l’ultima fattura che abbiamo è datata, credo che sia del 18 giugno 2017, per il periodo — fino al 13 giugno 2017.

(Commento di David Zaruk) Non ha idea di quale sia il totale??? Io di un accredito di 160.000 dollari sul mio conto me ne accorgerei!

Pagina 99

…. Una release del sottogruppo Clark dell’EPA sul glifosato che è stata pubblicata, credo, nel marzo o giugno o aprile del 2016, mentre i commenti fatti in seguito quell’anno erano sul progetto di valutazione dei rischi dell’EPA.
D. Torniamo all’e-mail del 30 giugno 2016.
Lei ha detto che era un riesame di un documento di due pagine?
R. Fattura del 30 giugno —
D. 2016.
R. È un documento tecnico di due o tre pagine, sì.
D. Lei ha addebitato all’avvocato dei ricorrenti 19 ore per il riesame di quel documento, è corretto?
R. Sì.
D. Dunque lei ha impiegato 19 ore per riesaminare un documento di due pagine?

AVV. GREENWALD: Obiezione sulla forma.

R. Se lei ha il documento possiamo dare un’occhiata al tempo. Ma è un documento molto tecnico. Richiede di tornare indietro e analizzare la sperimentazione sugli animali,

(Commento di David Zaruk) Mi chiedo quanto fatturerà Chris per leggere il mio blog…

Pagina 132

D. Nella sua presentazione visuale al Ramazzini Days, nella conclusione lei afferma che — lei parla di attività economicamente motivate che hanno influenzato le ricerche scientifiche sul glifosato, è corretto?

AVV. GREENWALD: Obiezione, forma.

R. Qualche volta dovrei prestare più attenzione a quel che scrivono i miei coautori. È quello che dice.
D. Lei non rivela in alcun punto di questa presentazione visuale il suo ruolo di esperto pagato per l’avvocato dei ricorrenti nella controversia di diritto privato contro Monsanto, vero?

AVV. GREENWALD: Obiezione, forma.

R. Non specificamente. Mi presento come consulente sulla salute dell’ambiente.
D. Di nuovo, solo perché sia chiaro, Lei non rivela il fatto che era un consulente pagato dall’avvocato dei ricorrenti nella controversia di diritto privato contro Monsanto?
R. È corretto.

(Commento di David Zaruk) Ma come osano questi scienziati essere motivati da interessi economici?

Pagina 82

D. Il 29 marzo 2015 lei ha convenuto che non avrebbe rivelato il suo lavoro per l’avvocato dei ricorrenti a mass media, riviste specializzate, pubblicazioni professionali, pubblico e altri presunti esperti, è corretto?
R. Corretto.
D. Lei ha convenuto di incaricare l’avvocato dei ricorrenti di rappresentarla se qualcuno avesse cercato di costringerla a rivelare questa informazione, è corretto?
R. Credo che sia quello che dice la parte C.
D. E lei ha iniziato a fatturare all’avvocato dei ricorrenti il suo tempo il — e questa è la prima fattura allegata — 17 giugno 2015, è corretto?
R. Sì.
D. Lei ha avuto una riunione con il sig. Lundy il 17 giugno 2015, e poi un secondo meeting con il sig. Lundy e l’avv. Greenwald il 19 giugno 2015, è corretto?
R. È corretto.
D. Il 19 ottobre 2015 lei ha inviato all’avvocato dei ricorrenti una fattura per il suo lavoro per loro conto da giugno 2015 a ottobre 2015, è corretto?

Pagina 83

R. Sì.
D. E lei ha lavorato come consulente pagato dall’avvocato dei ricorrenti per tutto il tempo in cui lei ha discusso del glifosato con gli organi di regolamentazione negli Stati Uniti e in Europa, è corretto?

(Commento di David Zaruk) Mi chiedo cosa pensa di tutto ciò San Martino della Trasparenza [Martin Pigeon, del Corporate Europe Observatory]. Sono certo che cercherà di raccontarcela!

D. Lei inizia la sua deposizione all’EPA nell’ottobre 2016 con un disclaimer, è corretto?
R. Questo lavoro era stato fatto con una mia attività di ricerca personale e nel mio tempo libero. Sì.
D. E Lei afferma — Lei ha detto all’EPA, e a chiunque altro stava assistendo alla sua deposizione, che non aveva, cito, “ricevuto alcun rimborso per alcuno di questi

Pagina 89

… commenti, è corretto?
R. È corretto.
D. E durante lo stesso periodo di tempo, lei aveva dichiarato pubblicamente, cito, nessuno mi ha pagato un centesimo per fare ciò che sto facendo con il glifosato. Non ho alcun tipo di conflitto, è corretto?

AVV. GREENWALD: Obiezione, non è ciò che dice questo.

D. Diamo un’occhiata a questo documento.

(Commento di David Zaruk) Ci sono volute quattro pagine all’avvocato della difesa per convincere Chris che aveva mentito con sfacciataggine.

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Di seguito, la traduzione dell’inserzione pubblicitaria a pagamento dello studio legale Weitz & Luxemberg:

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[ Ritaglio di giornale ]

 

L’inserzione dello studio legale Weitz & Luxemberg P.C.

 

<<Attenzione!

Applicatori di erbicidi e agricoltori!

Vi hanno diagnosticato un cancro, dopo che siete stati esposti all’erbicida glifosate?

Se sì, lo studio legale Weitz & Luxemberg P.C. è interessata a parlare con voi immediatamente, perché potreste essere candidabili a una compensazione finanziaria.

L’Organizzazione mondiale della Sanità ha recentemente riconosciuto che glifosate, l’ingrediente attivo dell’erbicida Roundup, ha il potenziale di causare il cancro negli Umani. Altri erbicidi che contengono glifosate sono Rodeo®, Aquanet® e Aquastar®.

Glifosate è stato usato nella coltivazione di mais, soia, barbabietola da zucchero, erba medica, cotone, grano, sorgo, colza e molte altre colture.

In circa tre decadi Weitz & Luxemberg P.C. ha rappresentato migliaia di individui danneggiati dall’esposizione a prodotti tossici e sono desiderosi di parlare con voi circa il vostro possibile caso. Per un consulto confidenziale e gratis chiamate al xxxxxxxx, o visitate il nostro sito yyyyyyyy

(Caccia alle vittime del cancro: in caratteri minuscoli: “Se non viene concesso un indennizzo, non si addebitano né spese né onorari!”)

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Gli imbonitori dei circhi, del resto, solevano dire:

Venghino venghino! Siòr siòri! Più gente c’è, più bestie di vedono!

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Disclaimer 2: i bannerini pubblicitari che possono apparire nel blog sono di wordpress. Dato che adopero una versione gratuita, loro sperano che io gliela paghi mettendomi pubblicità. Ignorate ogni suggerimento a diete, prodotti o cure miracolose: sono contrarie ai contenuti del mio blog e pertanto me ne dissocio apertamente.

 

Cibo: aveva ragione Henry Kissinger?

Bayer e Monsanto: dati e numeri, non solo sulla loro fusione

Bayer e Monsanto: dati e numeri, non solo sulla loro fusione

Chi controlla il cibo controlla i popoli, ammoniva il Segretario di Stato americano. Ora Bayer compra Monsanto per 66 miliardi di dollari e diviene la prima azienda al mondo nel settore delle sementi e dei prodotti per la difesa delle colture. La libertà agroalimentare mondiale è quindi in pericolo?

La risposta è no, ma già circolano su web immagini di demoni dagli occhi infuocati, con la scritta “Da Monsatan a Beelzebayer”. È più forte di loro: le multinazionali sono il Male e tutti noi siamo minacciati da esse. C’è anche chi, come Piernicola Pedicini, Capogruppo in commissione Ambiente, Sanità e Sicurezza alimentare al Parlamento europeo, intravede la possibilità che la nuova realtà sia in grado contemporaneamente di fare ammalare la gente, tramite pesticidi e ogm, per poi curarla con le medicine di Bayer. Si paventa anche un “Leviatano”, mitologica figura mostruosa e gigantesca, da 70 miliardi di euro di fatturato. Invincibile, secondo i Cinque Stelle.

La realtà, come al solito, è ben diversa. Non vi è dubbio che la nuova Bayer, Antitrust permettendo, possa diventare il più grande player mondiale, ma i 70 miliardi di euro sono un sogno agitato dopo una peperonata mangiata fredda. Una cifra del genere la fattura l’intero Gruppo Basf, il più grande colosso della chimica mondiale. Bayer, come gruppo, ne fattura circa 46. Come CropScience “solo” 10,37. Per lo meno leggendo l’annual report 2015 della società. Questi sarebbero per l’82% derivati dai prodotti per la disinfestazione e la difesa delle colture e per il 18% dalle sementi, ogm o meno che siano.

Monsanto, altro annual report 2015, di miliardi di euro ne ha raccolti 13,5. Uno in più di Coop in Italia. Sì, la “Coop sei tu” vende in Italia poco meno di quanto venda Monsanto in tutto il Mondo. Il suo assetto è però all’opposto di quello di Bayer: il 66% circa deriva dalla genetica, ovvero le sementi, il restante terzo del fatturato proviene da glifosate, l’unico agrofarmaco del colosso di St. Louis. Molto sbilanciata, Monsanto. Perché viste le vicissitudini di glifosate a livello europeo e l’ostracismo, sempre europeo, verso gli ogm, la stabilità dell’azienda nel lungo periodo non pare fra le più robuste. Urge quindi un cambiamento. Ci ha provato, Monsanto, a comprarsi lei Syngenta. Ma ha fallito. E la multinazionale svizzera è diventata cinese, acquisita da quella stessa ChemChina, statale, risponde direttamente a Pechino, che due anni fa si è comprata il 60% di Adama, ex-Makhteshim Agan, azienda israeliana numero uno al Mondo per i prodotti off-patent. Cioè quelli scaduti di brevetto ma ancora appetitosi per la creazione di nuove formulazioni e miscele. Ora pare se la voglia rilevare tutto. Nel 2015 si è presa pure il 65% di Pirelli, annunciando subito il ritorno del Marchio anche ne segmento agricolo, settore dismesso da Pirelli una decina di anni fa e rilevato dalla svedese Trelleborg.

Intanto, Dow e Dupont diventavano una cosa sola, creando un grande polo americano per la genetica e la chimica agraria dal potenziale fatturato mondiale di 14,2 miliardi di euro.

Quella di Bayer-Monsanto è quindi la manovra più rumorosa, senz’altro la più appariscente. Non certo la più importante, visto che la Cina sta muovendo passi importanti verso l’agricoltura occidentale, specialmente quella europea. Lo stesso acquisto di Syngenta è arrivato solo dopo che il Governo cinese aveva annunciato di voler investire molto di più in biotecnologie e ogm. La Cina vuole cioè coltivarseli in proprio anziché importarli da Brasile e Argentina. Syngenta non è la numero uno al Mondo per vendite di sementi, visto che stalla sui 2,5 miliardi di euro contro i nove di Monsanto. Però ha il know-how, le strutture, i cervelli e le genetiche tutte lì, a disposizione. E a Pechino poco ne cala che sul Pianeta non sia in testa alle vendite, perché è appunto al mercato interno che sta puntando. Non a caso, sono diverse le università cinesi che hanno già messo a punto nuovi ibridi geneticamente modificati, pronti a essere coltivati in campo. Laggiù, nel Celeste Impero, le istanze allarmiste e farlocche non pare abbiano presa, a differenza dell’Europa. Un’Europa che ha fatto arricchire la Cina comprando i suoi prodotti a basso prezzo e che ora si vede assediata dal colosso asiatico e dal suo cambio di marcia. Da un assalto meramente commerciale, basato su scarpe a 10 € al mercatino rionale, ora la Cina ci sta aggredendo sul piano industriale ed economico. E i mezzi finanziari per farlo glieli abbiamo dati noi.

Forse sarebbe di questo che il popolo dovrebbe quindi preoccuparsi. Bayer, se l’acquisizione si concluderà senza intoppi, diverrà un importante riferimento commerciale e tecnologico, altamente bilanciato. Avrà infatti un catalogo di agrofarmaci spesso come un elenco telefonico e amplierà il proprio portfolio di sementi e genetiche, biotech e non. Anche il rapporto fra semi e chimica si equilibrerà molto, visto che sarà quasi fifty-fifty. E chissà che non sia proprio grazie alla nuova Bayer che l’avanzata della Cina in Occidente venga rallentata e, forse, fermata. Vedere solo il male nelle cose, non è infatti un buon approccio mentale. Così come non lo è vedere solo il bene.

Con Henry Kissinger abbiamo aperto, con Henry Kissinger è bene chiudere. Prima di illudervi che le sue parole fossero una mannaia su operazioni come quella di Bayer-Monsanto, ricordatevi che Kissinger fu politico statunitense, di origine ebraica tedesca, membro del partito Repubblicano. Un liberista, un Ebreo, per giunta tedesco. Per di più Repubblicano. Eppure le sue parole sono state a lungo adoperate a vanvera da chi sputacchia veleni sul Partito repubblicano, sui complotti globali giudaico-capitalisti e sulle politiche industriali liberiste e su quelle economiche tedesche.

Trovare gli annual report non è difficile, visto che siete pratici del web. Scaricatevi quello delle multinazionali di cui sopra, quelli del 2015, e poi leggeteveli. Ma leggetevi anche quelli della succitata Coop, di Auchan e di Carrefour. La prima, come detto, fattura in Italia 12,5 miliardi di euro, uno solo in meno di Monsanto a livello planetario. Auchan vende in Europa per 54,2 miliardi di euro, cioè più del doppio di quanto assommino i fatturati di Bayer e Monsanto.

Infine Carrefour: 77 i miliardi di euro raccolti nel 2015. Il 10% in più di Basf, colosso numero uno mondiale della chimica. Notizia fresca fresca: Bernardo Caprotti, patròn di Esselunga, lascia. A 91 anni molla la sua creatura e la mette in vendita. Carrefour è in pole position, visto che già nel 2004 ci aveva provato, senza successo. Oggi potrebbe rifarsi avanti e accaparrarsi i 7,3 miliardi di euro fatti registrare nel 2015 da Esselunga. Ciò la porterebbe a superare la soglia degli 84 miliardi di euro, operando solo in Europa. Una cifra che è una volta e mezza le vendite globali di agrofarmaci. La sola Carrefour venderebbe cioè molto di più di tutte le multinazionali della chimica agraria messe insieme. E vende cibo. Parla ai consumatori. Ne indirizza le scelte e le preferenze. Gli agricoltori contano poco o nulla nelle filiere agroalimentari, raccogliendo solo le briciole dei prezzi alla vendita della loro ortofrutta. Sono cioè l’ultima ruota del carro, la Cenerentola che vive di avanzi. E se conta così poco l’agricoltura sui banconi dei supermercati, sulle scelte alimentari della gente, sui commerci globali di cibo e di materie prime, cosa volete che contino i fornitori dell’agricoltura, ovvero le multinazionali del seme, della chimica e delle macchine agricole?

Bravi: una cippa quadra.

Henry Kissinger aveva quindi ragione. Solo che i governatori del cibo, i padroni dei popoli, forse sono altri…

 

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